Le parabole di Gesù: provocazione e tradizione del messaggio cristiano

Da una lettura attenta della Bibbia si evince che il Vecchio Testamento fu scritto appena 2700 anni dopo la presunta Creazione del mondo mentre le prime teorie del Big Bang risalgono agli anni ’30 del XX secolo. Considerando che attualmente si registrano oltre 80 milioni di specie animali sulla Terra è poco verosimile che Noè fosse riuscito a trasportarne una minima parte su una nave. Durante l’illuminismo poi sono state riformulate molte teorie storiche tra cui la caduta dell’Impero romano, il ruolo del Gesù storico e il Medioevo inteso come degradazione di scienza e morale. Non occorre quindi molta logica per mettere in discussione la Tradizione della Chiesa che si è sempre arroccata sulle proprie posizioni, a volte anche con metodi molto discutibili e poco efficaci, es. il filosofo Ruggero Bacone fu arrestato e incarcerato solo per aver criticato le traduzioni di Aristotele che secondo lui ne travisavano il significato. Con il Nuovo Testamento (NT) però le cose sono andate diversamente.

I teologi non si sono limitati a confutare fatti e persone più o meno reali ma hanno cercato di distingue quanto Gesù ha detto e fatto realmente e di quanto è stato tramandato nei Vangeli. Molto probabilmente il Vangelo secondo Giovanni è stato scritto molti anni dopo la scomparsa del maestro, presumibilmente 70-80 anni e quindi riflette un pensiero distante dalla sua predicazione ovvero rielaborato dalla comunità di Efeso. Il lessico utilizzato nel vangelo infatti è costituito da lunghi discorsi metaforici che suona molto diversamente da quello dei vangeli sinottici che però neppure trasmettono notizie corrette ma testimoniano la fede della comunità dei cristiani in cui sono stati scritti. Già la scelta di inserire detti e racconti, accolti in un vangelo, è espressione di una decisione personale e perciò annuncio di fede del redattore (o dei redattori). Quanto i testimoni hanno visto e sentito direttamente durante la Pasqua, si combina con ciò che i redattori riportano dopo.

È importante perciò distinguere ciò che Gesù ha detto (ipsissima verba) e ciò che è stato tramandato e inserito nei vangeli. Non si tratta di una distinzione di autorità, come per dire chi ha ragione e chi ha torto (il che doveva essere un’idea diffusa al tempo della redazione dei Vangeli) ma si tratta di capire meglio gli strati redazionali del Nuovo Testamento ma sopratutto capire lo sviluppo dell’annuncio evangelico (problemi affrontati, domande emergenti, riformulazioni, etc). A volte anche il più rozzo ignorante comprende meglio ciò che ha detto Gesù in relazione ad una situazione della propria vita e non c’è dubbio che il Signore parla ancora oggi nell’intimo dell’animo ad ogni credente ma il sentimento deve comunque essere misurato con l’evidenza empirica della tradizione. Le nuove conoscenze che oggi disponiamo attraverso la teologia sono coerenti con il messaggio originale evangelico? Come si può capire se ciò che Gesù ha detto o fatto sia coerente con la comprensione dei Vangeli e con lo sviluppo successivo nella Chiesa (o nelle chiese)? Anche se per la composizione del canone hanno giocato un ruolo determinante i Padri della Chiesa, cosa si sa dei testi extrabiblici?

La ricerca storico-critica non conduce alla fede ma la protegge da eventuali superstizioni e pregiudizi ed aiuta a distinguere ciò che è contenuto nel testo e ciò che è stato scritto/detto sul testo. La moderna ricerca sulla vita di Gesù va oltre il dato strettamente storico e cerca di arrivare al Gesù reale. Già nel 1906 Albert Schweitzer mostrò che non vi fossero più le condizioni per ricostruire una vita di Gesù in quanto mancano fonti attendibili sulla sua biografia (anagrafe, istruzione, etc). Schwitzer riconobbe che l’intento originale degli evangelisti non era quello di realizzare una cronaca corretta dal punto di vista storico ma piuttosto un annuncio credibile di fede. Rudolf Bultmann aggiunse che già nella vita del Gesù storico vi fosse una cristologia implicita intesa come rivelazione definitiva di Dio. Che poi se Gesù lo abbia espresso o manifestato in maniera diretta non è un problema rilevante ai fini della fede che non implica il fatto di ritenere vero l’uno o l’altro fatto ma significa essere fondati sul piano esistenziale così che ognuno si vede per ciò che è, come figlio adottato da Dio, giustificato e perdonato.

