Recensione di Luigi Badolati su Zucconi A., 50 anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Napoli, L’ancora del sud, 2000, ISBN 88-8325-020-6.
Dal 16 settembre al 6 ottobre 1946 un convegno si tenne a Tremezzo, in provincia di Como, in un periodo storico particolare: la Monarchia era caduta e il governo si poggiava su una coalizione tra partiti ideologicamente molto distanti tra loro di concerto con l’Assemblea Costituente che assolveva le funzioni parlamentari. La scelta della località non fu casuale giacchè si pensava che con la fine di Mussolini, avvenuta a Dongo a 18 km di distanza, sarebbe iniziata una nuova era politica del paese. Tuttavia con l’inizio della Guerra Fredda e la divisione del mondo in due blocchi ideologici, si acuiva sempre più la distanza tra coloro che erano orientati a valori tradizionali e coloro che spingevano verso obiettivi più radicali (es. ONARMO e CEPAS), non tradendo quel caso italiano di cui aveva parlato persino il De Felice. Il convegno era stato voluto dall’Amministrazione Aiuti Internazionali (AAI), dalla Pontificio Opera di Assistenza (POA) e dall’Unite Nation Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), che lo aveva impostato in base a programmi anglosassoni sull’onda del New Deal e del Beveridge Plan (p. 85). Un primo conflitto di attribuzioni nacque in seno al governo per stabilire quale organo avrebbe dovuto occuparsi dell’assistenza: «quattro mesi dopo le competenze del Ministero di assistenza post bellica passarono al Ministero dei lavori pubblici» (p. 86) il che però era un paradosso dato che se ne era sempre occupato il Ministero degli Interni. Ulteriori scismi colpirono il sindacato (scissione di Palazzo Barberini) e lo stesso convegno di Tremezzo:
«A rileggere le pagine degli Atti del Convegno di Tremezzo si nota una cosa straordinaria: per molti problemi c’era allora pacchetti di proposte concrete, praticabili e aggiornate sull’esperienza di Paesi più avanzati del nostro. L’Europa era allora davvero vicina. Ogni relazione era chiaramente frutto di varie settimane dedicate alla raccolta di dati e di idee. Ebbe un ruolo fondamentale il tema della formazione professionale. Cinque delle relazioni più significative riguardarono la formazione degli assistenti sociali. Poiché pareva imminente l’istituzione dei vari servizi sociali si riteneva ovvio occuparsi della formazione del personale professionale che li avrebbe gestiti. Alcune scuole erano già nate, altre stavano per nascere. Altre ancora si riaffacciavano per riprendere il posto che avevano avuto al tempo del fascismo. La voce più autoritaria era quella di una nobildonna che aveva diretto la scuola per Assistenti sociali di fabbrica del Partito nazionale fascista, una delle tre scuole di partito (insieme alla scuola per puericultrici e quella di economia domestica) e che allora dirigeva a Milano la scuola per Assistenti sociali del lavoro, fondata e finanziata dalla Confindustria. In aperto contrasto con il paternalismo di quella relazione, parlò Maria Calogero Comandini che aveva diretto il movimento femminile del Partito d’Azione e si preparava insieme a Guido Calogero a fondare il Centro d’educazione professionale per assistenti sociali che sarà inaugurato nel febbraio del 1947. II doloroso scioglimento del Partito d’Azione era già avvenuto un anno prima. Il Convegno era nettamente diviso tra chi voleva e chi non voleva le riforme e l’istituzione dei servizi sociali. Prevalsero i secondi. La “piantina non sarebbe cresciuta” e l’utopia non diventò “la politica di domani”. Prevalse la politica assistenziale demagogica del giorno per giorno, di cui tuttora paghiamo i debiti e degli Atti di Tremezzo non restò che l’odore di quelle notti passate a cantare» (pp. 85-86).
