Fin dal principio della Chiesa primitiva la diaconia è ministero di quotidiana carità ma non mancano dei teologi che ne fanno risalire le origini nella celebrazione del culto (la mensa nel cristianesimo non è solo la “tavola” ma anche l’ara sacrificale). In ogni caso, dal punto di vista teologico, il diaconato ha rappresentato la “quinta colonna” del servizio sociale anche se vi sono stati frequenti periodi nei quali la diaconia ha perso la sua importanza originale. Fermo restando la tradizione ortodossa che avrebbe mantenuto più fedelmente il ruolo del diacono, la Chiesa Cattolica e quella protestante non sono riuscite a ristabilirne il ruolo nella Chiesa relegandolo entrambe a compiti di supplenza. È innegabile comunque che l’analisi storica non può prescindere dall’insieme delle questioni sociali e politiche che il cristianesimo deve affrontare nel corso della sua storia.
Sul diaconato vi sono molti luoghi comuni e molte lacune che bisogna colmare con la dovuta informazione (3 constatazioni). Innanzitutto non è vero che si tratta di un ministero istituito da Paolo di Tarso in quanto nelle prime comunità cristiane non c’è alcuna traccia di tale figura che, quindi, è posteriore al II secolo. Lo stesso Paolo in tutte le lettere di cui la critica testuale gli riconosce la paternità, non accenna a nessuno che abbia tale funzioni, eccetto il caso di Febe (Lettera ai Romani 16,1). In questo periodo la Chiesa è ancora parte della religione ebraica e la preoccupazione principale è di fare proseliti. La seconda constatazione è che in un secondo momento, quando il Vangelo fu adeguatamente diffuso e le comunità accresciute, si sentì l’esigenza di scindere il momento della proclamazione della Parola con quello dell’aiuto materiale (agape fraterna). Siamo intorno al 90 d.C. circa 30 anni dopo la predicazione paolina e la Chiesa si presenta come comunità universale sostitutiva delle religioni preesistenti. La terza constatazione è che più crescono le comunità si fanno palesi, più le strutture ministeriali acquisiscono influenza: di fronte alle masse di bisognosi e diseredati vi sono dei servizi a cui fare riferimento e che, quindi, creano consenso e visibilità. Il dato cronologico non basta ed è necessario utilizzare altri 3 indicatori per definire la figura del diacono: qualificazione, impegno e destinatari. Il diaconato è un ministero consacrato, mediante l’imposizione delle mani, dotato di proprie competenze e qualifiche (Atti degli apostoli capitolo 6). Secondariamente le necessità materiali vedono impegnata questa figura laddove ce n’è bisogno, cioè, le mense, le strade, le case dei poveri; i diaconi custodiscono la cassa e distribuiscono in base ai bisogni. Infine, i primi diaconi sono scelti tra gli ebrei di origine ellenistica, cioè, che non risiedevano stabilmente in Palestina ma che erano discendenti degli emigranti o della diaspora. Si tratta del nucleo più dinamico e progressista del primo cristianesimo che ne permise l’apertura ai gentili.
Nel corso del II secolo il vescovo Ignazio di Antiochia, poco prima del martirio sotto l’imperatore Traiano, scrive ad alcune comunità dell’Asia Minore in cui il ruolo dei diaconi appare in secondo piano rispetto ai presbiteri che assumevano funzioni liturgiche ma anche amministrative. Il ministero diaconale perde rapidamente il posto e la specificità originale per sottomettersi alle necessità pastorali. L’inizio delle persecuzioni, già in vigore presso gli ebrei, determina la necessità di dotare le diocesi di guide individuali affinché possano assumere decisioni rapide ed efficaci. Di conseguenza in assenza del vescovo, nelle funzioni liturgiche subentra il presbitero mentre il diacono, in piena fase di emergenza, è chiamato al pronto intervento. Il martire Giustino di Nablus intorno al 150 d.C. nelle sue “Apologie”, descrive il rito dell’offertorio in cui erano chiamati a partecipare anche i diaconi. Nelle chiese dei primi 2 secoli, la celebrazione eucaristica ha luogo nella cornice di un banchetto di comunione e di condivisione. Tutti i fedeli vi portano degli alimenti secondo le loro possibilità, i più abbienti ospitano oppure offrono in misura maggiore. Non soltanto si portano pane e vino ma anche olio e formaggio, cioè, alimenti piuttosto preziosi all’epoca. È compito dei diaconi raccoglierli e provvedere a distribuirle a seconda dei bisogni. Naturalmente ciò non avveniva senza problemi e talvolta si dovettero riscontrare anche degli abusi come racconta Erma nel suo “Il pastore” (IX, 26,2).
