Tra una parola e l’Altro: il senso religioso in Martin Buber

Martin Buber nacque a Vienna l’8 febbraio 1878 e fu subito affidato alle cure dei nonni paterni dopo la separazione dei genitori (in realtà la madre scappò di casa con l’amante e Buber coniò più tardi il termine vergegnung-disincontro per intendere il fallimento dell’incontro reale tra le persone). Suo nonno Salomon era un ricco banchiere ebreo e capo della comunità ebraica di Leopoli nell’attuale Ucraina. Attraverso il padre conobbe uno zaddiq, una guida spirituale e capo della comunità chassidica di Sadgora che fu per lui determinante. Lo chassidismo è una corrente religiosa sorta in Germania tra il XII e il XVI secolo connotata da una forte devozione con tratti mistici. Non a caso le fonti di Buber affondano le radici nella grande mistica occidentale (Meister Eckhart, Niccolò Cusano, Paracelso) e dalla filosofia europea (Kirkegaard, Feuerbach, Nice). In particolare da Maister Eckhart tradisce l’idea dell’anima che deve modellarsi come “bild” (immagine di Dio), da Kierkegaard tradisce l’idea del singolo che rimanda non tanto all’individuo o all’uomo ma alla persona che si ritrova in sè stessa.

Nella sua prefezione ai “Racconti dei Chassidim” scrive: «il compito principale di chi come me si è preposto di disegnare le figure degli zaddikim è di ristabilire la linera narrativa mancante». In questo periodo rompe col sionismo di Herzl (nel 1898 aveva partecipato al congresso sionista di Basilea) rimanendo dell’idea di un rinnovamento culturale interno. Nel 1902 fondò con un gruppo di amici la “Casa editrice ebraica” (Judische Verlag). Nel 1904 si laureò a Vienna in filosofia con una tesi “Per la storia del problema dell’individuazione in Nicolò Cusano e Jakob Bohme”. Tra il 1910 ed il 1914 si interessa di ascetica e di mistica. Nel 1914 fondò il circolo “Forte-Kreis” per la pace internazionale e nel 1921 fondò l’associazione “Berith Shalom” con lo scopo di raggiungere la coesistenza pacifica fra arabi ed ebrei in Palestina.

Nel 1925 vince il concorso a cattedra all’Università di Francoforte per insegnare Scienza della religione ebraica ed etica ebraica. Gli anni ’20 rappresentano senz’altro il periodo più creativo: “Io e Tu” (1923), “Dialogo” (1930), “La domanda rivolta al singolo” (1936), la traduzione della Tenak (l’antico testamento ebraico) in collaborazione con Rosenzweig, “Il problema dell’uomo” (1943), “L’eclissi di Dio” (1953). Nel 1938 lasciò la Germania e si rifugiò in Israele dove insegnò Filosofia sociale all’Università di Gerusalemme dove si spense il 13 giugno 1965. Nel 1942 aveva fondato l’ “Ichud” (Unità) per favorire la collaborazione tra ebrei e arabi allo scopo di creare uno stato binazionale in cui le due etnie avrebbero vissuto pacificamente insieme. I principali interessi di Buber si possono riassumere in 5 fasi: la fase predialogica, la filosofia dialogica, la religione come presenza, la traduzione della Bibbia e il cammino dell’uomo.

Tradizionalmente si tende a vedere l’opera predialogica di Buber come ad una fase dominata dallo hassidismo. In anni recenti tuttavia alcuni vi hanno visto dei preziosi indizi che anticipano l’opera dialogica. Buber inizia a parlarne nel 1901 su “Bohme” dove scrive che la dialettica sul reciproco condizionarsi delle cose trova il suo compimento nella sentenza di Feuerbach “l’uomo con l’uomo, l’unità di Io e Tu, è Dio”. In “Lesser Ury” (1903) scrive che “ciò che è più personale si trova nella relazione con l’altro. Unisci un essere a tutti gli altri e otterrai l’individualità più vera”. Nei “Discorsi sull’ebraismo” (1916) sono implicitamente illustrati molti temi dialogici a proposito del confronto tra cultura greca e semitica: “il Greco vuole dominare il mondo, l’Ebreo compierlo; per il Greco esso è, per l’Ebreo sarà; il Greco gli sta di fronte, l’Ebreo gli è unito”.