Il convegno di Tremezzo aveva stabilito che la formazione delle assistenti sociali fosse imperniata sul “programma Fullbright” di tipo “neighborhood” anglosassone, “microrajon” sovietico e “kibbutz” ebraico. In tal modo l’Istituto Nazionale Assicurazioni (INA) affidò al CEPAS la gestione del centro sociale del quartiere di Tormarancio in Roma e di La Martella in Basilicata dove operava l’Unione per la lotta contro l’analfabetismo (UNLA). Agli inizi del 1947 la vita a Roma era ancora soggetta a dure privazioni con un alto costo della vita e la lira inflazionata ma le istituzioni fasciste quali l’ECA, l’INPS e l’INAIL non avevano mai interrotto l’assistenza (p. 87). Il Comitato centrale per l’educazione popolare (CCEP) affidò al Cepas una serie di corsi da tenere al centro sociale:
«Il primo compito affidato alla scuola, nel contesto di questa convenzione, fu l’istituzione di un vero servizio sociale nel nuovo villaggio de La Martella, a cinque chilometri da Matera. Il Centro sociale era oramai diffuso in quasi tutti i villaggi dell’Unrra-Casas; avrebbe dovuto alleviare il fatto che i villaggi nuovi non erano dei veri villaggi e sorgevano alla periferia del paese vero, morto, ma sempre presente con lo spettro delle sue rovine. Toccava infatti alle amministrazioni comunali cedere gratuitamente le aree su cui dovevano sorgere le nuove case, e questo privò l’Unrra-Casas della possibilità di scegliere le ubicazioni e di adeguare le costruzioni ai terreni. Così questi villaggi, che a confronto con il paese vecchio e distrutto sembravano di cartone, «rivelano ancora oggi l’ideale onestamente rurale, ma arcaico e socialmente primitivo al quale anche per necessità di cose si attennero quei premurosi costruttori». L’Unrra-Casas aveva sempre accompagnato l’insediamento degli assegnatari con un servizio di assistenti sociali, organizzato in vari distretti che facevano capo a Roma all’ufficio Incremento economico e sociale. L’incremento economico era sempre rimasto al livello di un’aspirazione. Paolo Volponi, che per un certo tempo fu destinato da Olivetti a questo servizio (per poi passare alla direzione dei servizi sociali della Società Olivetti), dopo aver girato per i vari nuovi villaggi Unrra-Casas, uscì con una frase scherzosa ma amara, diceva che si sarebbe dovuto distribuire a tutte le famiglie degli assegnatari almeno un bollitore con il fischio per dare l’impressione ai numerosi visitatori che esisteva nel villaggio una qualche attività economica. L’appartamento destinato a Centro sociale era «una specie di grazioso orticello per coltivare i propri assistiti». Certo la realtà spesso era ancora assai modesta. «Quanto alla cura fisica del corpo, l’Unrra-Casas ci ha fornito un pallone che passa di villaggio in villaggio», leggiamo nella relazione di un assistente sociale (p. 115).
Tali centri sociali erano molto diversi da quelli che conosciamo oggi, in quanto orientati al modello utopista di Adriano Olivetti e di Frederick Friedmann. L’esperienza dell’autrice si estese anche in Sud America dove Olivetti stava preparando la “scienza di orientamento” che non era molto diversa da quella psicotecnica già introdotta da Agostino Gemelli. Lo stesso Olivetti aveva fondato il Movimento comunità così come definito nel documento ONU “Social progress through community development” che fu il pretesto per la fondazione nel 1956 della Federazione italiana dei centri sociali ispirati al modello anglosassone (nel 1943 era stato arrestato con l’accusa di essere una spia degli americani). Nel 1958 vi erano 72 Centri solo nel Canavese da cui era partito il Movimento. Lo stesso Adriano Olivetti divenne vicepresidente dell’UNRRA e, di lì a poco, entrò in politica ma non ebbe proseliti (p. 154).
