All’indomani del riconoscimento della professione di assistente sociale (DPR 14/88), fu organizzato a Napoli il 14 giugno 1988 un convegno per discutere sul tema “Quale assistente sociale in Campania?” ovvero sullo stato dell’arte del servizio sociale e sugli effetti che tale provvedimento avrebbe comportato nella regione. Al convegno, promosso dal Centro di servizio sociale per adulti di Napoli, parteciparono le principali istituzioni sociali e politiche: la Direzione generale degli Istituti Penitenziari, il Ministero di Grazia e Giustizia, l’Ufficio dell’Ispettorato distrettuale di Napoli, la Provincia ed il Comune di Napoli, la Regione Campania ed i relativi assessorati all’assistenza ed ai servizi sociali, l’Associazione nazionale di assistenti sociali (ANAS), l’Istituto per lo sviluppo e l’istruzione nel meridione (ISVEIMER), l’Associazione nazionale centri IRI formazione e addestramento professionale (ANCIFAP), e molti altri personaggi del mondo accademico e politico dell’epoca.
Nella prima relazione, pronunciata dal presidente della provincia di Napoli Salvatore Piccolo (DC), si evidenziano le lacune che ancora investono la professione nonostante l’ambito riconoscimento. In primis la concezione nell’immaginario collettivo della figura di assistente sociale inteso ancora come un «portavoce di una assistenza fine a sé stessa, che lo Stato dovrebbe garantire» (p. 8), secondariamente si riscontra tutta l’insufficienza della preparazione fornita dalle scuole private che diplomano degli operatori dotati, specialmente nel meridione, di «un livello di qualificazione normalmente scadente» (p. 8), infine, si denuncia lo status della legislazione sociale«alquanto confusa (…), che non tiene conto dei cambiamenti della società, rispetto ai nuovi bisogni e alle nuove domande che emergono» (p. 7).
Nella seconda relazione, pronunciata dal Dirigente del Centro servizi sociali per adulti Luciano Sommella, si illustrano i risultati di una ricerca sul campo che sarebbero serviti da base di discussione per i lavoro di gruppo. Il campione degli intervistati comprendeva 100 assistenti sociali (settore penitenziario, municipale e sociosanitario), 7 responsabili e 3 operatrici domiciliari. La scelta della metodologia è ricaduta su una soluzione mista quanti-qualitativa: questionari, interviste e analisi di caso. I risultati dell’analisi quantitativa permettono di riassumere in sintesi il profilo medio dell’assistente sociale nell’area regionale campana: metà degli intervistati ha preso servizio da poco tempo (anzianità tra i 5-10 anni), quasi la totalità ha conseguito il diploma presso una scuola privata (il 13% dichiara altri titoli di studio), la maggior parte non segue dei corsi di aggiornamento o li segue in maniera frammentata e discontinua.
I risultati dell’analisi qualitativa hanno messo in luce una diffusa insoddisfazione, forti «difficoltà realizzative, spazi operativi ridotti (…) gestione dei rapporti non omogenei» (p. 14), sebbene le difficoltà diminuiscano con il progredire dell’anzianità di servizio. L’analisi di caso ha permesso di analizzare da vicino il rapporto intercorrente tra l’utente e l’assistente visto come «il tutore, il difensore di diritti affievoliti e disattesi, il consolatore di afflizioni, l’arbitro di contese relazionali, il punto di riferimento nei ricorrenti momenti di disgrazia (…); l’assistente sociale è accettato e riconosciuto più per le doti di umanità, sensibilità e pazienza che per quelle di metodo» (p. 21). Laddove previsto, il ruolo di dirigente appare «stemperato e disorganico, fatalmente proteso all’assolvimento di compiti routinari e formalistici» (p. 19); non meglio va per il servizio municipale che, non avendo un proprio quadro dirigente, soffre la carenza di un modello organizzativo adeguato.