Essere diacono nella città romana significa esporsi al pubblico ludibrio ed alle critiche, spesso maliziose, di una società che tendeva spesso a confondere i valori: i cristiani furono trattati da antropofagi a causa dell’eucaristia, oppure da incestuosi a causa dell’agape fraterna. Accusati di attirare la collera degli dei ingannati, i diaconi subirono in prima fila la pressione e la persecuzione della città ostile al loro messaggio come è tramandato negli “Atti dei martiri”. Secondo Tertulliano è proprio la pratica specifica della diaconia a imprimere un marchio infamante alle comunità cristiane. Secondo altri il cristianesimo era entrato in competizione con l’impero romano a causa della sua capacità di vincolare le masse attraverso la pratica del servizio sociale (cfr. Sozomeno, Storia ecclesiastica V, 16 che riporta una lettera che Giuliano l’Apostata invia ad Arsacio scrive che “la religione dei cristiani ha rivendicato la filantropia verso gli stranieri” e che “i galilei danno nutrimento ai loro poveri ed anche ai nostri“, p. 97). Anche i romani, infatti, avevano delle istituzioni assistenziali, spesso e volentieri strumentalizzate a fini di controllo sociale, e non intendevano certo lasciare il passo al cristianesimo. Un’ultima questione di questo periodo riguarda il diaconato femminile. La prima lettera a Timoteo attribuisce alcuni compiti di assistenza alle vedove che alcuni storici identificano con delle diaconesse sebbene l’autore della lettera non le chiami mai in maniera così esplicita. Nondimeno gli storici vedono in questo l’importanza del cambiamento di vita operato al diaconato che, nell’ambito della discriminazione di genere operata sia dall’ebraismo che dal paganesimo, forma un senso di rivincita per questa categoria di persone e costituiranno del sostrato culturale che fa oggi della donna la rappresentate più quotata dell’assistenza sociale.
All’inizio del III secolo, il ministero diaconale ordinato si conferma e consolida le sue acquisizioni. La struttura gerarchica dei ministeri tenderà a divenire normativa e a sostituire quella romana e il diacono divenne ben presto uno dei gradi subalterni della scala sacerdotale. Le sue competenze sono quelle di sempre ma non presiede la messa né conferisce la comunione (sebbene gli atti del Concilio dicano il contrario in realtà si riferiscono a casi più che rari) a meno che non si tratti di malati o assenti; in ambito liturgico però continua ad esercitare alcune attività minori, es. annuncia un intenzione prima della proclamazione del Vangelo (monizione), raccomanda il segno della pace tra i fedeli, porta l’olio battesimale e discende col catecumeno nella vasca (a causa della differenza di sessi, a discendere doveva esserci una donna ma ciò non significa che avesse le stesse funzioni di un diacono maschio ma neppure degli ordini minori). Per Ippolito romano il diacono è il padiglione del vescovo al quale deve riferire sulla condizione dei poveri e dei malati e ricevere da lui direttive sul da farsi. In Oriente le competenze sono le medesime (cfr. Didascalia apostolica) se non per il fatto che la sua decadenza fu meno rapida. Dopo l’editto di Milano e la secolarizzazione della Chiesa, le competenze dei diaconi sono sempre più assorbite dalle incombenze amministrative dei vescovi e dei presbiteri come, ad es., accompagnarli nei loro viaggi o portare delle lettere. Tale differenziazione dei compiti contribuì in un certo senso a porre in secondo piano il servizio caritativo. D’altronde la sua dipendenza, contribuì allo svuotamento del carattere caritativo, a prescindere dall’importanza dei suoi compiti e a nulla valse l’istituzione dell’arcidiacono, supervisore del collegio dei diaconi, a rivalutare tale figura.