Nel 1957 l’Unesco finanziò con 25 milioni di lire un progetto di sviluppo della Valle dell’Aventino in Abruzzo, in provincia dell’Aquila (Pescocostanzo, Rivisondoli, Ateleta, Roccapia e Roccaraso) sui grandi altopiani situati a 1200-1300 metri di altitudine, e in provincia di Chieti (Colledimacine, Lettopalena, Montenero-domo, Palena, Taranta Peligna, Lama dei Peligni e Torricella Peligna) alle falde della Maiella, che aveva riportato ingenti danni nell’ultimo conflitto:
«Il Progetto pilota per l’Abruzzo fu presentato all’Unesco nel marzo del ’57 dall’Unrra-Casas e dal Cepas. La richiesta all’Unesco era motivata soprattutto dal riferimento al lavoro di Comunità di Portorico, che l’Unesco aveva largamente illustrato e al quale il nostro progetto si ispirava. Nel gennaio del ’58 l’Unesco approvò ufficialmente il progetto concedendo l’assistenza tecnica di un esperto di educazione degli adulti, il finanziamento di stage per l’addestramento del personale, un contributo per attrezzature audio-visive. Come esperto dell’Unesco fu nominata Florita Botts. Il Cepas scelse un gruppo di assistenti sociali» (p. 156).
Il territorio, infatti, attraversava la ex “Linea Gustav”, teatro di scontri tra tedeschi e americani:
«I paesi erano stati tutti evacuati, alcuni distrutti oltre il 75%. Il sessantaquattro percento della popolazione del nostro comprensorio era dedito all’agricoltura. Ma si trattava oltretutto di un’agricoltura disperata, con una disperata cerealicoltura, che nella fame trovava la sua origine e al tempo stesso la perpetuava. Uno sbocco doveva essere l’incremento degli allevamenti di bestiame. Ma il livello di partenza era disastroso. Il 30% dei bovini era affetto da brucellosi, il 10% da tubercolosi; era difficile parlare di razza, perché il bestiame era stato portato via o ucciso dai tedeschi e tra i primi esemplari bovini arrivati in dono dai vari enti stranieri per il ripopolamento, c’era di tutto, con la conseguenza che una serie di incroci e reincroci aveva confuso del tutto le razze. La produzione di latte comunque si aggirava fra i tre, quattro litri giornalieri per capo. Come campione la nostra zona era indovinata. Qui si ha la ventura di poter toccare con mano quasi tutti gli aspetti più patologici e negativi dell’agricoltura di sussistenza. Si potrebbe quasi dire che i diversi aspetti della questione meridionale si manifestino in un simile ambiente in tutta la loro completezza e tragicità. Ai nostri studi preliminari della zona, si aggiunse uno studio che Adriano Olivetti promosse, affidato a un noto sociologo della cooperazione. La mancanza di spirito di collaborazione nelle cooperative, cosa che Albert Meister notò nella sua relazione, non era un episodio isolato, ma caratterizzava tutta la regione. Negli Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disoccupazione sì notava come i velleitarismi locali coltivati dai politici del luogo, costituissero «il più grave ostacolo ad una concorde azione di tutte le forze economiche della Regione» (pp. 157-158).