Interviene Lia Sanicola, docente di Metodologia del servizio sociale presso l’Università di Parma, che conferma la fase di crisi che sta vivendo la professione, anche se accompagnata da segnali positivi che promettono bene per il futuro. Se, infatti, c’è «una prima tendenza alla conservazione della tradizione», l’assistente sociale è una professione che «riesce a cogliere le urgenze nuove» (p. 24), cioè, riesce a vivere, e a far vivere, l’esperienza del cambiamento. A tal proposito la relatrice utilizza la metafora dell’alpinista: «se faccio lo scalatore, non posso aver paura del vuoto, così se faccio l’assistente sociale non posso andare in panico di fronte al cambiamento degli altri» (p. 25). Tale fenomeno si esprime sia all’esterno che all’interno della professione. Gli elementi che incidono sul versante esterno sono: la dipendenza sempre più marcata dalla politica che si traduce nelle leggi che «hanno una ricaduta sul lavoro (L. 184/83, LR 1/86); la delega della specializzazione ad altre professioni (psicologia, sociologia, pedagogia, etc.); le nuove acquisizioni delle scienze umane che permettano di «uscire dall’approssimazione» (p. 27). Gli elementi che incidono sul versante interno sono: l’impatto con l’utenza (analisi dei bisogni); le aspettative emergenti verso il mondo accademico (dal diploma alla laurea); l’aggiornamento professionale: «il bisogno è il segno di una realtà più grande, noi non conosciamo i bisogni, ma incontriamo le domande, misuriamo le domande perché il bisogno è una realtà altamente insondabile. Noi incontriamo il fenomeno della domanda e conosciamo il bisogno per quella emergenza che esso è nella domanda» (p. 28); «non credo che noi vogliamo l’università perché le scuole attuali siano delle cattive scuole (…) può darsi che lo siano, ma se le scuole attuali sono della cattive scuole, bastava creare dei controlli. Non credo che noi vogliamo l’inserimento delle scuole di servizio sociale nell’università per questo» (p. 31).
Interviene Giuseppe Acocella, docente di filosofia all’Università di Napoli “Federico II”, secondo il quale il termine “crisi” si addice ad una professione che si trova costantemente «sul crinale» (p. 35) e, paradossalmente, l’ingresso nel mondo accademico, accelererà ancora di più questa tendenza a causa della forte dinamicità di tale istituzione e lo dimostra la questione sulla specializzazione: «l’assistente sociale che si lascia tentare dalla prospettiva di assolvere funzioni generiche perché le crede più importanti, più generalizzanti nella realtà sociale, con ciò stesso depotenzia la sua specificità e, quindi, apre le porte a considerare i servizi sociali terreni di caccia per l’occupazione» (p. 37). Ciò non significa per forza ipotizzare delle pessimistiche prospettive, perché l’incertezza è insita più nelle politiche sociali che in quelle accademiche, o meglio, nelle modalità di inserimento del servizio sociale nella cultura sociale visto ancora come qualcosa di “residuale” (p. 38) e lo dimostra il fatto che le competenze assistenziali dello Stato si sono progressivamente estese a più categorie della popolazione fino ad abbracciare tutto l’ambito del benessere, ad es. lo Stato oggi compie interventi di servizio sociale anche attraverso i tentativi di regolare il mercato del lavoro.
Interviene Ersilia Salvato (PCI), vicepresidente della Commissione Giustizia del Senato, secondo la quale, in risposta al prof. Acocella sul problema del lavoro, afferma che «i lavori socialmente utili sono una strada da percorrere» (p. 41) pur superando le «vecchie visioni di assistenzialismo» (p. 41). Al di là dei buoni propositi (approdo accademico, riconoscimento, riqualificazione, etc.) ciò che serve è «una volontà politica di dare a questa parola crisi un segno positivo (…) a cominciare da quelle istituzioni che sono a ROMA» (p. 43). La citazione è velatamente critica non solo verso il panorama politico dell’epoca dominato dal centrosinistra ormai al potere da più di 20 anni ma anche verso una degenerazione della democrazia verso forme perverse di gestione del potere (clientelismo, assenteismo, connivenza con la criminalità, etc.).
Interviene il sindaco di Napoli Pietro Lezzi (PSI) il quale ribadisce il ruolo centrale della politica nell’effettuare scelte più incisive nelle politiche sociali: «sono fermamente convinto e persuaso che nell’attività politica, se non si nasce imparati, bisogna ricevere, indicazioni, consigli, suggerimenti per poi cercare di elaborare delle politiche sociali» (p. 45) in riferimento alla situazione europea che offriva più opportunità rispetto all’Italia, specialmente per quanto riguarda l’apporto del volontariato, il che non significa “distrarre” le istituzioni dai propri doveri, «ben convinto che se queste “signore” si rivolgessero agli assessori competenti, certamente avrebbero delle risposte più esaurienti» (p. 46). Di fatto la relazione di Pietro Lezzi mette in evidenza un processo di progressivo avvicinamento della professione alla politica fino a subire una vera e propria dipendenza affinché queste assistenti sociali (signore) possa occuparsi di più di proselitismo «nelle scuole, nelle istituzioni e nell’opinione pubblica» (p. 46).