Poiché la diffusione del cristianesimo nelle campagne rende sempre più difficoltosa la concentrazione dei fondi nelle mani del vescovo, questi delega le parrocchie e i curati all’amministrazione della cassa. Ma, con le invasioni barbariche, le comunità esprimono sempre più il bisogno di nuovi “servitori sociali” piuttosto che dei soliti ministri ordinati, perciò, a fronte della nascita e dello sviluppo del monachesimo, saranno i monaci e i religiosi delle confraternite a ricoprire quel medesimo ruolo che era stato assunto per i primi secoli dal diacono. Già nel 370 c’era stato l’esempio di Basiliade la città assistenziale fondata dai Padri Cappadoci. Agostino, riprendendo il passo di Mt 25, collega la perdita del senso caritativo con la fine dei tempi, al momento in cui l’impero vacilla. I regno romano-barbarici, tuttavia, non furono quella progenie di anarchia come si pensa altrimenti la Chiesa non sarebbe sopravvissuta, analogamente il Medioevo non fu solo un periodo di oscurantismo e decadenza. Se da una parte le città si spopolano in favore delle campagne e i presbiteri iniziarono ad assumere una certa importanza, d’altra parte il diaconato è chiamato a contribuirvi mediante la predicazione. Nell’incapacità di assumere le miserie materiali, il popolo si rifugia nel sovrannaturale, nell’apocalittica, si allontana dalle chiese ed esercita le pratiche esteriori. Intanto lo Stato e la Chiesa si rafforzano, potendo adesso contare anche su proventi fiscali (la Chiesa riscuote le decime, lo Stato un terzo di ciò che possiede la Chiesa) di cui solo ¼ andava ai poveri di fronte ai quali furono proposte varie iniziative: dall’istituzione delle “matricula“, cioè delle liste di assistiti che furono all’origine delle case dei poveri e degli ospizi, al secondo sinodo di Tours che tenta di rianimare la funzione del diaconato ordinato. Ma una sorta di rinascita si ebbe solo con la riforma cluniacense.
Al monachesimo si deve la conversione dei Franchi a cui si deve l’organizzazione dello Stato medievale a cui si deve il legame sempre più stretto con la Chiesa cattolica. Grazie al contributo dei carolingi, i monaci intraprendono una vasta attività missionaria verso le popolazioni germaniche a cui sono chiamati a contribuire anche i diaconi: non basta battezzare i popoli in massa ma anche formarli alla fede (catechetica). Nel IX secolo, accanto ai monasteri e alle congregazioni, ad esercitare l’assistenza sociale si pongono i feudatari (cavalieri che si sono distinti per il loro valore e che hanno ricevuto fondi e proprietà su cui stabilirsi e imporre le tasse) ai quali Carlo Magno attribuisce la qualifica diaconale di “protector et defensor pauperibus“; lo stesso imperatore, durante il discorso di intronizzazione, si definì “primo fra tutti i diaconi”. Il servizio diaconale di Stato tuttavia il più delle volte delegava l’assistenza al clero, quindi, i contadini si ritrovavano a pagare 2 volte per un unico servizio (tasse e decime) laddove la parrocchia diventava il braccio secolare della legge (“per secoli ogni villaggio vive all’ombra del suo campanile“, p. 138)! In realtà il rapporto feudale era soffocante e oppressivo: il padrone garantiva al contadino la sua sicurezza fisica al prezzo del suo asservimento: sicurezza contro libertà. Ben presto però emersero delle tensioni provocate dal rinnovamento teologico: da una parte una teologia di scuola (scolastica), d’altra parte una pietà laica, popolare e mistica (pratiche esteriori). Questo è il quadro in cui si staglia la riforma cluniacense (XI secolo) che, riprendendo l’equilibrio tra parola e gesto della regola benedettina, subordinò l’attività caritativa sotto la voce “lavoro”: praticare l’ospitalità, promuovere l’assistenza e favorire il retto agire delle persone. Un ulteriore impulso viene dato dai francescani che fondano ospedali e banchi di pegno. È nella storia medievale degli ospedali che nascerà quel diaconato delle case di servizio protestanti.