Nel 1906, nella prefazione alla collana da lui curata “Die Gesellshaft”, conia il nome di “interumano” per indicare ciò che accade tra gli uomini a cui partecipano come ad un processo impersonale in cui il soggetto trascende la comunità. Il termine “trascendenza” non appartiene formalmente al vocabolario buberiano ma si può dedurre sulla base dell’assunto jaspersiano per cui non esiste vita che non sia già apertura alla trascendenza. Con l’avvento del ‘900 emerge un’idea sintetizzabile nell’espressione “realtà è vita”. Non lo spirito hegeliano, non la natura kantiana ma la vita si rivela come autentica totalità. Dilthey segue Kant nella misura in cui anche per lui tutta la scienza scaturisce dall’esperienza la quale a sua volta ha origine nella nostra coscienza. Buber chiama Dilthey anche negli ultimi anni suo “maestro” e dialoga per anni con Simmel.

La filosofia, anche per il giovane Buber, ha luogo come comprensione di sé stesso nella prassi della comprensione storica. La realtà si fa reale nell’esperienza vissuta che, nella concezione di Kant, è una conoscenza condizionata da forme di visione, categorie e fondamenti trascendentali a priori. La realtà costituita dalla pura vita ha un carattere comparativo laddove esistono due realtà: una grande ed una piccola la cui intensità dipende dall’esperienza. Ma l’atto che rilascia da sé la realtà come realtà salva è l’estasi che si potrebbe definire come qualcosa di simile alla pienezza delle idee trascendentali: mondo, anima e Dio. Dio è una sola cosa con il “sé” estatico nella sua solitudine totale e ciò solleverà il problema dell’Altro che sarà affrontato nella sua opera dialogica. Se la parola possiede un’intima forza estatica che spinge l’interiorità ad aprirsi alla relazione col Tu, allo stesso tempo possiede una logica inerziale che lo induce al silenzio inteso come luogo che preserva la parola dal rischio della logorresi, della chiacchiera, del gossip.

La fase dialogica di Buber inizia con la sua opera “Ich und Du” (Io e Tu) che vede la luce nel 1923 – dopo circa 20 anni di attività letteraria per un totale di circa 200 pubblicazioni – e si conclude nel 1965. Rispetto alla fase predialogica, l’opera dialogica non si compone solo di scritti filosofici ma anche teologici sull’ebraismo e sullo chassidismo, un movimento di religione ebraica sorto in Ucraina nel ‘700. Bisogna considerare che quasi tutti gli scritti di Buber di questo periodo sono stati redatti con intenti pedagogici perciò è più rilevante la considerazione dell’autore per il lettore o l’ascoltatore. La biografia di Buber è satura di questo impegno verso la situazione e il contesto tale che lo ha resto qualcosa di simile ad uno zaddik, un saggio d’Israele.

Rispetto alla sua opera giovanile, Buber non intende più l’essere a partire dal sé ma dal “tra” (Zwischen): l’essere è ciò che si svolge tra me e l’altro da me, la realtà tra uomo e mondo. L’essere come “tra” è qualcosa di duplice: la parola-base “io-tu” e la parola-base “io-esso”. Nel primo caso “io e tu” possono essere del tutto noi stessi mentre nel secondo caso la “tra” (= la comunità) diventa progetto e ordinamento. Ciò fa si che nella parola-base “io-tu” viene alla luce non solo la trascendenza del “tra” ma anche dell’Altro. Attraverso la trascendenza dell’Altro è resa possibile l’alterità dell’Altro e ciò fa sì che si possano meglio comprendere il carattere duplice dell’essere oblativo e storicistico. Ed è altrettanto possibile pensare ad una trascendenza di Dio che si manifesta come “tu eterno”. Perciò l’estasi non è più il concetto chiave del pensiero maturo di Buber perché il pensiero non cerca più di porsi nel punto dell’origine assoluta dell’essere ma si abbandona all’incontro. Non è più il “sé” a mostrarsi come l’estremo ma l’essere che si emana nel “tra” da cui io stesso provengo.

La svolta buberiana si può riepilogare in 3 dimensioni: la questione dell’essere come pura attualità, l’essere come relazione e l’essere che incontra. L’essere si presenta come attualità perché non ha più nulla al di fuori di sé, essendo già di fatto un estremo. L’orizzonte estremo è sempre quello per cui la realtà non è mai pensabile per sé ma sempre come relazione. Ma qui è necessario tener conto del fatto che Buber non usa sempre il termine “relazione” allo stesso modo: se in “Io e Tu” usa il termine relazione come sinonimo di incontro, più tardi in “Distanza originaria e relazione” distingue la relazione dall’incontro caratterizzato dal fatto che l’essere vi assume un’alterità originaria dell’Altro che è indeducibile. L’incontro per Buber è una modalità universale dell’essere-nel-mondo che si svolge come pura attualità non solo tra gli uomini ma anche tra l’uomo e la natura. Per Buber dietro la ricerca della pura attualità si cela il problema dell’essere come manifestazione sollevato da Kant.