Interviene l’assistente sociale Marianna Giordano che pone l’accento sulla mancanza a livello regionale di una legislazione dedicata all’assistenza sociale dopo il DPR 616/77 polemizzando con l’amministrazione di Nando Clemente«che continua ad agire con interventi a pioggia, assistenziali e privi di logica (…) Il simbolo scelto per il convegno, la freccia con il suo movimento a spirale, la figura aperta, il chiaroscuro, è un segno di ciò che si intende proporre, un percorso di ricerca» (p. 53). Il senso della crisi in cui versa il servizio sociale si esprime nell’interrogativo espresso dal titolo del Convegno “Quale assistente sociale?” e che passa attraverso 3 elementi: la formazione, la collocazione istituzionale e l’impegno per il cambiamento.
«A livello istituzionale, emerge, dopo la stagione di apertura degli anni Settanta, una tendenza alla difesa sociale, che si esprime con la burocratizzazione degli interventi. Si richiede una forte funzione di controllo sociale orientata più alla repressione, che alla promozione o all’aiuto. L’assistente sociale si sente schiacciato in un ingranaggio e spesso non riesce ad esprimere tutte le potenzialità del suo ruolo, perché isolato, privato di mezzi, a volte effettivamente in crisi di identità. Il quadro offerto dagli operatori dei servizi campani è eloquente. Si descrive una situazione in cui 1’Assistente sociale, pur consapevole del suo ruolo, non riesce ad esprimere nell’ente in cui lavora la sua funzione, viene escluso dalla programmazione, non ha voce sulle politiche, è il servizio più povero di strumenti e risorse nell’ambito di Amministrazioni più complesse (sanità, giustizia etc.), che pure spendono per altri settori» (pp. 56-57).
«Negli anni Ottanta si è registrata però una forte fase di stallo tra gli assistenti sociali, il prevalere, per mille circostanze e cause diverse, di un ruolo burocratico sulla funzione di promozione, o, anche, la riduzione dell’attività alla risoluzione di casi singoli, piuttosto che ad un’azione globale sulle cause dei problemi. Si registra una difficoltà ad esprimere la propria professionalità a livello di gestione dei servizi e di orientamenti politici. Si è rimasti coinvolti nelle maglie più strette della legislazione istitutiva dei servizi, così che gli assistenti sociali esprimono spesso in modo “soft” una politica repressiva: nel campo delle tossicodipendenze, nel settore penitenziario, con i minori, etc» (pp. 57-58).
«Mentre 1’obiettivo del servizio sociale implica un forte coinvolgimento con i cittadini per il miglioramento dei servizi, gli assistenti sociali si ritrovano molto spesso a rappresentare 1’aspetto autoritario dello Stato che interviene per controllare, reprimere, ma non agisce per rimuovere le cause del disagio. Un intervento che non mira alla crescita della società, ma piuttosto ad una normalizzazione. Gli assistenti sociali finiscono per rappresentare le istanze di difesa e funzionamento dello Stato piuttosto che i bisogni dei cittadini. (…) A Napoli, in Campania manca una cultura del sociale e dei servizi, mentre è molto presente un sistema assistenziale su cui il sistema politico basa il consenso (…); sta crescendo tra gli assistenti sociali la consapevolezza di dover riscoprire quest’ottica fondamentale di lavoro» (pp. 58-59).
Interviene l’assistente sociale Rosanna Rubino e segretaria dell’Anas Campania che rivendica il merito dell’ANAS nell’aver ottenuto il riconoscimento della professione. Ribatte inoltre alle accuse di chi riteneva che il servizio sociale non avesse propri metodi né che avesse contribuito a «fare assistenza in modo nuovo» (p. 64) e che, invece, i problemi sono da ricondurre «ad un sistema di clientelismo politico che contrasta fortemente coi valori di cui il servizio sociale è portatore» (p. 64). La colpa, in altre parole, è sempre degli altri: « in primo luogo lo Stato il quale, dopo aver emanato il DPR 14 a seguito delle “lotte” dell’associazione, ne ritarda di fatto l’attuazione (…) poi gli Enti in cui operano gli assistenti sociali che debbono superare la tendenza ad utilizzare l’assistente sociale come produttore di pratiche o mediatori di conflitti (…) il Sud» (pp. 64-65).