Poiché le due funzioni del ministero di diacono (liturgica e assistenziale) furono progressivamente separate nel corso della storia, la seconda ritrova un posto indipendente dai ministeri clericali mentre quella liturgica si confina in un ruolo cultuale subalterno ma senza una specifica pertinenza diaconale. Questa separazione si conferma nel corso del Medioevo e il diacono ordinato rimane un ministro senza grande importanza né concorrenza. Oltre alla scuola cistercense (Cluny) anche quella di San Vittore ha offerto contributi teologici per lo sviluppo della carità come fondamento della diaconia ritrovata: “Grande è la forza dell’amore, sorprendente la potenza della carità” (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità). L’esaltazione dell’amore cortese, abbinata alla venerazione mariana (la Madonna come modello perfetto di moglie e madre) elevò la femminilità a modello di santità e di abnegazione quotidiana. Nasce il fenomeno delle beghine, dalle ceneri delle confraternite funerarie per venerare i defunti, che vivevano in comunità secondo i voti ufficiali (povertà, castità e obbedienza), di cui ne furono esempi Ildegarda di Bingen (1098-1179), Matilde di Magdeburgo (1207-1210), Maria di Oignies, Margherita Porete (1250-1310), Maria di Turingia (1207-1231) che fondarono a vario titolo opere per poveri. I francescani soffrirono la scissione degli spirituali che, fedeli all’esempio del fondatore, rifiutarono i privilegi e le dispense papali. Sia le beghine che i begardi, la loro controparte maschile, furono perseguitati dalla Chiesa con l’accusa di eresia ma, al di là dei toni propagandistici, era chiaro che si trattava di un fenomeno che stava mettendo in discussione l’autorità della Chiesa.
Dal XIII al XV secolo la realtà urbana prende il sopravvento su quella rurale e, perciò, sotto la spinta della borghesia, nascono nuove istituzioni comunitarie ed una nuova sensibilità assistenziale: le corporazioni di artigiani, le gilde e le fondazioni private sono nell’ambito temporale, ciò che gli ordini monastici sono in campo spirituale. L’ideale di povertà, in principio espressione di un’ascesi di rinnovamento, ben presto degenera in devianza che, in relazione ai mutati flussi migratori, alimenta la miseria all’interno ed alla periferia delle città. Di fronte alla mendicità crescente, le autorità urbane ricorrono a espedienti di natura coercitiva come, ad es., ad Augusta nel 1459 dove si vietò il fenomeno del “porta a porta” nonché l’impossibilità per gli stranieri di elemosinare per più di 3 giorni di seguito. L’assistenza caritativa, in altre parole, si evolve sempre più verso il controllo e la sicurezza sociale, persino gli ospedali, in molte città tedesche, furono sottoposti alla vigilanza di un magistrato. Siamo all’origine della solidarietà moderna in cui la diaconia ecclesiale riemerge sotto il controllo dell’autorità civile e i riformatori protestanti, approfittando dello status quo, si offrono di restituire alle chiese quella pratica diaconale che nel corso dei secoli si era perduta. Prima di Lutero, Geiler di Kaysersberg aveva denunciato il sistema disordinato della diaconia clericale che, seppur sospinta da buoni propositi, condannava i vagabondi ad un ruolo passivo e parassitario. A Strasburgo nel 1523 i consiglieri della città compilarono l’inventario dei fondi diaconali annualmente distribuiti dai differenti organismi religiosi e istituirono un’organizzazione diaconale civile e pubblica ma non clericale. Nello stesso anno un’ordinanza nella città di Norimberga stabiliva l’assistenza pubblica (gemeiner Almosen): al centro i nuovi ispettori (oberpfleger), emanazione dell’autorità suprema, fiancheggiati da un intendente o supervisore dell’esecuzione dei compiti diaconali che sostituisce la figura dell’arcidiacono antico. Intorno a questi nuovi ministri furono posti nove diaconi laici (pfleger) o curatori di parrocchie, quindi non ordinati, che si dividevano l’esecuzione dei compiti sul campo. Completano l’organizzazione circa una dozzina di aiutanti (suddiaconi).