Il mondo dell’Io-Tu è descritto come mondo esperito dove l’esperienza corrisponde al concetto kantiano di esperienza dell’oggetto. Il mondo non ha parte all’esperienza ma si lascia esperire ma non vi contribuisce per nulla. Perciò l’esperienza è reale solo in colui che fa esperienza ma non tra lui e il mondo. Ciò fa sì che la concezione buberiana di esperienza va a coincidere con quella di Kant secondo il quale l’esperienza è solo una rappresentazione degli oggetti come ci appaiono ma non secondo ciò che sono in sé stessi. L’essere, sia come incontro o come esperienza, si mostra in ogni caso sempre come essere-nel-mondo e a sua volta il mondo è in ogni caso sempre per l’uomo.

Resta per certi aspetti poco chiaro fino a che punto l’esperienza sia ancora una relazione ma l’incontro può essere pensato soltanto nel senso che all’essere del “tra” è attribuita una priorità rispetto all’essere di coloro che si incontrano. Ma l’incontro non può avere un punto intermedio “tra” di noi ma deve essere immediato. E allora, non è producibile né a partire da me né a partire da te ma può svolgersi solo per pura “grazia”. Ma se l’alterità rimanesse semplice alterità non sarebbe pensabile nessuna relazione. L’alterità e l’incontro (=operare su ciò che ci sta di fronte), la distanza originaria e la relazione caratterizzano insieme il paradossale stato d’animo di fondo dell’uomo. L’essere dell’ente in sé è inaccessibile all’intervento dell’esperienza pensata in senso kantiano e l’esperienza non può fare nulla. Da qui la proposizione: quanto più forte è l’esperienza, tanto più debole è la relazione. Io stesso dunque non posso essere puramente come colui che fa esperienza ma solo nella misura in cui sono in relazione. Ciò perché la partecipazione e la condivisione non possono aprirsi all’esperienza ma solo nel farsi dono di sé all’Altro. Ne consegue che non esiste una verità posseduta in quanto non se ne può disporre.

Buber dice che l’incontro è partecipazione all’essere che si svela nel presente ma in un altro passo dice che l’incontro accade in quanto partecipazione dell’essere allo spirito inteso come atto originario del linguaggio (=contatto tra due esseri che diventano suono). In Buber tuttavia il linguaggio appare in secondo piano rispetto al “tra”. Il linguaggio è sempre qualcosa di derivato dall’Io che parla. È solo dalla realtà del “tra” che vuole diventare linguaggio che si basa l’autentico status linguistico. La realtà del “tra” che si svolge mostra tratti trascendenti, persino divini. Infatti il “tra” non è riproducibile a partire da me e neppure dal partner ma nell’incontro che si mostra come ciò che trascende i due partner e che li fonda nel loro essere-nell-incontro. Così il “tra”, che garantisce essere e senso, si mostra come illimitato perché sospende i nostri doveri reciproci (cfr. “laddove sono due o più in preghiera, Io sono”). La realtà religiosa pertanto assume la medesima considerazione del dialogo nell’uomo e ciò implica che il rapporto “Io-Tu” è assimilato alla relazione religiosa.

Buber con questa visione della relazione religiosa si avvicina a Simmel che già nel 1906 aveva indicato la rappresentazione del divino nelle relazioni tra gli uomini. Il divino viene esperito come il “tra-comunità” che ha bisogno di me e di te e così ci fa essere entrambi del tutto noi stessi di modo che nel “tra-comunità” si rivela anche la sua alterità. Qui Buber tradisce due concetti dello hassidismo: il Jichud e lo Zimzum. Nello Jichud si opera l’unione tra Dio e credente similmente alla teandria greca. Nello Zimzum (lett. non-parola) la divinità si autolimita per consentire la creazione del mondo. Ne consegue che il sacro non può essere pensato come il rapporto in cui entra tutta la comunità dal momento che il sacro non può avere nulla al di fuori di sé (profano) ma può essere pensato solo come rapporto dell’uomo con la Presenza originaria. Perciò gli atei possono anche essere perfetti sotto tutti i punti di vista ma non avranno mai la totalità dell’essere (Zweischen).