Le assistenti sociali dell’Ina e del Cepas, chiamate ad operare, dovettero effettuare il primo colloquio con il nucleo familiare e poi custodire le richieste tramite l’allocazione dei figli a scuola appoggiandosi agli Enti Comunali di Assistenza (ECA) e all’Ente Nazionale Prevenzione Infortuni (ENPI):
«Ogni assistente sociale si presentava formalmente alle famiglie del paese dove era destinato a atteneva con loro sui temi che potevano essere oggetto di un nostro eventuale intervento. Partivamo già con gli stati di famiglia che avevamo avuto dai Comuni, per cui era più facile avviare il dialogo e trattare i vari argomenti: scuola, emigrazione, salute, bestiame, casa, artigianato eccetera. Le tante pagine delle interviste furono raccolte in un volume, comune per comune, nel giro di un mese. Dai colloqui con le famiglie risultò un primo punto essenziale: tutte davano un’importanza enorme alla scuola, le attribuivano un tale valore che allora ci sorprese e oggi, messo a confronto con il mondo presente, ci umilia. La scuola per loro era la sola via perché i figli, maschi e femmine, non avessero la sorte che avevano avuto loro, isolati nei lunghissimi inverni di quei paesi di montagna, senza sbocco che non fosse quello di lasciare tutto e andare a lavorare all’estero. Quattro anni prima che venisse istituito per legge l’obbligo di frequentare la scuola fino a quattordici anni, il Progetto riuscì a far proseguire gli studi a un centinaio di ragazzi che avevano la licenza della scuola elementare. Vivevano in piccoli comuni isolati e inaccessibili in inverno, lontano dai tre comuni più grandi provvisti di scuola media: Casali, Rivisondoli e Castel di Sangro. Si discusse anzitutto con le famiglie di Pietransieri (frazione di Roccaraso distante 5km), l’eventualità di organizzare un piccolo pensionato a Rivisondoli dove tredici bambini potevano risiedere e frequentare la scuola media» (pp. 158-159).
Durante e dopo la guerra molti contadini avevano trovato rifugio in alloggi di fortuna in campagna con delle case costituite da monolocali privi di servizi:
«Le famiglie in un baleno si accordarono, presero tutte insieme un appartamento in una casa vicino al parroco (perché anche lui avrebbe potuto darle un’occhiata e una mano), portarono da casa letti, materassi, legna, viveri, e sistemarono ogni cosa con l’assistente sociale che le aiutò a fare i conti e a trovare una maestra di loro fiducia che tenesse il doposcuola e vivesse con i bambini. Il successo fu tale che l’anno dopo, con lo stesso entusiasmo, le famiglie degli altri paesi crearono con noi i pensionati o piuttosto i doposcuola residenziali a Casoli, Palena, e Castel di Sangro. Era chiaro dai colloqui con le famiglie, che uno dei motivi seri per cui desideravano che i bambini continuassero per altri tre anni a studiare, era in vista dell’emigrazione che oramai pareva inarrestabile. “Così si presenteranno meglio” dicevano umilmente le mamme. In un paese come Lettopalena la grande scuola elementare appena costruita non funzionava oramai che per dieci bambini, tanto il paese si era andato spopolando e tanto male procedeva la programmazione in Italia. La spesa che le famiglie affrontavano era tra le cinque e le sette sulle venti al mese, mentre la retta del collegio più misero a Sulmona era allora di cinque, trentamila lire mensili. Ma l’atmosfera non era certo quella del collegio. Vivevano in normali appartamenti, ciascuno dei quali accoglieva da dieci a venti bambini. Dove i bambini erano più numerosi, come a Casali e a Castel di Sangro, venivano suddivisi in più appartamenti riunendoli poi in un unico locale per i pasti. Era un’organizzazione di vita di tipo familiare dove il bambino sentiva vicino anche il calore della propria famiglia, con le madri che venivano con il bucato lavato con il sacco delle patate o il pane fresco, e andavano a trovare il bambino a qualunque ora del giorno. A organizzare la vita dei bambini nelle ore extrascolastiche, come pure ad assisterli nella preparazione dei compiti, provvedeva uno dei maestri elementari (o una maestra quando si trattava di bambine). Erano maestri in attesa del posto e per i quali avevamo richiesto invano il famoso punteggio che li avrebbe avvantaggiati nelle altrettanto famose graduatorie. Invano perché si trattava di un’istituzione così anomala. L’iniziativa è rimasta dal principio alla fine in mano alle famiglie che si sono cimentate ad amministrarla. Nelle riunioni mensili discutevano il bilancio e l’andamento del pensionato con gli assistenti sociali, e sempre collaboravano per risolvere le questioni non soltanto pratiche. Il Progetto come tale non sborsò una lira per i pensionati, ma fu attivissimo lo sforzo per mettere insieme i mezzi che ne consentivano il buon funzionamento» (pp. 160-161).