Il credente trova la propria vita, o meglio la “ritrova” inteso come cammino di conversione, non più nel proprio “operato”, nel lavoro o nello studio di tutti giorni, né nel proprio “creduto”, nei dogmi della Chiesa ma nella vita intesa come dono di Dio. La fede non è un sacrificio dell’intelletto, una rinuncia alla nostra ragione ma è un rinnovarsi della propria autocomprensione. In seguito Bultmann tentò di tradurre il linguaggio mitico di epoche diverse in un linguaggio moderno comprensibile ai suoi contemporanei (demitizzazione) e applicò tale metodo alla teologia con risultati sorprendenti: ciò che la Bibbia descrive come lotta del bene contro il male oppure come lotta dello spirito contro la carne (come nel caso dell’antignosticismo di san Paolo), la moderna interpretazione lo descrive come aggressione della fede alla ben radicata ricerca umana di vantarsi, di cimentarsi con gli altri e di valutarsi come superiore od inferiore ad essi. Secondo Bultmann la teologia esprime quanto la scienza ha già verificato mentre la filosofia esprime quanto la teologia ha già verificato. Si tratta di capire allora se Gesù non finisca per essere solo una motivazione che spinge il credente alla ricerca continua o alla verificazione di quanto già cercato.

Come si può accettare una vita senza Gesù e un Platone senza la sua Repubblica? Nel migliore dei casi Gesù diventa solo un “buon esempio” che può essere sostituito da preti e papi? Il rischio di Bultmann è di formulare un discorso coerente perché se la salvezza diventa un cambiamento della nostra comprensione o conversione, allora la salvezza si riduce ad un’idea. La Scrittura annuncia invece qualcosa che esiste e che esisterà sempre al di là delle nostre rappresentazioni (“Deo extra nos” = “Dio è fuori di noi”, dicevano i Riformatori). Negli anni ’70 la ricerca sul Gesù storico assume una svolta decisiva nel tentativo di riportarlo alle sue origini ebraiche. Quando un giudeo-cristiano, cioè un cristiano convertito dall’ebraismo molto più spesso un ebreo della diaspora, riconosceva Gesù come Figlio di Dio, lo faceva secondo quanto la sua Bibbia gli aveva insegnato cioè quando ascendeva in trono, magari investito da qualche personaggio autorevole come Abramo o Davide (cristologia dal basso). Da quel momento in poi Dio agiva e parlava con Israele tramite il “figlio di Dio” che si qualifica per la sua vita e non per la sua natura o la sua sostanza.

I Padri della Chiesa hanno molto discusso di teologia utilizzando la cultura e le categorie della filosofia classica ma come ci sono arrivati? Certamente il Vangelo è stato scritto in greco ma nulla riporta né di filosofia né di teologia intesa come speculazione dottrinale su Dio (eccetto Giovanni evangelista che riporta una cristologia dall’alto). Secondo Maurice Casey Gesù era un profeta giudeo che mai si è identificato come Messia, Figlio di Dio o Signore. A volte si definiva Figlio dell’uomo senza allusioni alla sua presunta divinità ma in termini apocalittici perché si aspettava l’immediata fine del mondo e l’imminente venuta del Regno di Dio. Per questo motivo radicalizzò, ma non vietò, i comandamenti mosaici. Per sé stesso si aspettava una morte ignominiosa ed una vittoria gloriosa da parte di Dio stesso. I suoi discepoli, in un primo momento delusi per la mancata verifica di quanto aveva promesso, dovettero cercare una nuova identità nei confronti dei giudei che lo avevano rifiutato. Era quindi necessario un miracolo, un evento che potesse attestare quanto detto da Gesù ma che non aveva potuto realizzare in vita e gli evangelisti si inventarono l’ascensione di Gesù al cielo, riprendendo un analogo episodio del profeta Elia di modo che potesse prendere simbolicamente il posto della legge mosaica.