Nell’ultima parte di “Io e Tu” Buber si sforza di tracciare un sentiero verso la formazione di una vita di relazione con Dio. In tal senso il reale è concepito come una realtà doppia e complementare dove il mondo indifferenziato e il mondo organizzato coesistono. Analogamente le parole non sono “singole” ma “coppie di parole”. Una di queste parole è la coppia “io-tu” che fonda un’entità perciò quando si dice “tu” si dice insieme l’io della coppia “io-tu” mentre quando si dice “esso” si dice insieme l’io della coppia “io-esso”. Quando l’uomo dice “io” intende uno dei due da cui ne consegue che l’identità propria non può prescindere dal confronto. In realtà ci sarebbe anche un secondo motivo per cui il reale è concepito come un doppio: gli ebrei hanno una profonda coscienza della separazione, dell’esodo, della diaspora, es. il profetismo nasce come scissione di Israele in due regni oppure l’idea di cingersi i fianchi come tentativo di unire la parte superiore del corpo con quella inferiore.

Una prima caratteristica della relazione “Io-tu” si trova nella sua “transitorietà”: l’Io può diventare Tu ma non viceversa, l’Esso può diventare Tu ma non viceversa. Anche presso gli egizi vigeva una mentalità circolare in contrasto con la linearità pagano-cristiana. L’Io assume un ruolo diverso a seconda dell’interlocutore: nell’ “Io-tu” è un privilegiato, nel “Io-Esso” è esploratore. L’interlocutore “Tu” è la comunità, l’ “Esso” è l’esperienza. Il solo “Tu eterno” è il “Tu” rivolto a Dio. Una seconda caratteristica della relazione “Io-tu”, dopo la transitorietà, è la reciprocità: “Io” influisco sul mio “Tu” e il mio “Tu” influisce su di me. La terza caratteristica della relazione “Io-Tu”, dopo la transitorietà e la reciprocità, è l’incontro che è un evento concreto mentre la relazione sarebbe un’atteggiamento mentale. Nella relazione, inoltre, il movimento all’indietro verso una posizione di “Io-Esso” può essere il preludio ad un nuovo movimento verso l’ “Io-Tu”. Mentre la relazione è il riconoscimento mentale di un “Tu” da parte di un “Io”, l’incontro avviene quando due “Io” entrano in relazione concreta. Dove avvengono le relazioni e gli incontri? In 3 luoghi: in natura (posso dire “Tu” ad un albero restando presente ad esso e permettendogli di essere a propria volta presente a me); negli uomini (posso amare una persona) e nelle entità spirituali (hobbie, arte) il cui compito è di redimere il mondo. All’artista appare la propria opera ma non come un Esso nel mondo delle cose ma come il Tu per eccellenza, come qualcosa di esclusivo.

Nella natura la relazione oscilla nel buio perché le creature, pur reagendo ai nostri stimoli, non hanno la possibilità di utilizzare la parola. È attraverso la parola che noi siamo in relazione con il mondo. Nella vita con gli uomini la relazione si manifesta nella parola. Con le essenze spirituali la relazione è avvolta dalle nubi ma può manifestarsi lo stesso, es. l’albero si può vedere come un’immagine, classificarlo tramite delle categorie ma rimane sempre un oggetto a meno che non sia coinvolto nella relazione nel qual caso non è più un “esso”. La seconda parte di “Io e tu” tratta della irrelazione, cioè, quando la separazione prende il sopravvento. Nella relazione il Tu precede l’Io mentre nell’irrelazione l’Io precede il Tu come se volesse possederlo, per paventare una sorta di auto-sufficienza e di indipendenza.

Nell’irrelazione la parola diventa oggetto, qualcosa di strumentale, forzato nel mondo dell’Esso. In realtà Buber afferma che relazione e irrelazione non sono antagoniste ma si alternano poichè è la stessa immediatezza dell’incontro che determina la sua discontinuità (Buber la chiama “sublime melanconia della nostra sorte”). L’evento del “tra” del resto non può essere fissato una volta per tutte ma è “donandosi” e “sottraendosi” che si riproduce. Chi si colloca nell’irrelazione divide la propria vita fra gli ambiti separati delle istituzioni e dei sentimenti. Se le istituzioni non contribuiscono alla vita pubblica le si dovrebbero rafforzare coi sentimenti, es. lo Stato dovrebbe essere rinsaldato da una comunità di amore (hesed). Non vi è nulla di sbagliato nel desiderare profitto e potere fino a quando tutto ciò resta unito al desiderio della reciprocità della relazione, perciò, il manager o lo statista che obbediscono allo spirito non sono fanatici. Nella terza e ultima parte di “Io e tu” Buber descrive il rapporto tra “Io” e il “Tu eterno” (Dio).