Interviene Ambretta Rampelli, dirigente del Coordinamento Assistenti Sociali della Campania, la quale afferma che l’errore del servizio sociale è stato di non aver fatto nulla per rivendicare posizioni di potere all’interno delle istituzioni, nonostante la “forza ideologica” della professione (il termine è ripetuto 2 volte: pp. 69 e 71). La professione, del resto, si è sempre caratterizzata per rappresentare le istanze del mondo femminile sul quale, da troppo tempo ormai, grava il carico del lavoro di cura e del controllo dei reietti. Nonostante ciò, è stato possibile offrire «interventi tutti di ottimo livello», seppur relegati nell’ambito residuale «della società capitalistica» (p. 67). Un altro errore è stato quello di non aver rivendicato ruoli direttivi in realtà diverse da quelle deputate al controllo sociale (sanità, municipio, scuola) sebbene vi sia una forma di controllo “buona” se «si inserisce nel processo di aiuto come momento di assunzione di responsabilità da parte dell’utente» (p. 69).
«In questa sede mi sembra opportuno denunciare ancora una volta la responsabilità morale e politica di chi ha gestito per anni la Pubblica Istruzione e con la sua ignavia e malafede ha permesso il perpetuarsi dello scandalo di pessime o inesistenti scuole di servizio sociale, fornitrici solo di titolo di studio, cui non corrispondeva una reale preparazione professionale ed abbassando quindi il livello culturale degli assistenti sociali (…) e valutare l’inesistenza di livelli di preparazione, di rapporti di supervisione, l’incongruità dei tirocini» (p. 70). «Ecco noi ora rivendichiamo il potere di gestione dei servizi e non vogliamo che tale gestione sia affidata ad altri (…) per evitare che altre professionalità, di cui alcune emergenti, che cercavano di entrare nel mercato del lavoro o di contrattare potere, si approprino del servizio sociale in via strumentale» (p. 72).
Interviene l’assistente sociale Rosmina Viscusi che mette in luce alcune deficienze del DPR 14/87: «Le scuole dirette a fini speciali si sono viste gravare dall’immane compito di convalidare decine di migliaia di diplomi pur non avendo né le strutture né i mezzi adatti e senza ricevere dal Ministero le necessarie istruzioni metodologiche da seguire (…) Tra gli assistenti sociali che lavorano è stata creata un’assurda discriminazione: chi è occupato in un ente pubblico si è visto riconoscere di diritto la validità del titolo, mentre chi è occupato nel privato deve provvedere alla convalida (…) Gli assistenti sociali disoccupati hanno visto nella propria condizione, non una sfortuna, ma una colpa punibile con l’esclusione dai concorsi per non avranno sostenuto altri 8 esami né aver discusso la tesi (…) Le più recenti interpretazioni dell’art. 6 del decreto mettono in discussione la validità giuridica del diploma così conseguito (…) Le scuole di servizio sociale private (96 in tutto) si sono viste “premiate” con il disconoscimento di tutti i diplomi rilasciati finora» (pp. 73-74).
Interviene Giuliana Buonopane, direttore di servizio sociale presso la scuola di formazione del personale civile penitenziario per adulti di Roma, che illustra le iniziative di aggiornamento della scuola: lo stage sulla criminalità organizzata (ottobre 1987) sulla L. 663/86 (legge Gozzini), l’incontro inter-professionale sul tema “L’interazione dell’intervento trattamentale con le esigenze di controllo dopo la legge 10.10.1986 n. 663”, il seminario sul “Trattamento dei tossicodipendenti detenuti” in cui sono stati indicati i metodi del trattamento intra moenia e gli obiettivi dell’intervento farmaco-psicologico mediante l’equipe sociosanitaria esterna. Per quanto riguarda il discorso sulla specializzazione della professione, si ritiene che l’obiettivo prioritario sia di valorizzare le professionalità che già sussistono in modo da «offrire un modello di operatore sociale inserito pienamente nell’area socio-culturale politica» (p. 93).
Intervengono gli assistenti sociali Paola Celentano, Olga Fusella e Giovanni Spasiano del Tribunale per i diritto del malato, secondo i quali la crisi del welfare ha investito anche gli ospedali che sono diventati delle “fabbriche di consenso”: allocazione di personale raccomandato dai partiti politici, affidamento a terzi di forniture e servizi tramite appalti pilotati, “sequestro” dei pazienti «per costringere la comunità a cedere sempre più risorse e più potere» (p. 101). La relazione degli assistenti sociali, tuttavia, presenta degli aspetti ambigui. Se da una parte si denuncia la commistione dei servizi con la politica: «il servizio sociale finisce in tal modo per essere considerato ed utilizzato come una specie di servizio burocratico a favore dell’amministrazione dell’ospedale, utile più a risolvere problemi dell’ospedale che del malato» (p. 102), d’altra parte si rivendica un ruolo di protagonismo: «il primo compito del servizio sociale professionale è certamente quello di partecipare alla formazione della politica sociale dell’ente e di contribuire a determinarla» (p. 103), non disprezzando eventuali alleanze con «altri volenterosi operatori di base» (p. 103) che avrebbero il compito di sondare i nuovi bisogni della popolazione. L’occasione propizia si è presentata con la “Legge quadro per i diritto del malato”, all’esame del Parlamento, su proposta dal Movimento federativo democratico che, insieme alla “Carta dei diritti del malato”, avrebbe dovuto rappresentare un valido contributo per l’affermazione dei diritti sociali in Italia. «La Carta, inoltre, proprio per la sua concretezza, può rappresentare l’ideale appendice ad un codice deontologico professionale, che è necessariamente destinato ad esprimere principi astratti e a fornire indicazioni generiche» (p. 105).
