Webinar organizzato dal Comune di Trento nell’ambito del “Festival dell’economia” con il prof. Gianni Toniolo, docente di economica all’università di Roma “Tor Vergata”.
Lo Stato quale regolatore dell’economia è passato di moda eccetto nella spesa sociale che è continuata a crescere lungo l’epoca del neoliberismo. La spesa è elevata ma l’efficienza lascia a desiderare e non risponde più ai bisogni di oggi. Nel 1942 Londra è distrutta dalla guerra ma un certo Lord Beveridge progetta la rinascita dello Stato Sociale. “Rinascita” perché di fatto è iniziata nel ‘700 con il riconoscimento delle libertà civili, i diritti politici che si sviluppano dall’800 fino alla prima metà del ‘900 (in Italia le donne votano nel 1946) ed infine i diritti sociali. In Germania Bismark aveva introdotto le assicurazioni sociali mentre in Inghilterra si pensa a qualcosa di più moderno per giungere ad uno sviluppo integrale della cittadinanza. Nel secondo dopoguerra lo Stato Sociale riceve il suo definitivo trionfo in un quadro di crescita economica molto rapida con delle elite che erano state deligittimate dalla guerra e che cercavano nuovi consensi. Oltre a Beveridge ci sono altri due modelli di Welfare: il sistema germanico di tipo assicurativo che offre dei benefici legati al lavoro e alla produttività e il sistema liberale di tipo capitalistico adottato in America. Dal 1945 alla crisi del 2008 si assiste ad una crescita della spesa sociale in tutti i paesi. La sua forza sta nel consenso che si forma in tutte le classi sociali e nel rapporto tra trasferimenti monetari e servizi pubblici tra cui sanità e istruzione. Peter Lindert sfata il mito che la spesa sociale rallenti il PIL inoltre dimostra che la crescita è direttamente proporzionale all’investimento nelle politiche giovanili. A bassi costi di amministrazione si possono ottenere buoni risultati anche sull’accessibilità della burocrazia. Il rischio è che di fronte ad un aumento della popolazione ci troviamo di fronte all’invecchiamento spropositato e quindi ad una spesa previdenziale insostenibile. L’Italia ha innalzato di molti anni l’aspettativa di vita media in pochi anni e oggi affronta la più grande sfida sull’immigrazione. Il secondo rischio della spesa è il disavanzo perché preannunzia la crisi fiscale. Nel 1945 c’era la fabbrica che dava un lavoro stabile, per tutta la vita e con buone assistenti sociali. C’erano dei sindacati unitari che rappresentavano l’interesse dei lavoratori. Infine c’era la crescita esponenziale del PIL. Oggi viviamo la terza rivoluzione industriale che richiede elevati livelli di istruzione, grande flessibilità nel lavoro, mutamenti frequenti nell’occupazione, mobilità internazionale, la recessione e una rappresentanza sindacale molto ridimensionata. La parabola del welfare è stata descritta nel libro “Lo Stato sociale in Italia” (v. link) dove da strumento di controllo sociale, il welfare è diventato un volano per tutta la cittadinanza per poi tornare ai livelli di partenza. Oggi c’è un grande divario tra tutela della disoccupazione e lavoratori-artigiani senza tutele. Rimane la grande conquista del servizio sanitario nazionale. Dal 1960 ad oggi l’Italia ha investito due terzi della spesa sociale in pensioni. La spesa per l’istruzione che nel 1971 era del 3%, nel 1984 del 5% mentre oggi è del 3,9% con una media europea del 4,7%. Il welfare italiano oggi non favorisce il PIL, trascura i giovani, disincentiva l’assunzione di rischi da parte delle persone. Oggi conviene molto più avere un lavoro anche se precario o subretribuito piuttosto che tentare di averne un altro. Hanno influito anche le lobby, mentre il ministro Onofri nel 1997 aveva istituito una commissione d’inchiesta che però non ha influito molto nel corso degli eventi. Le previsioni non sono rosee specialmente in vista dello sblocco dei licenziamenti dopo la pandemia. Così come il Rapporto Beveridge è stata la rinascita del welfare nel secondo dopoguerra, tanto la rinascita sarà possibile solo cambiando il welfare, es. in Svezia i dipendenti delle linee aeree sono stati trasformati in operatori della sanità. Bisogna innalzare i livelli di istruzione e implementare l’accessibilità alle classi meno abbienti. L’inoccupazione volontaria richiede nuove occasioni di formazione. La cassa integrazione oggi è sospesa tra la negoziazione dei sindacati e i datori di lavoro. La transizione al digitale e al verde deve consentire a tutti di assumere dei rischi. Tutto questo non sarà possibile se i giovani hanno paura del futuro.
5 giugno ”Nuove povertà e nuove reti sociali” con Cristiano Gori, Rossella Miccio e Natalie Westerbarkey.