Per entrare in una perfetta relazione, una persona deve in precedenza essere diventata una e integra attraverso un’altra relazione con un “Tu”. Tutto ciò che fu escogitato e trovato come precetto (religione) non ha a che fare con l’incontro ma riconducono al mondo dell’ “Esso”. Chiunque guarda al mondo come ad un oggetto di esperienza e di uso, fa lo stesso con Dio: prega per alleggerire sè stesso e la sua preghiera cade nel vuoto. È lui che è senza Dio. Ciò perché si può parlare con Dio ma non si può parlare di Dio. L’elemento essenziale della relazione con Dio, quindi, non può ridursi ad un sentimento di dipendenza (obbedienza ad un’autorità o ad un precetto) ma di libertà: abbiamo bisogno di Dio ma anche Dio di noi. Ed è qui che entra in gioco la “religione come presenza”.

Nel 1923 Buber tradusse la Bibbia dall’ebraico in tedesco insieme al suo amico e collega Franz Rosenzweig, soffermandosi in particolare sulla vicenda del roveto ardente (Es 3,14) quando Dio si rivela a Mosè: “Io sono colui che sono” che, invece, i due filosofi ebrei tradussero: “Io sarò qua così come Io sarò qua” (Colui che io di volta in volta sarò) laddove la presenza divina si rivela come persona, avulsa da qualsiasi attribuzione magica o apocrifa. Secondo Buber è improbabile che Mosè avesse evocato il nome di Dio o qualsiasi suo attributo in quanto la sua manipolazione avrebbe portato l’uomo a compiere degli abusi. Lo scopo di incontrare il “Tu eterno” non è solo quello di occuparsi di Dio ma anche di sostenere il mondo con il significato da noi percepito come personificazione (“tuità” o “duheit”). In altre parole Buber chiede di rivolgersi direttamente a Dio eliminando ogni organismo intermedio (istituzioni) e, sopratutto, cessando di parlare di Dio in terza persona (teologia).

Nel 1947 Buber fu invitato al congresso ebraico a Bentveld in Olanda dove era stata fondata la congregazione ebraica di Woodbrook da ebrei tedeschi negli anni ’30. Il testo si apre con la domanda contenuta nel libro della Genesi “uomo dove sei?” che non è posta solo ad Adamo ma a ciascun uomo che nascondendosi da Dio si nasconde anche a sé stesso. Non a caso l’uomo per raggiungere la verità deve risalire alle proprie origini, guardare la divinità dentro sé stesso e fare in modo che tutta la sua vita sia un continuo cammino. Buber fa notare che la richiesta di Dio presuppone l’ignoranza del soggetto rispetto all’ubicazione dell’uomo il che smentirebbe l’attributo di onniscenza. In realtà Buber afferma che c’è un intento implicito dell’autore del testo che in tal modo avrebbe rivolto un ammonimento parenetico all’umanità in generale ed alla sua mancanza di responsabilità.

Adamo si nasconde per non dover rendere conto a nessuno, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo perché ogni uomo è Adamo nel quotidiano. L’esistenza viene trasformata in un meccanismo di occultamento attraverso cui l’uomo scivola sempre più verso la menzogna. Solo nel momento in cui Adamo si accorge della “presenza” di Dio allora scatta il meccanismo di disoccultamento dettato dalla paura e dalla vergogna per il quale confessa “mi sono nascosto”. Qui inizia il cammino dell’uomo. Il ritorno a sé stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il ravvedimento, la teshuvà ebraica. Tutti gli uomini hanno accesso a Dio ma ciascuno ha un accesso diverso ed è la diversità e la differenziazione delle loro qualità che rende gli uomini unici. Di converso l’universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a Lui. Ma ciò che si trova dentro di sé, lo si può cogliere solo dal proprio “desiderio fondamentale”, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere.

Gli ostacoli che si frappongono tra l’uomo e Dio coinvolgono il concetto di “anima” che nell’ebraismo si è diffuso relativamente tardi rispetto agli altri concetti (desiderio, sentire, etc) ovvero come qualcosa che si può dividere ed assemblare a seconda dello status morale del soggetto. Più in generale c’è un’anima superiore ed un’anima inferiore che si riuniscono nel corpo laddove la celebre frase biblica “cingersi i fianchi con le vesti” significa proprio l’atto di riunificare le due anime divise. L’uomo che ha un’anima molteplice, complicata, contraddittoria non è ridotto all’impotenza: il nucleo più intimo di quest’anima è in grado di agire su di essa e trasformarla legando le forze in conflitto e fondendo gli elementi che tendono a separarsi. Solo un’anima unificata sarà in grado di completare l’opera di ritrovamento dell’uomo sebbene nessuna unificazione è definitiva. L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le parti del corpo lo siano pure.