Nel 1517 il monaco agostiniano e docente di Sacra Scrittura Martin Lutero affigge sul portale della cattedrale di Wittembegr le sue 95 tesi di cui al n. 45 sta scritto: “bisogna insegnare ai cristiani che ci vede un povero e trascuratolo, acquista le indulgenze, chiama su di sé non le indulgenze del Papa ma la collera di Dio” (p. 226). Le reazioni da parte del commissario cittadino Johann Tetzel e del teologo Johann Eck furono di ferma condanna a cui Lutero rispose di essere nemici del popolo. Eccetto i toni polemici e tutte le vicende che riguardarono la vicenda, Lutero non si proponeva di creare uno scisma nella Chiesa ma di rinnovarla epurandone gli elementi che l’avevano deteriorata nel corso dei secoli. La diaconia, secondo il riformatore tedesco, non doveva appartenere ad una classe specifica di persone ma a tutti i fedeli, essendo la carità la principale espressione dell’amore di Cristo. Lutero distingueva tra consacrazione di coloro che si occupavano al servizio della parola e ordinazione di coloro che venivano battezzati. Tutti, perciò, laici e chierici senza distinzione, potevano considerarsi a tutti gli effetti ordinati da Cristo mentre i ministri della parola erano consacrati alla predicazione ed alla somministrazione dei sacramenti. La distinzione non è da poco: l’assistenza sociale non è più una competenza ecclesiastica ma della società intera e, quindi, dello Stato moderno che si stava formando. Dal punto di vista storico, Lutero dice che l’istituzione del diaconato (At 6,1-7) si era resa necessaria in un periodo in cui la Chiesa si stava sviluppando e i ministri della parola erano sovraccarichi di competenze ma nel XV secolo questi problemi non c’erano più e l’obiettivo principale era di rinnovare nei fedeli la responsabilità ecclesiale. Lutero legge perfettamente la storia del passato in cui il presbiterato non aveva le funzioni che assunse in seguito ma dimentica un particolare: Lutero voleva imitare Gesù Cristo che pure mise in discussione la società del suo tempo ma si fece giudicare dai suoi accusatori, perdonandoli all’occasione, invece, Lutero approfittò della situazione per rimarcare le distanze sia con i cattolici sia con gli ebrei alimentando l’odio e l’antisemitismo (cfr. Martin Lutero, Gli ebrei e le loro menzogne, 1543).
Nel 1523 Martin Lutero elaborò un progetto di una “cassa comunitaria di carità” per la città di Leisning nel Principato di Sassonia. Lutero ripose molte speranze in questa iniziativa anche e sopratutto per confermare le sue proposte di rinnovamento. Il suo principale bersaglio furono i monasteri e le congregazioni per 2 motivi: la diffusione delle pratiche esteriori (indulgenze, novene, messe di suffragio, pellegrinaggi) e l’arricchimento con privilegi e lasciti. Grazie all’autorità del magistrato che era subordinato al Principe di Sassonia, Lutero riuscì ad ottenere la confisca dei loro beni e, in tal modo, a garantire la capacità fiscale della cassa di carità che fu in seguito alimentata da nuove tasse. De conventi rimasti se ne fecero scuole per ragazzi e ragazze. La direzione della cassa era affidata ad un consiglio di cui facevano parte le famiglie della città, dei notabili e dei borghesi, sotto la sorveglianza del vescovo, mentre la distribuzione, in giorni prestabiliti, era affidata a dei preposti (fursteher) in ricordo dei vecchi diaconi. I preposti dovevano curare la redazione dei libri contabili (entrate, uscite e inventario) ed erano sorvegliati da due mastri d’opera (bawmeister) responsabili dei beni immobili (chiesa, scuole, ospedali, etc.). La soppressione dei monasteri, tuttavia, non fu riconosciuta da tutta la popolazione che scatenò una rivolta (guerra dei contadini del 1524-1526) che fu repressa nel sangue: la borghesia assunse tutti i poteri escludendo sia i diaconi che i vescovi affidando l’amministrazione della cassa al magistrato. I fallimenti di Lutero indussero i successivi riformatori a correggere i toni della protesta. Ciò ebbe ripercussioni