Il passo che Paolo e i sinottici non avevano osato compiere fu compiuto dai redattori del quarto vangelo che presenta una cristologia dall’altro e dove Gesù è definito non più Figlio di Dio ma Dio stesso e tale rimase la posizione della Chiesa fino al concilio di Calcedonia. Secondo John Dominic Crossan il regno di Dio è una realtà già in atto con proprie regole e consuetudini. Al centro c’erano le guarigioni dei malati, il pasto in comune e la comunione dei beni. Il retroterra culturale in cui vive e opera Gesù è costituito da tante minuscole sette, tra cui gli esseni di cui forse faceva parte anche Giovanni il battista, che condividevano più o meno le medesime attese apocalittiche di un regno venturo e di una redistribuzione delle ricchezze. Forse Gesù può aver preso parte ad alcune di tali aspettative ma non si può pensare che fosse uno di loro e non appena potè si allontanò da tali sette. Le parabole di Gesù per quanto fossero criptiche in realtà sono credibili e soddisfano la logica umana, es. il pesce buono è meglio di quello putrido e una pecora può essere più utile di altre 99.

Gesù è un leader carismatico che mette in discussione le regole del clero giudaico ma senza alcuna pretesa di prendere il loro posto né di fondare un proprio movimento; la sua fine è simile a molti altri personaggi storici che sono stati perseguitati senza motivo, es. Galilei o Tortora. Il metodo Crossan (criterio dell’attestazione molteplice) è importante perché riesce a raggiungere una verità credibile senza necessariamente ottenere un’obiettività irraggiungibile. Il secondo luogo Crossan lavora sulla datazione delle fonti. Molto probabilmente i vangeli di Matteo (erroneamente pensato come il primo ad essere stato scritto) e Luca si basarono in parte su Marco e su una fonte ignota chiamata “Q”. A differenza dei sinottici tuttavia “Q” non doveva essere il vangelo di una comunità particolare ma una raccolta di detti e sentenze da recitare durante la liturgia. È probabile inoltre che ai tempi di Paolo non vi fossero delle comunità distinte dalla sua o almeno tali da reclamare un proprio vangelo.

Il vangelo secondo Giovanni si sarebbe potuto venire a conoscenza anche solo per via orale prima che un gruppo di redattori decidesse di metterlo in forma scritta. Crossan ha poi dimostrato che i vangeli apocrifi non sono altro che dei maldestri tentativi di combinare i contenuti evangelici tra loro, es. l’episodio del giardino di Betania nel vangelo segreto di Marco tradisce l’episodio della donna di Betania e la resurrezione di Lazzaro. In altri casi la redazione apocrifa non è avvenuta per sommatoria di tradizioni ma per sottrazioni, es. il detto sapienziale sul Figlio dell’uomo appare sia nella Didachè che nell’Apocalisse di Elia il che potrebbe essere riconducibile all’idea di qualcuno che deve tornare alla fine dei tempi. Ci sono poi tutta una serie di domande che rientrano nella cd. “probabilità storica”, es. l’ultima cena di Gesù rientrava nel pasto quotidiano? L’incidente coi mercanti nel tempio fu una vera e propria cacciata o una zuffa? Quanto ha influito la distruzione del tempio ad opera dei romani nel 70 d.C. per la redazione dei vangeli? Fermo restando che Paolo conosceva l’episodio della consacrazione eucaristica, in che modo poteva collegarlo alla liturgia?