Mosè Maimonide (Moshe ben Maimon), un teologo ebreo di epoca medievale, dice che il numero complessivo delle mitzvot (precetti) è 613 di cui 248 positivi secondo il numero delle membra del corpo umano (ricorda all’uomo che ogni parte del corpo è stata creata per compiere un precetto preciso) e 365 negativi secondo i numeri dell’anno solare (ricorda all’uomo di non compiere in sé una trasgressione). L’indagine halakika ricorda all’uomo non “perché” Dio vuole ma “come” Dio vuole in vista di qualcosa, il che è molto diverso dalla teologia cristiana dove c’è una “sete” che rimanda sempre a qualcosa di indefinito (teologia catafatica).

La “leva di Archimede” a partire dalla quale si può sollevare il mondo è la trasformazione di sé stessi. Se invece si pongono due punti di appoggio, l’una in sé stessi e l’altra nel proprio simile, la prospettiva del cammino tenderà a sfuggire e a scomparire. Ogni conflitto tra sé e i propri simili deriva dal fatto che non si dice tutto ciò che si pensa e non si fa tutto ciò che si dice. Occorre quindi cominciare da sé stessi per finire con l’Altro, prendersi come punto di partenza e prendere l’Altro come meta. A questo punto Buber introduce il concetto di “ritorno”: una volta iniziato il cammino bisogna tornare indietro? Com’è possibile? Qui Buber tradisce la concezione mistica con tratti gnosticizzanti del cammino inteso come ritorno dell’anima a Dio. Sappiamo che il ritorno si trova al centro della concezione ebraica inteso come rinnovamento e trasformazione del suo ambito al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo zaddik perfetto (“il resto ritornerà” è riferito ad una parte dei clan ebrei che si estinsero durante la diaspora).

Il pentimento (teshuvà) qui non è inteso come la penitenza cristiana dove il soggetto deve fustigare il proprio corpo continuando a pensare all’insufficienza della propria vita ma come una sorta di espiazione delle proprie colpe in vista del perdono di Dio (nell’ebraismo non c’è la confessione cristiana e ciascuno rimette i propri peccati in maniera spontanea). Uno dei principali punti su cui un certo cristianesimo si è distaccato dall’ebraismo consiste proprio nell’assegnare ad ogni uomo l’idea di “salvezza” della propria anima. Agli occhi dell’ebraismo invece ogni anima è un elemento al servizio della creazione, perciò, ciascuno deve purificarsi non in vista di un traguardo individuale ma collettivo (il popolo ebraico). Il compimento dell’esistenza è, secondo Buber, il luogo in cui ci si trova. “Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte (velato riferimento alla predestinazione), in ciò che incontro giorno per giorno: in tutto ciò risiede il mio compito esistenziale”.

L’errore dell’uomo, e quindi la causa del suo nascondersi, sta nel fatto di voler perseguire solo gli scopi che si prefigge in vista di un vantaggio futuro e incerto. Secondo Buber paradiso e inferno sono dei luoghi artificiali creati ad arte per sviare l’uomo dalle sue responsabilità ed invece deve agire nel mondo con responsabilità in vista di ciò che vedrà dopo la morte e cioè il volto di Dio. In realtà Buber non nega completamente il ruolo del paradiso che è un concetto accettato dall’ebraismo ma lo considera nella sua immanenza: trascendentale e mondo materiale sono due entità che originariamente erano unite e che poi sono stati separate. Compito dell’uomo e di ritornare all’unità mediante una vita vissuta nel luogo in cui si trova. Qui c’è anche un altro concetto della mistica hassidica per cui non l’uomo deve giungere a Dio (come invece la cabbala) ma Dio deve giungere all’uomo. “Dio vuole entrare nel mondo che è suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo (…) Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio ma lo si può lasciar entrare solo laddove ci si trova, dove si vive una vita autentica, la shekinà (la presenza di Dio in terra). In seguito Buber cercherà di approfondire il concetto di “presenza” quale a-priori della relazione: presenza di Dio nel mondo, nell’uomo e a sé stesso.