Interviene l’assistente sociale Silvia Rovito del CSSA di Napoli secondo la quale, nonostante la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario e i successivi aggiornamenti, «il compito del servizio sociale rischia di ridursi esclusivamente al controllo ed al rispetto della prescrizione di legge (…) tutto ciò ha generato oggi un senso di frustrazione con sindrome di “burn out” alla fuga dalla professione, all’assunzione di un ruolo burocratico» (p. 114). Allo stesso tempo nel corso degli anni si è giunti ad una nuova consapevolezza professionale, venendo a mancare il “mito” per cui «il progressivo sviluppo capitalistico porta automaticamente ad un progresso per tutti» (p. 115), che si concluderà a breve con il crollo delle barriere ideologiche e la fine delle utopie socialiste (il convegno precede di un anno la caduta del Muro di Berlino e di 5 anni Tangentopoli).
Interviene l’assistente sociale Isabella Mastropasqua dell’Ufficio distrettuale servizio sociale per minorenni di Napoli che, riprendendo l’intervento della collega Rovito, denuncia «le condizioni di lavoro preesistenti degli assistenti sociali nonché le attribuzioni inadeguate, la mancanza di una cultura della solidarietà» (p. 119), e sopratutto la latitanza delle istituzioni che si esprime nella «mancanza di una politica nei confronti della fascia giovanile» (p. 118). A differenza della collega Rovito, tuttavia, smentisce la «mancanza di strutture nella realtà esterna» (p. 114) che, invece, andrebbero coinvolte tramite «l’avvio di progetti sperimentali» (p. 118).
Gli assistenti sociali Maria Luisa Minieri e Luigi Bucci del presidio territoriale per le tossicodipendenze (Usl 42) denunciano la mancata integrazione sociosanitaria a 10 anni dall’approvazione della L. 833/78 sul Servizio sanitario nazionale. La proliferazioni di leggi e “leggine” di settore hanno contribuito, infatti, a diffondere la frammentazione dei servizi: L 685/75, L. 194/78, L. 405/75, L. 180/80, L. 730/83, DPCM 08.08.1985, LLRR 11/84 e 1/88. Le divisioni, inoltre, serpeggiano negli stessi assistenti sociali che «non riescono a creare un unico panorama di iniziative e di progetti integrati da proporre con forza agli organismi istituzionali» (p. 123). Mentre in alcuni settori come, ad es., nella giustizia c’è una buona organizzazione con tanto di formazione e direzione, il ruolo professionale nel settore clinico-sanitario «risulta confuso tra la negazione delle capacità gestionali e dirigenziali e la richiesta di prestazioni tanto numerose quanto diversificate e poco definite» (p. 124).
«anche lo scarno profilo professionale enunciato nel DPR 821/84, relegando la posizione dell’assistente sociale in soli due livelli – collaboratore e coordinatore -, si inquadra nella stessa visione restrittiva. Il livello contrattuale derivato dal DPR 761/79 e riportato nel DPR 270/86 è ben lontano da quelli corrispondenti per formazione, responsabilità e funzioni, dei ruoli sanitario, para-sanitario, amministrativo e tecnico. Nemmeno 1’approvazione del DPR 14/87, che ha riconosciuto quale titolo abilitante il solo diploma conseguito presso Scuole Universitarie, sanando la posizione degli operatori già in servizio nel Pubblico, e che ha interrotto il dominio privatistico della formazione, ha sortito sino a questo momento sostanziali effetti positivi in campo lavorativo e contrattuale» (p. 124).