Per rispondere a tali domande ci sono due soluzioni: accettare il punto di vista della chiesa primitiva come dato di fede non discutibile (scuola di Bultmann) oppure relativizzare il ministero di Gesù in base al punto di vista della disciplina di studio, es. Gesù predicatore, Gesù rivoluzionario, Gesù profeta, Gesù taumaturgo, etc. (scuola di Kasemann). C’è però un dato comune a queste due scuole di pensiero: non si può valutare la figura di Gesù senza considerare ciò che ha fatto e ciò che è stato scritto su di Lui. Infatti Gesù non lo si conosce solo tramite i vangeli ma anche attraverso coloro che sono stati toccati e guariti dai dolori morali e organici o semplicemente che hanno visto in Lui il senso della vita e la pace dell’animo. Perciò è impossibile tracciare un confine nitido tra ciò che Gesù ha detto in parole e ciò che hanno fatto i suoi seguaci. Analogamente è impossibile determinare quando lo spirito santo ha insufflato sulla Chiesa e quando se ne è allontanato: è ammissibile pensare ad uno Spirito santo che parteggia per l’uno o l’altro partito durante lo scisma dei latini o lo scisma di Lutero? Ciò induce a formulare qualche ipotesi sul canone cioè il momento in cui i cristiani hanno sentito il bisogno di attestare la rivelazione e circoscrivere i testi divinamente ispirati.

Gli scritti raccolti nel NT si sono imposti non solo perché da essi scaturivano aiuto e speranza ma perché erano più credibili per la mentalità dell’epoca. In tal senso una fede diventa ideologia quando la sua fondazione non è realmente pensata e non lascia aperti spazi per nessuna crescita. La proibizione della Chiesa cattolica della ricerca scientifica tra il 1542 e il 1908 (eccetto nel 1860 con il caso Mortara che segnò un significativo colpo all’Inquisizione) lascia intendere che questo rischio vi sia stato. Tornando ai criteri secondo i quali si può accertare cosa Gesù abbia detto di originale John P. Meier (1942-2022) ne propone 5: imbarazzo, discontinuità, attestazione multipla, coerenza e rifiuto. Ad esempio la parabole del lievito accetta tutti i criteri per essere considerata facente parte della predicazione originaria di Gesù: poiché il pane azzimo veniva cotto senza lievito, allora il lievito indicava nella tradizione giudaica qualcosa di impuro (imbarazzo); ne consegue che il testo non si può ricollegare né a tradizioni rabbiniche né pagane (discontinuità); la parabola si trova anche in Q e nel Vangelo di Tommaso (molteplice attestazione); il lievito che impegna il discorso può far sorgere il sospetto che Gesù sia un ribelle (rifiuto).

Gesù non poteva fare o dire cose che fossero incomprensibili per la chiesa primitiva, es. il giorno e l’ora della sua venuta (Mc 13,32) così come non poteva dire o fare cose che erano del tutto prive delle sue radici giudaiche. Analogamente elenca altri 5 criteri di valore dubbio: arameismi, allusioni all’ambiente palestinese, narrazioni dal vivo, affermazioni contrarie e probabilità storica. Di criteri in effetti se ne potrebbero trovare a migliaia senza però trovare un’univoca spiegazione efficace, es. perché Gesù parlava in parabole? Se ne ritrovano in Q, nei vangeli canonici e in quelli apocrifi. Nonostante il loro contenuto criptico la comunità dei discepoli ha voluto preservare il messaggio del maestro attraverso questa forma espressiva anche se meno esplicativa di quanto potesse sembrare invece un discorso diretto. Si tratta di un genere letterario già conosciuto dalla letteratura rabbinica ma con alcune differenze significative. Le parabole rabbiniche prendono le mosse da una frase da dimostrare oppure concludono in un’affermazione dove si può discutere su un comando della Scrittura e la sua interpretazione. La parabola quindi deve illustrare quanto già detto o risaputo in modo che l’interlocutore ne confermi il consenso. Gesù invece non illustra nulla che si poteva intendere con una tesi o un comandamento ma inizia il racconto in maniera diretta introducendo una piccola locuzione, es. “il regno di Dio è simile a un granello di senape” (Lc 13,18).