La Cassa per il Mezzogiorno istituì un gruppo tecnico che si riuniva ogni settimana sotto la supervisione del partenopeo Manlio Rossi Doria. Grazie all’UNLA nel ’66 erano attivi circa 90 centri di cultura popolare: 87 al Sud, una al Centro e due al Nord che sopravvissero fino 1971 quando furono assorbiti dalle Regioni.
«Fu una vera mobilitazione concorde di tutti a favore della scuola. L’ Amministrazione aiuti internazionali ci fornì altri letti e materassi. Il Cepas con dei fondi raccolti costituì una biblioteca circolante scolastica per il prestito gratuito per tutto l’anno scolastico dei libri di testo acquistati in più copie. Speravano così di dare un esempio di come si poteva risolvere il problema della gratuità dei libri di testo per tutta la scuola dell’obbligo. Dai Provveditorati agli studi di Chieti e dell’Aquila non avemmo che complimenti e la raccomandazione ai locali Patronati scolastici di collaborare con il Progetto pilota, ma la collaborazione consisteva nel non porre ostacoli. I politici poi già pensavano forse agli edifici scolastici da costruire per la scuola media in paesi, di cui era già allora così incerta la sopravvivenza, o magari agli appalti per il trasporto in elicottero degli scolari. I criteri assistenziali, che contribuirono a rallentare la nascita di un costume democratico nel nostro paese, erano di una insidiosa ingegnosità. Per esempio in un Comune particolarmente povero, il modo di far bastare le ottanta razioni della refezione scolastica (limitata alla scuola elementare naturalmente) per una popolazione composta di circa quattrocento bambini, era quello di diffondere la voce (così diceva il presidente del Patronato scolastico) che è vergognoso usufruire della refezione scolastica. In tutti gli altri paesi la preoccupazione era di contentare tutti facendo mangiare quindici giorni un gruppo di bambini e quindici giorni l’altro. Alla gente l’esperienza dei pensionati servì non solo a far proseguire ai figli gli studi (tutti promossi alla licenza media tranne uno), ma anche a imparare ad amministrare insieme un bene comune; servì a togliersi dall’isolamento in cui vivevano nei loro paesi semideserti, e soprattutto, a stabilire un nuovo tipo di rapporto tra un paese e l’altro. Ci accorgemmo di questo mutato rapporto quando, nell’inverno del ’62, si riunirono tutti i sindaci per fare insieme a loro un piano di lavoro. Pescocostanzo con tutta la zona circostante era sepolta sotto la neve, tanto che i sindaci furono costretti a servirsi delle slitte per il lungo percorso dalla stazione ferroviaria al paese. Era un incontro pieno di cordialità e di idee per l’avvenire, ma purtroppo la missione Unesco si concludeva di lì a poche settimane, e l’Unrra-Casas si apprestava a liquidare il Progetto» (pp. 161-162).
Il progetto prevedeva anche l’introduzione di un cinematografo ambulante donato dal “Cooperativa internazionale per l’aiuto americano” (CARE) con annesso cineforum in cui si discutevano i temi rilevanti delle proiezioni:
«Stare insieme per vedere un film era un’esperienza nuova e memorabile; i film che il Progetto aveva scelto non erano i soliti film che si proiettavano il sabato sera nell’unico cinema che esisteva a Castel di Sangro, dove pochissimi erano andati qualche rara volta. Qui si trattava di film che stimolavano La riflessione e la discussione e contenevano messaggi forti. L’esperta dell’Unesco aveva addestrato il gruppo a utilizzare i messaggi del film, alla compilazione della scheda, a come introdurre il film e all’ipotesi di discussione, oltre naturalmente all’uso e perfino all’eventuale riparazione del proiettore. I valori da scoprire tutti insieme nella discussione riguardavano la solidarietà, la cooperazione, la partecipazione democratica, l’emigrazione, la famiglia, la guerra e il fascismo, o magari le spese del pranzo di nozze. Più alto era il valore artistico del film, più forte il messaggio che lasciava e più naturale la discussione che se ne faceva nei giorni seguenti. Abbiamo visto che gli abitanti della frazione di Pietransieri si erano rivolti ai compaesani in America per acquistare un televisore per il loro centro sociale. A Pescocostanzo c’erano allora già quindici televisori quasi tutti nelle case dei signori, altri nei bar. Doveva essere l’età dell’oro della televisione italiana: La televisione italiana – si legge nel rapporto all’Unesco – migliora di giorno in giorno, offre molti programmi impegnati, documentari, film, pezzi di teatro, corsi di alfabetizzazione e corsi post-elementari» (p. 164).