nella neonata Repubblica Teocratica fondata a Zurigo dal prete Ulrico Zwingli che pure adottò un sistema simile fatta eccezione del diaconato che fu il laboratorio sperimentale della moderna concezione del servizio sociale. Il regolamento sull’elemosina prima (1520) e l’ordinanza e articoli sulla carità dopo (1525) riformarono l’organizzazione assistenziale svizzera attribuendo l’amministrazione della cassa comunale al magistrato a cui era affidato il coordinamento dei diaconi deputati alla distribuzione dei beni ai poveri meritevoli cioè coloro che mostravano di voler cambiare vita e uscire dalla mendicità e che, perciò, portavano un distintivo che li qualificava. Ne erano esclusi, quindi, gli “abili poveri” cioè tutti coloro che si erano caratterizzati per attività illecite o comunque immorali (ozio, etilismo, lenocinio, etc.). Gli scolari poveri ricevono un sussidio settimanale ma non più di otto per scuola. Gli orfani sono assegnati alle famiglie di coltivatori. Dato il valore e la somma dei beni a disposizione nel servizio diaconale, si comprende di come la posizione di arcidiacono abbia avuto un’importanza sempre maggiore, dal momento che il suo titolare doveva provenire dai ranghi della magistratura. Gestendo una tale fortuna, il diacono svolgeva un ruolo di primo piano con i rischi di slittamento capitalista inerenti a questo genere di impresa. Il diaconato svizzero, perciò, fu abolito nel 1566 (Confessione elvetica posteriore) e i preposti zurighesi non ebbero più nulla a che vedere con la Chiesa, tranne quella sfumatura per la quale la riforma zwingliana identificava la società civile.
Per il monaco domenicano Martin Bucero la diaconia è legata alla realtà della Chiesa tanto nell’intimità del credente che nelle forme istituzionali, perciò, la Chiesa vive su 2 piani: verso la comunità degli eletti e verso tutti i chiamati (doppia ecclesiologia). Spinto da una concezione etica della Chiesa, animatrice dei 2 livelli ecclesiali, cercò di restaurare un ministero diaconale che sotto Lutero e Zwingli era stato ridotto ad un ruolo civile. Nel sinodo di Strasburgo (1532) fu proposto di reintrodurre la molteplicità dei ministeri (multitudinismo) che animavano le comunità dei primi secoli tra cui anche i diaconi che, però, a differenza della Riforma luterana, si presentavano come ministri della Chiesa, quindi ordinati mediante l’imposizione delle mani e persino aperti alle donne; analogamente, furono ripristinati i beghinaggi nominando alla loro guida persone di fiducia. Lo scopo di Bucero è di creare una Chiesa di “èlite” che in maniera ideale illustri al resto dell’umanità su come comportarsi in prossimità della fine dei tempi (Zwingli riteneva che tutta la Chiesa doveva identificarsi con la società). Bucero, naturalmente, avrà il tempo di lasciarsi vincere dal disincanto circa le sue speranze di rinnovamento in una Chiesa dove eletti e reprobi furono sempre presenti. Un’altra caratteristica della riforma di Bucero fu di reintrodurre la “questua” cioè la colletta delle offerte durante il culto di modo che la cassa comunale fosse amministrata direttamente dai responsabili degli enti di assistenza e, quindi, non più dal magistrato come era accaduto a Zurigo né dal papa come accadeva a Roma, es. il collettore dell’Ospizio di Santa Barbara subentrava poco prima dell’offertorio per esortare i fedeli alla generosità. Questo ritorno alle origini non implica necessariamente una concezione liturgica del gesto materiale ma si concretizza in una riorganizzazione che consiste nell’inserire nel culto un momento di solidarietà. Nonostante ciò la liturgia protestante preservava il suo carattere di reazione contro una concezione medievale della messa romana. A Strasburgo, Bucero non ebbe né il tempo né il potere di realizzare la sua riforma lasciando al suo discepolo Luca Hackfurt, il diacono della città, il compito di rendere la diaconia più integrata nel contesto ecclesiale e di proteggerla dagli intrighi della borghesia.