Vi è il fondato sospetto che eventuali riassunti o parafrasi siano state aggiunte dalla comunità nella redazione dei vangeli, es. l’amministratore infedele è abbastanza scaltro da pensare alle conseguenze di un’eventuale scoperta delle sue truffe mentre i figli della luce dimenticano di farlo in relazione al giudizio di Dio. Questo esempio dimostra che coloro che tramandarono il messaggio del maestro non si sono limitati a riportare quanto detto da Gesù per filo e per segno ma hanno tentato una seppure minima e approssimativa interpretazione. Se Gesù si fosse limitato al senso didattico avrebbe organizzato la sua predicazione evitando qualsiasi artifizio teso a renderne difficile la comprensione. Gesù però sa che Dio non può essere insegnato nel senso stretto della parola ma piuttosto lo rende narrabile. Evidentemente lo scopo di Gesù non è didattico ma catartico cioè testo alla conversione dei cuori, alla guarigione dell’anima. La parabole utilizza un linguaggio figurato pieno di allegorie e metafore dove ogni punto corrisponde a un oggetto nella realtà. Ma l’allegoria presuppone un linguaggio da iniziati, incomprensibile per coloro che non sono stati consacrati e di certo Gesù non intendeva questo. Inoltre Gesù con le sue parabole entra direttamente nel mondo e si apre all’incontro ai fini del cambiamento di vita.

Chi vuole comprenderlo ha due possibilità: può osservarlo a distanza riservandosi di decidere in seguito se accettarlo o meno come fanno i greci (Gv 12,20) oppure può replicarlo nella propria vita tentando una minima seppur approssimativa interpretazione ed è ciò che hanno fatto le comunità primitive cristiane. In tal senso il messaggio di Gesù non si presenta come una dottrina o una didattica ma come una teologia implicita che attende di essere esplicitata attraverso il processo dogmatico. Ed è qui che subentra il discorso sull’onnipresenza divina e la libertà umana perché Gesù doveva per forza lasciare un margine di libertà ai suoi interlocutori per non cadere nella trappola del plagio o del cinismo perché non avrebbe senso proporre la guarigione lasciando come unica alternativa la malattia. D’altra parte è un processo etico perché mette in guardia la comunità dall’autosufficienza di un’ideologia o una dottrina che si deve accogliere una volta e per sempre. Ne è un esempio la liturgia eucaristica attestata prima da Paolo (1Cor 11,26) a cui Marco aggiunge “versato per molti” (Mc 14,25) a cui Luca aggiunge che nel Regno Gesù avrebbe consumato di nuovo dell’agnello e del vino”. Tutte e tre le fonti sono accomunate da 3 argomenti: Gesù condivide non un pasto qualunque ma l’atto pasquale della consumazione dell’agnello e del vino; Gesù spezza il pane e offre il calice ai commensali; Gesù accenna non a tutti ma a “molti”.

In quanto al contenuto delle 3 fonti varia l’accento che in Marco ricade sulla morte, in Paolo sull’alleanza e in Luca sulla comunità. Un altro esempio è la chiamata alla sequela che non ha pari nel giudaismo o nell’ellenismo. Nel giudaismo l’iniziazione religiosa avveniva individualmente tra scolaro e maestro al quale veniva presentato il candidato. Gesù invece non accetta intermediari né lascia che siano i discepoli a farsi avanti ma sceglie esclusivamente in base al suo arbitrio. Ne consegue che non poteva scegliere uno come Giuda sapendo che lo avrebbe tradito. Gesù inoltre non intende risvegliare delle aspettative da parte di chi lo seguiva di tipo politico, profetico o apocalittico. Gesù non ha mai condotto i suoi discepoli in un’aula didattica né ha insegnato loro a leggere e scrivere. Gesù sapeva che la sequela non avrebbe condotto alla gloria o al miglioramento della loro reputazione ma alla sofferenza ed alla morte che i suoi discepoli hanno tacitamente accettato. Non si può pensare che tutte le esortazioni che si trovano in bocca a Gesù siano nate più tardi nelle elaborazioni comunitarie. Certamente tra Gesù e i discepoli c’era un clima familiare che si è trasmesso nelle prime comunità cristiane ma Gesù non si è mai definito “Padre” né “Madre” se non rivolgendosi a Dio nella sua preghiera.