“Religione come presenza” è il titolo di 8 lezioni che Martin Buber tenne nel 1922 al Centro ebraico di educazione degli adulti a Francoforte sul Meno. Le 8 lezioni sono divise in due parti: le prime 4 trattano della religione come “credenza” e della necessità di liberarsi da tutte quelle ingerenze (biologia, politica, etica, scienza, psicologia) che l’anno confusa e tradita. Il secondo gruppo di lezioni tratta del modo con cui la religione si manifesta in “presenza”. Compito dell’uomo è di collaborare all’opera della Creazione attraverso un gesto di unione che ha carattere di redenzione (Tiqqun). Vengono qui poste alcune tesi centrali della filosofia buberiana: l’esistenza che fonda un essere autenticamente presente e non il consumarsi di un tempo cronologico trascorso ma che si dà alla “presenza” e quindi a qualcosa o qualcuno che viene incontro.

Il mondo non è un’indifferente molteplicità di punti di vista: esiste solo un punto su cui si può sollevare il mondo e questo punto non dipende dal soggetto nel senso che non lo sceglie da solo. All’inizio l’essere umano è indifferenziato, perduto. Ci sono due strade per il ritorno all’integrità: la vita dell’Esso cioè la conoscenza e il dominio del mondo che porta all’irrelazione e la vita del Tu cioè l’amore del mondo che porta all’integrità. Il presente nasce grazie alla presenza di un Tu da cui ne consegue che nella relazione c’è un solo presente. Il rapporto Io-Esso è rimasto imprigionato nel passato. La presenza del Tu decade ogni volta che irrompe una mediazione di un oggetto per cui si assiste al ripiegamento dell’Io a discapito dell’integrità del Tu. Per spiegare meglio questo concetto Buber ricorre ad un sillogismo: se l’antinomia è posta tra presenza e oggetto, e se l’uomo viene a patti con gli oggetti, ne consegue che l’uomo perde la presenza, soccombe e si perde. Di converso se l’antinomia è tra presenza e assenza, ma l’uomo accoglie il silenzio allora la Presenza originaria non viene meno. Se l’uomo finisce per limitarsi ai rapporti con gli oggetti, egli stesso è destinato a perdere la propria realtà.

La presenza originaria è la presenza divina non per forza inteso come “Dio” perché una volta che Dio si svuota di sé stesso per entrare nel mondo umano è un Dio che si “degrada”, cioè si spoglia ma non perde la propria essenza. Qual’è la condizione per accogliere la presenza divina? L’integrità dell’uomo, la capacità di essere raccolto in sé stesso in modo da poter a sua volta r-accogliere Dio. Il cammino dell’uomo non è un percorso a tappe come una “maratona” o una “gara podistica” con delle regole e delle prescrizioni. Il cammino è una condizione del “già e non ancora” (parafrasando una nota sentenza cristiana) e non implica un vero e proprio movimento se non il “farsi trovare”.

L’atto della relazione pura si costituisce nell’istante di tempo e non nella sua continuità che altrimenti rimanderebbe al passato. L’atto della relazione consiste nella solitudine: è sempre l’Io dell’essere umano che stra di fronte al Tu eterno e solo in un secondo momento lo si può estendere alla comunità laddove Dio diventa oggetto di culto. In questo caso la fede dà continuità al tempo e il culto dà continuità allo spazio. La “presenza” è come una ruota dove infiniti “raggi” conducono a Dio ed un’unica circonferenza (comunità) che collega tutti i raggi. La relazione perfetta tra Io e Tu fornisce un continuum di Tu-raggi che si integrano tale da formare una vita di relazioni. Perciò Buber dice che le grandi civiltà nascono da una relazione primordiale, un atto dello spirito, ma quando una civiltà non è più incentrata su quello stesso atto ripetuto – quando cioè la religione viene imprigionata in rigidi schemi – allora decade.

Non solo Dio è “presenza” ma può rendersi presente nella vera preghiera, in cui culto e credenza si uniscono nella Relazione pura. Fino a quando la preghiera vive autenticamente, allora anche la religione vive. Quando parliamo di crisi religiosa non è perché non ci sono più credenti ma perché quei credenti, più o meno organizzati, recitano una preghiera fatta di formule antiquate e imprigionate dentro astrusi schemi mentali. Questa è la differenza principale tra religioni e Regno di Dio. Il cammino che conduce attraverso le religioni necessariamente passa attraverso delle forme in cui Dio è stato organizzato, cioè, cultura, scienza e istituzioni che di per sé non sono una condanna se non nella misura in cui il mondo dell’Esso prevale sulla relazione.