E infine:
«Quanto più il Progetto cresceva nella stima dei vari organismi internazionali, tanto più si deteriorava il rapporto con l’Ente. Così tutto era diventato occasione di attrito: per esempio l’aver fatto prendere agli assistenti sociali la patente di guida, perché non arrivassero nei paesi con l’autista; l’Unesco che inviava un illustre fotografo per documentare per vari giorni le attività del Progetto; l’Unesco che finanziava un bel documentario cinematografico e rinnovava per un altro anno il contratto dell’esperta; il Care che invia in dono la jeep e i proiettori non passando dalla sede centrale e sfuggendo così all’occhiuto strapotere della sua burocrazia: tutto era occasione di gelosie e di accuse di mancato rispetto delle vie gerarchiche e delle regole amministrative. Ma il colpo mortale fu l’invito fatto direttamente agli operatori da parte del Dipartimento Comunità di Portorico. Era la prima volta nella storia dell’Unrra-Casas che di tale invito (viaggio e soggiorno tutto pagato) non usufruivano i dirigenti funzionari della mitica sede centrale. Così alla fine il Cepas fu estromesso dal Progetto. L’Unrra-Casas incamerò i venticinque milioni che l’Unesco aveva assegnato al Progetto, e arrivò perfino a vendere a nostra insaputa la jeep e l’attrezzatura cinematografica che il Care aveva donato. Un motto scolpito in una delle belle pietre di Pescocostanzo dice: “Oblivio contumaeliae medela, l’oblio risana l’offesa”» (p. 166).
Conclusioni e valutazione
Angela Zucconi entrò in servizio all’Unione Nazionale Scuole di Assistenza Sociale (UNSAS) fin dai primi anni di attività ma se ne dovette allontanare nel febbraio 1952 allorquando, in pieno maccartismo, scoppiò una vertenza tra UNSAS e il Centro di Educazione Professionale per Assistenti Sociali (CEPAS) sull’utilizzo della scuola per assistenti sociali di cui la Zucconi divenne direttrice nel 1953. L’autrice ha trascorso un periodo di studio nel 1938 a Monaco in Germania e nel ’39 a Napoli presso il domicilio di Benedetto Croce. Laureata in filosofia e già redattrice di alcune riviste durante il Fascismo quali “Omnibus”, “Storie d’oggi”, ebbe modo negli anni ’60 di viaggiare molto nei paesi socialisti sia come inviata dell’Unione Donne Italiane (UDI) che come iscritta al Partito Socialista Italiano (PSI): Cuba, Repubblica Democratica Tedesca (DDR), Portorico, Messico ma dopo Tremezzo non si era parlato più di servizio sociale almeno fino al Progetto ’80 che fu promosso dall’Unione Donne Italiane (UDI), anche questo destinato a rimanere “sulla carta”. La tesi dell’autrice è che, nonostante gli sforzi intrapresi dalle forze di occupazione anglosassone, i modelli di servizio sociale rimasero inutilizzati sia per la volontà politica della DC di favorire il proprio modello di ispirazione cristiana sia per la frammentazione delle istituzioni assistenziali che, sebbene fossero state create dal precedente Regime, di fatto subirono gli interessi clientelari dei partiti. Non si tratta di un saggio storico in senso stretto ma di una sorta di autobiografia in cui l’autrice, però, si lascia a volte andare a commenti troppo personali con il rischio di appesantire la lettura e di perdere il filo logico della narrazione. Il libro tuttavia offre un quadro interessante sui centri sociali dell’epoca e sui progetti-pilota che avrebbero dovuto imprimere una svolta nello sviluppo delle aree più povere.