Se ne deve dedurre che l’espressione sia stata rielaborata dalla comunità di Marco (Mc 14,36) forse tradendolo dal Qaddish anche se tale espressione non ha riscontri nelle preghiere giudaiche al tempo di Gesù ed eventuali attestazioni nel Talmud sono posteriori. Gesù inoltre non si è mai chiamato “Messia” o “Figlio di Dio” o “Servo di Dio” che forse è un’altra rielaborazione marciana (Mc 8,29-31). Gesù non si è mai definito “profeta” e le profezie sulla sua morte e resurrezione sono state formulate solo dopo la Pasqua altrimenti perché i discepoli sarebbero dovuti fuggire dopo la sua cattura sapendo che era il Messia e sarebbe tornato? Dietro a tutte queste ipotesi c’è l’idea che Gesù non avesse tramandato alcuna formula da imparare a memoria come invece hanno fatto le generazioni posteriori. Se dunque i discorsi di Gesù non sono aneddoti, insegnamenti, guarigioni o formule che altro sono? La risposta a questa domanda potrebbe trovarsi nel concetto di provocazione e di tradizione. Gesù ha voluto provocare l’umanità lasciando che potesse tradire e modificare, in base all’ispirazione divina, il suo messaggio?

Tutti i vangeli parlano di un uomo che viene crocifisso e risorse e persino nelle lettere paoline, pur essendo state scritte prima dei vangeli, tali argomenti sono centrali. Nella tradizione cristiana Gesù è presentato come un servo obbediente che riceve e porta a compimento quanto gli è affidato da Dio Padre. Tutto ciò che ha fatto Gesù quindi si è realizzato necessariamente senza che lui potesse avere altre alternative e dunque anche il tradimento di Giuda si pone in questa prospettiva come qualcosa che era stato previsto. Forse l’idea del traditore suicida deve essersi insinuata nelle comunità cristiane come monito per i futuri adepti ai fini del mantenimento del consenso interno. La resurrezione di Gesù è testimoniata ovunque nei vangeli ma senza alcuna descrizione in quanto si presume che tale fenomeno, per la sua eccezionalità, non sia possibile vedere ad occhio nudo. Anche qui si evince una tradizione che progredisce nel tempo: Marco conclude il suo libro con l’annuncio della resurrezione mentre gli altri vangeli aggiungono varie apparizioni.

È probabile che la comunità primitiva cristiana abbia elaborato fin da subito alcune brevi formule per riassumere la propria fede, il cd. “kerygma” ovvero la “passione-morte-resurrezione” di Gesù Cristo. In un secondo momento a tali formule si aggiungono dei sommari che illustrano uno o più attributi, es. l’origine divina, la signoria sul mondo, etc. Paolo doveva conoscere tutte queste formule che già venivano predicate prima della sua conversione tra cui la discendenza da Davide (cristologia dal basso), la preesistenza, la kenosis (spogliò sé stesso), la parusia, etc. Per i primi cristiani evidentemente era più importante predicare il Gesù celeste e glorificato piuttosto che quello terreno e odiato. Le modifiche non sono avvenute solo tramite la sommatoria ma anche con la sottrazione, es. Paolo averebbe volutamente omesso l’apparizione dell’angelo alle donne dopo la resurrezione (1Cor 15,5-8) perché la testimonianza delle donne non era riconosciuta del diritto giudaico e quindi avrebbe potuto creare imbarazzo alla società dell’epoca. Si discute ancora su una probabile misoginia di Paolo. Vero è che tutti i vangeli raccontano della loro visita alla tomba vuota: una sola donna in Giovanni, due in Matteo, tre in Marco e le più donne in Luca.