Conclusioni

Quella di Buber può essere definita una “nuova antropologia filosofica” che poggia a metà strada tra l’eredità orientale (hassidismo, mistica ebraica, teologia politica ebraica) e quella occidentale (Kierkegaard, Feuerbach, Nice). Di fronte a tale bivio la proposta buberiana si presenta come un rimedio ed una rivisitazione della mistica ebraica nata nel IX secolo, in ambiente islamico, con lo scopo di trovare un modo per avvicinarsi al dio assolutamente trascendente (tradendo l’immanenza islamica). Com’è possibile conoscere dio se è inconoscibile? I mistici ebrei rispondono con le emanazioni: non si può conoscere direttamente dio se non tramite le sue emanazioni. Buber è di opinione diversa. La fede non è un ragionamento ma un fatto, dio non è un’idea ma una persona. Se Dio è infinito come può esserci qualcosa al di fuori di Lui? La cabbala risponde che Dio si è autolimitato nell’atto originario della creazione: in quanto non più solo sè stesso, Dio crea l’alterità sicchè l’uomo ha esperienza del Dio limitato, nel senso di ciò che può contenere di dio rispetto alla sua divinità infinita.

Risulterebbero così individuate una manifestazione di dio finito (tu, esso) ed una rivelazione della divinità infinita (la Bibbia) latore di un medesimo messaggio ma con fini diversi. Rispetto alla cabbala che si rivolge solo agli iniziati, il hassidismo si rivolge a tutti o almeno così lo intendeva Buber poi è chiaro che anche la filosofia ha i suoi tempi di apprendimento. Buber scuote gli ebrei del suo tempo, essendo “divisi” non solo geograficamente/fisicamente ma anche e sopratutto mentalmente: il ruolo dell’ebreo non sarà solo quello di costruire lo Stato ebraico ma di proporre nuove sintesi esistenziali e religiose. Secondo Buber l’Occidente vive nella divisione tra soggetto e oggetto, tra materia e forma, tra logos e kosmos, etc. Nonostante ciò Buber fu molto condizionato da Kierkegaard, Feuerbach e Nice. Da Kierkegaard assume la categoria del singolo, da Feuerbach prende l’idea di comunità e da Nice tradisce il principio creativo (contro l’improduttività e il torpore dominanti).

Buber si chiede: “che cos’è l’uomo?” Se l’uomo non attua e non realizza in colui che gli sta davanti il proprio Tu innato, allora inferisce su sè stesso e non partecipa alla realtà (autocontraddizione). Il fatto di “stare davanti” è un indicazione che la relazione avviene nel presente (relazione Io-Tu). L’uomo, invece, che si accontenta solo della sua esperienza e delle cose strumentali, vive nel passato (relazione Io-Esso). Non si tratta comunque di mondi separati e in ogni momento gli uomini che vivono nella sfera del Tu possono passare in quella dell’Esso e viceversa. Il nesso che rende possibile questa dinamica transitoria è la parola “tra” (Zwischen). Lo Zwischen è il supporto dove avviene l’incontro tra le persone, il luogo della parola. Lo Zwischen rappresenta l’aspetto spaziale mentre l’incontro quello temporale. Si noti bene che lo Zwischen non è un terzo elemento che si pone come mediatore tra Io e Tu ma è l’essere stesso inteso come qualcosa che non può sussistere di per sè ma ha bisogno di una dualità. Solo Dio esiste e sussiste di per sè e non ha bisogno di terzi.

Se il primo atto di Dio è stata la “parola” – poichè nella religione ebraica Dio crea il mondo conferendo un nome a tutte le cose – allora la relazione non significa solo la costituzione di cose ma la fondazione della realtà dell’essere in cui l’uomo vive. Ciò significa che Dio accetta anche di coinvolgere sè stesso nella relazione, di parteciparvi, diversamente da Kant che era un deista. Questo è anche uno dei motivi per cui Buber ritiene che l’uomo non può parlare “di” Dio come se fosse un istituzione o una teologia, ma può solo parlare “con” Dio relazionandosi a Lui.

Bibliografia

Buber M., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1993; Id., Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano (BI), 2004.
Casper B., Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber [1967], Morcelliana, Brescia 2008.
Ferrari F., Presenza e relazione nel pensiero di Martin Buber, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2012; Id., Religione come presenza, Morcelliana, Brescia, 2012.
Heiddeger M., Introduzione alla metafisica, Presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 1990.
Poma A., La filosofia dialogica di Martin Buber, Rosenberg e Sellier, Torino, 1974.
Vermes P., Martin Buber, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1990.
Volli U., Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Bari, 2008.

Lascia un commento