A imitazione di Bucero, Calvino ripropose l’articolazione tripartita del ministero diaconale (assistenza, culto e consacrazione) ma, diversamente da lui, ridusse i ministeri a solo 4 tipi: pastorato, dottorato (insegnamento), diaconato e presbiterato (alcune ordinanze non menzionano né dottori né anziani assimilandoli al pastorato). Al pastore furono assegnate la predicazione, la presidenza delle cerimonie rituali e l’assoluzione dei peccati. Al diacono spettava l’amministrazione della cassa comunale e degli ospedali, la raccolta dei fondi e la loro distribuzione ma sopratutto, e qui sta la novità, la visita dei poveri a domicilio. Calvino, riprendendo la lettera ai Romani, ritiene che già in passato vi fossero dei diaconi che si occupavano di compiti assistenziali e, quindi, non propriamente cultuali (Rm 12,8) ma che le cui competenze sono state manipolate per fini liturgici (servire l’altare, recitare i salmi, tenere il calice per l’eucaristia, etc.). Nonostante questa aspra critica alla Chiesa tradizionale, Calvino ritenne di dover restaurare l’autentica funzione liturgica del diaconato e più precisamente nell’ambito della frazione del pane, proprio lui che era stato il teologo che aveva negato il dogma della transustazione ovvero della trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo! Eppure “l’offerta eucaristica rimane senza effetto se non prosegue nel dono diaconale per il mondo e l’offerta materiale rimane teologicamente vana se non trova un fondamento in Cristo” (p. 336). Riguardo alle pari opportunità, Calvino ritiene ci fosse lo spazio per il genere femminile nel diaconato purché, nel rispetto del dettato paolino, avessero compiuto almeno sessantanni ed avessero rinunciato ad occuparsi delle loro case. In altre parole Calvino riteneva che le donne non potevano allo stesso tempo occuparsi dell’assistenza dei figli e dei poveri pur riconoscendone delle qualità specifiche (spirito di servizio, abilità nelle cure, capacità di aiuto). Secondo Calvino, inoltre, sebbene in caso di necessità una donna poteva parlare in pubblico, normalmente doveva tacere durante il culto ufficiale (cfr. Morris L., Prima lettera ai Corinzi, p. 238).
Come molti riformatori, anche Calvino ebbe dei ripensamenti (contrariamente a Lutero, Bucero e Zwingli, Calvino non fu un ministro ordinato e giustificò la sua attività pastorale in virtù di una vocazione profetica direttamente ricevuta da Dio). Nelle ordinanze del 1541 e del 1561, tra le competenze diaconali, non figuravano quelle cultuali né liturgiche, ricalcando quanto già aveva fatto Zwingli. Probabilmente ha agito così per non alimentare conflitti tra l’autorità religiosa e quella politica. In realtà “la teoria dei rapporti tra Chiesa e Stato, quale è stata elaborata da Calvino, è tanto lontana dalla dottrina di Zwingli che finiva per confondere Chiesa e Stato, quanto è differente dalla sottomissione delle Chiese allo Stato alla quale si era pervenuti in Germania (…) Come Bucero, Calvino sembra aver intuito che la situazione postcostantiniana della Chiesa implica uno sdoppiamento istituzionale della cristianità in strutture e leggi da una parte ecclesiastiche e d’altra parte civili. Pur volendole complementari, egli crea tuttavia il rischio di un processo di separazione e di secolarizzazione senza che il contesto del suo tempo gli possa permettere di oltrepassare il concetto di uniformità civile ed ecclesiastica. Accettare la secolarizzazione nascente sarebbe stato per lui sottoscrivere un’ecclesiologia di tipo radicale e settaria, negando l’origine divina dell’autorità temporale” (p. 344). Calvino fallisce, così come ha fallito Lutero (progetto di Leisnig) e come ha fallito Bucero (doppia ecclesiologia) perché è l’autorità civile che ci guadagna nel processo di riforma essendo investita dell’autorità che attribuisce il potere giuridico sulla gestione del potere. Il consiglio cittadino, defraudato della figura di garanzia del magistrato, entra ben presto in crisi, diventando il fulcro di tensioni e compromessi che porteranno alla nascita dello Stato moderno.
Citazioni tratte da Hammann G., Storia del diaconato, Magnano (BI), Qiqajon, 2004.