Interviene l’assistente sociale Fiorella Cava responsabile del settore riabilitazione dell’Usl 39 che concentra l’analisi in base a 3 livelli: la situazione globale, le risorse disponibile ed eventuali ipotesi d’intervento. Prima di tutto si denuncia la «formazione disomogenea, effettuata in massima parte in scuole private con scarse tradizioni culturali, talvolta con scarsa collocazione contrattuale ai limiti più bassi della scala gerarchica e retributiva: in particolare 1’accesso nei vari comparti è collocato al 6° livello su 10 per gli Enti Locali, al 6° su 11 nella Sanità, al 6° su 8 nello Stato convivendo alla pari con infermieri, insegnanti ecc; invece nell’Ente Regione le colleghe non sono inquadrate come tali e non operano come tali ma, con “alchimie sindacali” e varie, il titolo di studio consente inserimenti ben più soddisfacenti che il 6° livello» (p. 126).
«il ricompattamento della categoria conseguente alla cocente delusione sindacale per i recenti rinnovi contrattuali degli Enti Locali, Sanità particolarmente penalizzanti. Autonomamente la categoria ha saputo esprimere circa 4.000 vertenze al TAR del Lazio contro tali contratti ed ora si appresta ad invadere i TAR locali con ricorsi contro le UU.SS.LL. per il trattamento economico da quei contratti derivante. È da dire che entrambe le iniziative sono partite da Napoli diffondendosi poi in tutta Italia anche con il sostegno dell’Associazione» (p. 127).
«il Sindacato rispetti la delega affidata a favore della categoria, con il convincimento che la qualità e il riconoscimento degli operatori influisce sulla qualità dei servizi sociali, generalmente coinvolgenti le fasce di utenza più delicata e disagiata, e non contro la categoria come sta accadendo negli ultimi anni. Provveda urgentemente alla definizione dei profili professionali che negli Enti Locali non sono ancora stati costruiti, nella Sanità sono pressoché nulli e in via di definizione senza il richiesto apporto della categoria, nello Stato è appena accettabile. Provveda inoltre ad una collocazione contrattuale al pari dei laureati tecnici con i quali si condividono livelli di autonomia, responsabilità e funzioni. Apra in tutti i comparti lavorativi 1’accesso alla dirigenza: occorre qui sottolineare che il Servizio Sociale nell’Ente Locale è diretto da amministrativi nella Sanità, quando esiste, è diretto dai sanitari e nello Stato si può affidare ad assistenti sociali se laureate indirettamente desumendo che la dirigenza di un Servizio Sociale esiga, per la sua complessità, un doppio titolo di studio al contrario di tutte le altre carriere» (p. 128).
Interviene l’assistente sociale Lucia Delicato del servizio municipale di Napoli che contesta la relazione di Maria Luisa Minieri e Luigi Bucci sul punto in cui si afferma di rivendicare un ruolo di «agente di cambiamento» (p. 124) mentre sarebbe più adeguato optare per un «operatore di processo» (p. 132). Tale considerazione si inquadra in una cornice, “dipinta” dal Laboratorio per le politiche sociali (Labos), che ritrae una serie di mutamenti: il passaggio «dall’assistenzialismo ad un un sistema più complessivo di sicurezza sociale» (p. 132); il passaggio – nel rapporto con l’utente – dalla risposta contingente (rammenda) alla progettualità di lungo termine; dal passaggio dai compiti di mera consulenza a quelli di facilitatore e coordinamento tra i servizi. La relazione coglie la sensazione, «sempre più crescente, di impotenza negli operatori, anche i più motivati, proprio perché, stante tale situazione, qualsiasi sforzo personale può risultare sproporzionato alla possibilità di ottenere successi (…) specialmente nei servizi di base dove l’incertezza istituzionale determina l’oscillazione tra una condizione di libertà creativa e tra un’eccessiva assunzione di responsabilità e di rischio» (p. 131).
Interviene l’assistente sociale Gilda Biffa del servizio municipale di Napoli che, intervenendo sulla lite sorta in merito al ruolo professionale (cfr. § XXIV e XXV), propone un ritorno alle origini nei panni di “operatore povero”, parafrasando l’analista Stefano Cirillo, cioè, «colui che deve esporsi in primo piano, che deve recarsi a fare la cd. visita domiciliare, dove trova quello che le altre professioni non vedono, quello che non vede il magistrato, non vede lo psicologo, non vede il sociologo» (p. 137) per non correre il rischio di rimanere «soli a coltivare il nostro orticello» (p. 138). Nel futuro non vi è certezza, specialmente dopo alcune riforme istituzionali come, ad es., il DPR 616/77, che ha trasfuso le competenze assistenziali dalla Provincia ai Comuni, che ha favorito la frammentazione dei servizi e la commistione con la politica: «non c’è un assistente sociale che può operare senza tener conto della politica sociale che viene svolta dal proprio ente da cui dipende. Per cui il ruolo dell’operatore sociale diventa estremamente difficile» (p. 135).