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Leggibilità-accessibilità (illustrazioni, grafici, impostazione paragrafi-capitoli): buono
Tempestività della pubblicazione (in relazione alla conoscenza attuale): buono
Esaustività (note, bibliografia, indici e glossari): scarso
Rilevanza dell’autore (cv, istituto di riferimento, prestigio accademico): buono
Valutazione finale complessiva (apprezzamenti e limiti): discreto.
Acronimi – Acronyms
AAI (Amministrazione aiuti internazionali – International relief administration), 1945-1962.
ANAS (Associazione nazionale assistenti sociali – National association of social workers), 1946.
ASISS (Associazione scuole italiane di servizio sociale – Italian association of schools of social work), 1964.
CARE (Cooperativa internazionale per l’aiuto americano – Cooperative for american relief everywhere), 1945.
CEPAS (Centro di educazione professionale per assistenti sociali – Education center for professional social workers), 1946-1966.
CGI (Confederazione generale industria italiana – Italian general confederation of industry), 1910.
CGIL (Confederazione generale italiana del lavoro – Italian general confederation labour), 1944.
CISS (Comitato italiano servizio sociale – Italian board of social work), 1958.
DC (Democrazia cristiana – Christian democracy party), 1942-1994.
DDR (Repubblica democratica tedesca – German democratic republic), 1949-1989.
ECA (Ente comunale di assistenza – Municipal welfare agency), 1937-1978.
EISS (Ente italiano di servizio sociale – Italian social work corporation), 1966.
ENPI (Ente nazionale prevenzione infortuni – National accident prevention agency), 1932-1975.
ENSISS (Ente nazionale scuole italiane di servizio sociale – National schools of social work corporation), 1944-1980.
FIDAPA (Federazione donne arti professioni e affari – Federation of Italian women in the arts professions and business), 1930.
IIAS (Istituto italiano per l’assistenza sociale – Italian institute of social assistance), 1920-1990.
INA (Istituto nazionale assicurazioni – National insurance agency), 1912.
INAIL (Istituto nazionale assicurazione e infortuni lavoro – National insurance and work accident agency), 1933.
INPS (Istituto nazionale previdenza sociale – National social security institute), 1933.
IPAS (Istituto italiano di igiene, previdenza e assistenza Sociale – Italian institute of health, welfare and social assistance), 1922-1992.
ISSCAL (Istituto di sevizio sociale per le case dei lavoratori – Social work institute for worker’s houses) ex EGSS, 1954-1974.
ISTISS (Istituto italiano di servizio sociale – Italian institute of social work), 1960.
MAPB (Ministero per l’assistenza post-bellica – Ministry of Post-War Relief), 1943-1947.
ONARMO (Opera nazionale assistenza religiosa e morale operai – National organization of religious and moral assistance to blue collars), 1923-1971.
ONU (Organizzazione delle nazioni unite – United nation organization), 1945.
PCI (Partito comunista italiano – Italian communist party), 1921-1991.
POA (Pontificia opera di assistenza – Pontifical assitance organization), 1944-1970.
PSI (Partito socialista italiano – Italian socialist party), 1892-1994.
SNDLS (Scuola nazionale per dirigenti del lavoro sociale – National school for managers of social work), 1947-1965.
UDI (Unione donne italiane – Italian women union), 1893.
UNLA (Unione per la lotta contro l’analfabetismo – Union for the fight against illiteracy), 1947.
UNRRA (Amministrazione aiuti e soccorso delle nazioni unite – United nations relief and rehabilitation administration), 1943-1945.