Tra qualche anno non discuteremo più del ritorno dello Stato ma del vincolo di bilancio. Andiamo verso una società dove il rischio di povertà è sempre più trasversale e quindi sarà decisivo indirizzare le risorse verso chi ne ha bisogno. Il problema del RdC quindi è il disegno organizzativo con cui è stato congegnato. Negli ultimi due anni il governo ha cercato di ottimizzare i fondi e si è prodigato per richiederli all’Europa ma su tante aree di welfare lo Stato è in ritardo. Alcuni comuni ad esempio non hanno abbastanza servizi sociali, in termini di organico, perché anche gli assistenti sociali servono a insegnare delle competenze. Da 50 anni a questa parte, infatti, non siamo riusciti a distribuire non tanto le risorse finanziarie ma le competenze e abbiamo tagliato alcuni enti istituzionali (le Provincie, le circoscrizioni, etc.) pensando che sarebbe servito a riequilibrare la spesa pubblica ma ci sbagliavamo. Le nuove povertà richiedono azioni giuste al momento giusto, ad es. l’assegno unico fa parte di un pacchetto di riforme necessarie ma ritardatario che serve a incrementare l’aiuto per le famiglie con figli e a ridurre le diseguaglianze tra lavoratori dipendenti e autonomi. Il problema è che la natalità continua a calare e, per quanto il governo possa spendere per il welfare, c’è bisogno di fiducia nelle prossime generazioni. Il dibattito sull’assegno unico si concentra sulla quantità dell’assegno: un importo uguale per tutti o a seconda del bisogno. A favore del primo gruppo c’è l’idea che tutti i bambini sono uguali, del resto abbiamo visto che la povertà è galoppante e sta divorando intere famiglie che avevano un tenore di vita medio-basso. Il progetto “Nessuno escluso” di Emergency che si proponeva di sviluppare, a partire dalla prima fase della pandemia, l’assistenza domiciliare a quelle persone cui i servizi non riuscivano a rispondere, dimostra che gli utenti erano principalmente famiglie di fascia medio-bassa che improvvisamente si sono ritrovate senza lavoro e sulla soglia della povertà. Non si sono fermati all’aiuto materiale (spesa, piccole commissioni) ma stanno cercando un modo per reinserire queste famiglie. Uno dei problemi tuttora irrisolti è l’accesso alle cure domiciliari. Il progetto di Emergency dimostra che non si possono valutare i bisogni solo con la capacità di spesa delle istituzioni ma nella potenzialità di progettazione e di contributo degli attori del terzo settore. Se andiamo a vedere la crisi nel 2008, scopriamo che giusto il Terzo Settore a permesso di collaborare con le istituzioni e proporre soluzioni. Tra le criticità si riconosce la frammentazione territoriale e oggi vediamo delle realtà del paese più sviluppate rispetto ad altre. La pandemia ha enfatizzato la differenza tra nord e sud perciò bisogna agire in una prospettiva sistemica integrata affinché non si sprechino risorse. Un altro problema è che la risposta data dalle istituzioni alla prima fase emergenziale e che ha richiesto un enorme sforzo organizzativo e finanziario, non sia più adatta per la fase post-pandemica. La gente ha ricevuto dei rimborsi e dei ristori e pensa che con il denaro si possano risolvere tutti i problemi ma non siamo più nella condizione di dover avere un welfare per “foraggiare” i consumi e l’economia. Il nostro problema è stato – e sarà sempre – quello di incrementare le competenze sociali delle persone affinché, nell’eventualità di una nuova emergenza o di un periodo di precarietà, non si ritrovino più senza lavoro.
Segue dibattito
Come si concilia il reddito di cittadinanza con il welfare state?
La metà dei poveri non riceve il reddito di cittadinanza specialmente al nord e almeno un terzo non sono poveri effettivamente ma non per colpa loro ma per un problema di misura degli indici. Abbiamo perso un milione di posti di lavoro ma abbiamo assunto un migliaio di consulenti nei centri per l’impiego (navigator) che però sono impossibilitati a lavorare per l’assenza di regolamenti. Bisogna dare tempo agli enti locali di aggiornarsi ed allo stesso tempo investire nelle imprese e nel lavoro.
Quale ruolo delle donne nel prossimo welfare?
Nel corso dei secoli le donne hanno sempre assunto un ruolo fondamentale nel welfare, ad esempio si è visto che il tasso di crescita di molti paesi è direttamente proporzionale alla tutela delle pari opportunità. L’Italia del resto è tra i paesi più avanzati dell’area mediterranea rispetto ad esempio alla Grecia ed alla Turchia.
Il welfare oggi è oggetto di studio nell’opinione pubblica? Quale ruolo del sindacato?
Il welfare oggi è quanto mai più lontano dal dibattito pubblico. Finchè il sindacato può rappresentare tutta la popolazione o la sua massima parte allora può condizionare anche l’opinione pubblica. Se le parti sociali invece utilizzano la concertazione solo per interessi personali, allora anche il dibattito ne risente.
Considerando la distanza generazionale tra giovani e anziani, come si può tenere insieme il sistema e quale ruolo della famiglia?
Banfield definiva negli anni ’50 il familismo come fattore di arretratezza, mentre oggi è un elemento fondamentale su cui si poggia il welfare perché è a tutti gli effetti un ammortizzatore sociale.
Nel 1945 in Italia nasceva il ministero dell’assistenza post-bellica, oggi abbiamo un ministro del lavoro con varie deleghe ma insufficiente a livello rappresentativo, che fare?
In molti paesi c’è un ministero del welfare che ha bisogno di una visione unitaria ma sopratutto di crescita. Se la torta non aumenta di volume tutti faranno la guerra per averne una fetta.
Il ministro Brunetta l’altro giorno ha annunciato di voler abolire i quiz psicoattitudinali per i concorsi, che ne pensa?
Il problema del conflitto tra domanda e offerta non implica solo la formazione ma l’informazione. La gente non conoscere le competenze richieste per ogni professione e i giovani non possono dipendere da schemi mnemonici per fare i concorsi.