Interviene Nicola Scaglione (PSI) assessore alla sanità della Regione Campania che, a proposito degli assistenti sociali, denuncia la mancanza di «quel senso di appartenenza, quel “esprit de corp”, quel tessuto connettivo di valori ideali, etici e pratici che possono fare di un gruppo sociale anche composito, un agglutinato di classe (…) l’assistente sociale sembra finora avere dispiegato poco le sue potenzialità professionali, assorbita com’è dal caso particolare, dalla pratica quotidiana e dall’emergenza (…) l’assistente sociale è un operatore che non decide o decide poco e che gestisce con alto rischio morale spezzoni e segmenti di problemi collettivi ed individuali» (p. 148). Concorda con la relazione di alcuni per i quali è finito il tempo delle utopie rivoluzionarie e che «bisogna riannodare i fili di quel grande disegno rinnovatore avviato da più versanti negli anni ’70 per svilupparlo in una visione moderna, flessibile ed efficiente di Stato sociale» (p. 149).
Interviene l’avv. Walter Antonini su delega del Lorenzo De Vitto assessore alla formazione professionale della Regione Campania secondo il quale «esiste la necessità di esercitare una pressione nei confronti dell’Università perché siano superati gli ostacoli che ancora impediscono l’apertura della facoltà di servizio sociale già da tempo autorizzata dai competenti organi ministeriali e, una volta aperta la facoltà, l’assessorato ai servizi sociali dovrà fornire tutta la propria collaborazione sopratutto per lo svolgimento dei tirocini professionali. Anche in questo campo, infatti, la Regione, ha interesse e possibilità di intervento (…) e questo senza parlare di un compito specifico della Regione che è quello di un opportuno programma di seminari di aggiornamento, da attuarsi eventualmente attraverso i nostri centri di servizio sociale, su tempi professionali sia di ordine generale che per progetti specifici» (p. 153).
Interviene Amato Lamberti (Verdi) presidente dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata secondo il quale le situazioni di marginalità o devianza riguardano 1/3 della popolazione regionale venendosi a configurare una società “di serie B” dipendente e parassitaria a quella di “serie A” che produce e che lavora. Il servizio sociale, dal punto di vista strutturale, risponde alle esigenze della società più progredita, quella cioè che riesce ad esprimere in maniera più chiara i propri bisogni, mentre la società obsoleta rimane vincolata alle logiche distributive e di controllo sociale. Un esempio è il problema della tossicodipendenza dove diminuisce il consumo di eroina ma aumenta la detenzione in carcere dove le strutture dedicate, laddove esistenti, sono inglobate a quelle ospedaliere rendendo più difficile il recupero. Per quanto riguarda il dibattito sul ruolo professionale, «va prima definita la struttura del servizio e poi precisata e formata anche la professionalità dell’operatore (…) dizione che francamente preferisco a quella di assistente sociale» (pp. 158-59).
Interviene Giuseppe Simioli (DC) assessore ai servizi sociali della Provincia di Napoli che illustra le iniziative finora intraprese dall’ente provinciale. Una prima iniziativa degna di nota è stata l’istituzione dell’Osservatorio sulle politiche sociali che ogni anno fornisce dati e statistiche sull’emarginazione sociale, es. il rapporto Labos (cfr. § XXV). In secondo luogo si deve alla Provincia la capacità di aver messo in pratica la riforma dell’assistenza in favore degli illegittimi, dei minori in stato di abbandono e delle ragazze madri. Non da ultimo va menzionata la collaborazione con l’Università Federico II di Napoli per l’iscrizione degli assistenti sociali ai corsi di formazione e di ricerca. Per quanto riguarda le prospettive future bisogna investire nella programmazione con gli enti locali (Comuni e Regione), con i servizi (CSSA e Usl) e con i tecnici delle altre professioni.
Secondo Ugo Pastena ispettore degli Istituti di prevenzione e di pena per il Mezzogiorno (Campania, Puglia e Molise), riprendendo il dott. Lamberti, se non si pone il problema del nome da dare all’assistente o dell’operatore o del tradizionalista o dell’innovatore il rischio è quello della direzione che manca o è carente. Nei CSSA, ad es., l’assistente sociale è alle dirette dipendenze del magistrato di sorveglianza che è un burocrate, invece, negli Istituti penitenziari, laddove sono previsti, gli operatori dipendono dal direttore che è un organizzatore: «dovunque esistono gerarchie perché tutti in qualche modo devono rispondere delle proprie azioni. (…) Forse quella autonomia tanto auspicata, io la vedo in parte soltanto nella libera professione. E l’attività dell’assistente sociale che opera alle dipendenze di un’amministrazione non è autonomia in senso pieno: è bene sgomberare questi dubbi» (p. 167). La relazione si conclude con 3 proposte: collegare il servizio sociale penitenziario con quello municipale; assumere in ruolo gli assistenti sociali nel carcere; rafforzare i servizi.
Secondo Celso Coppola, dirigente del Ministero di grazia e giustizia, mentre negli altri settori vitali si è intervenuto attraverso delle politiche universalistiche (L. 833/78, L. 354/75), il “sociale” è visto ancora come un ambito privato riservato alla famiglia e alle relazioni primarie, quindi, l’assistente sociale interviene solo laddove le istituzioni tradizionali hanno fallito, mostrando tutto il proprio carattere residuale. Per tali motivi, negli ultimi anni, il servizio sociale italiano ha fatto tutto il possibile per uscire dall’ambito privato e per assoggettare la professione all’ambito pubblico: dalle Ipab alle municipalità, dalle scuole all’università, dal servizio di fabbrica al consultorio. Non sappiamo se si riuscirà nell’intento, però, è vero che ciò ha reso i servizi sociali sempre più dipendenti dalla politica con effetti, molto spesso, perversi ed autoreferenziali.
Bibliografia
Ministero di Grazia e Giustizia. Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena. Centro di servizio sociale per adulti di Napoli, Quale assistente sociale in Campania?, Convegno di studi, Napoli 14 giugno 1988, Poligrafica F.lli Ariello, Napoli, 1992.
Nomografia
L. 22.12.1975 n. 685 “Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”.
L. 29.07.75 n. 405 “Istituzione dei consultori familiari”.
L. 26.07.1975 n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”.
DPR 616/77 “Attuazione della delega di cui all’art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382 “Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione”.
L. 23.12.1978 n. 833 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”.
L. 22.05.1978 n. 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
DPR 20.12.1979 n. 761 “Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali”.
L. 13.05.1978 n. 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”.
L. 27.12.1983 n. 730 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1984)”.
L. 04.05.1983 n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia”.
LR 31.08.1984 n. 11 “Introduzione di un tipo complementare di intervento di edilizia abitativa agevolata”.
DPR 07.09.1984 n. 821 “Attribuzioni del personale non medico addetto ai presidi, servizi e uffici delle unità sanitarie locali”.
DPCM 08.08.1985 “Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome in materia di attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio- assistenziali, ai sensi dell’art. 5 della legge 23 dicembre 1978, n. 833”.
LR 03.01.1986 n. 1 “Formazione di medici specialisti”.
DPR 15.01.1987 n. 14 “Valore abilitante del diploma di assistente sociale in attuazione dell’art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162”.
LR 11.01.1988 n. 1 “Autorizzazione all’esercizio provvisorio del bilancio per l’anno finanziario 1988”.
Acronimi
ANCIFAP (Associazione Nazionale Centro IRI per la Formazione e l’Addestramento Professionale – National Association of IRI Center for Education and Professional Training), 1936-1993.
CSSA (Centro di servizio sociale per adulti – Center of social service for adults), 1962-1974.
DC (Democrazia Cristiana – Cristian Democracy Party), 1942-1994.
IPAB (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza – Public assistance and charity), 1890.
IRI (Istituto ricostruzione industriale – Institute for Industrial Reconstruction), 1933-1992.
ISVEIMER (Istituto per lo Sviluppo Economico dell’Italia Meridionale – Institute for Economic Development of Southern Italy), 1938-1996.
LABOS (Fondazione laboratorio per le politiche sociali – Foundation laboratory for social policies), 1985.
PCI (Partito comunista italiano – Communist italian party), 1921-1991.
PSI (Partito Socialista Italiano – Italian socialist party), 1892-1994.
TAR (Tribunale amministrativo regionale – Regional administrative court), 1971.
USL (Unità sanitaria locale – Local health unity), 1978-1994.
UU.SS.LL. (Unità sanitarie locali – Local health unity), 1978-1994.
art. = articolo
artt. = articoli
c.c. = codice civile
D.P.R. = decreto del Presidente della Repubblica
L. = legge
L. cost. = legge costituzionale
L. R. = legge regionale
v. supra = vedi prima