Nel vangelo secondo Giovanni Pietro e Paolo entrano nel sepolcro in seguito all’annuncio di Maria Maddalena che di fatto è la prima donna a portare l’annuncio di Gesù. Eppure oggi la Chiesa cattolica esclude le donne dal diaconato (il concilio di Calcedonia al canone 15 aveva stabilito di ordinare le diaconesse dopo aver compiuto 40 anni cioè quando le donne entravano in menopausa). Con qualche probabilità si può concludere che le donne hanno preso parte ad un’apparizione presso il sepolcro ma poi la comunità primitiva le ha eliminate. Nel vangelo secondo Marco la presenza delle donne è caratterizzata dal silenzio, es. la donna che porta il vaso di olio profumato (Mc 14,3-9), le donne che tacciono sotto la croce (Mc 15,40-41) e il mancato annuncio della resurrezione (Mc 16,8). La Chiesa cattolica per togliersi dall’imbarazzo compie un’operazione quasi “chirurgica”: omette il verso finale (Mc 16,8) dal lezionario. I lezionari erano stati introdotti dopo il CVII poi revisionati nel 1981 per consentire ai fedeli di recitare le Scritture durante la liturgia della Parola. La motivazione ufficiale è di offrire una lettura più gioiosa in modo da evitare il senso di paura che mal si concilia con l’annuncio del Vangelo ma in realtà la Chiesa ha dimostrato così di avere paura dell’innato senso umano di porsi domande e di dubitare della realtà. Decurtare quindi una pericope della sua conclusione equivale a far passare l’idea che l’annuncio non sia possibile a tutti nonché a privare della possibilità di conoscerlo.

Conclusioni



L’assenza di un canone ovvero l’ “essenza” stessa della materia teologica, così soggetta alle opinioni ed alle critiche, il ruolo ambiguo dell’autorità romane (dividi et impera), la stratificazione gerarchica che favoriva le gelosie e le parzialità, furono le cause che determinarono l’insorgere di contrasti. Il presbitero Ario dal 315 si diede a propagare con “omelie, lettere e canzoni” la sua dottrina rivoluzionaria; Nestorio, vescovo di Costantinopoli, si mise a biasimare nelle sue “prediche” il titolo di “Madre di Dio”; Marcello di Ancira si distinse come ardente oppositore degli ariani ma si lasciò andare a speculazioni sul Logos. La provocazione, perciò, diventa “eresia” solo quando si scontra con l’autorità costituita. La vicenda di Priscilliano nel 385 fu il primo caso di condanna a morte per eresia, lo fu prima di tutto perché con le sue idee mise in discussione l’autorità costituita ma sopratutto perché, tramite la sua predicazione, aveva convinto il popolo o comunque buona parte di esso a seguirlo e ciò rappresentava una minaccia per la Grande Chiesa che mirava non solo ad essere riconosciuta come religione di Stato ma a sostituirsi allo Stato stesso secondo la dottrina ambrosiana. Ci si chiede, in altre parole, se a determinare il successo delle varie eresie non sia stato un fattore etnico perché la “Grande chiesa” si stava romanizzando laddove cominciavano ad emergere delle rivendicazioni nazionali (donatisti in Africa, monofisiti in Etiopia, copti in Egitto, etc.) e persino gli ebrei in Palestina.

Nel mondo delle religioni, infatti, l’ebraismo assume un ruolo fondamentale. Al di là delle interpretazioni teologiche su Jahvè, sorto da un pantheon di divinità celesti, la religione ebraica nasce come memoria di un popolo che per secoli ha creduto in un unico Dio in modo onnicomprensivo e totalizzante senza nulla conoscere di una vita migliore dopo la morte intesa semplicemente come “riposo” celeste. Per il pio ebreo la religione acquista qualcosa di più che la proiezione dei propri bisogni e delle proprie frustrazioni e diventa qualcosa di totalizzante che cioè accompagna l’uomo sia nei suoi successi che nei suoi fallimenti, sia nella sanità che nella malattia, sia nel fallimento che nella sconfitta. La religione diventa una memoria di un popolo perennemente sconfitto e disperso ma sempre pronto a rialzarsi e combattere. Con Gesù la religione acquista una peculiarità escatologica nel senso che porta a compimento tutte le promesse di Israele nella sua persona umana e divina.

Può essere che la Chiesa cristiana primitiva abbia compreso il suo messaggio in senso apocalittico cioè come l’inizio della fine dei tempi? Se leggiamo il vangelo di Giovanni vediamo che riporta l’incontro di Gesù con Marta quattro giorni dopo la morte di Lazzaro in Betania, e la rassicura della sorte del fratello defunto (Gv 11,17-29). Si è portati a pensare che la pericope non riporti un dialogo avvenuto realmente se non nella rielaborazione della comunità primitiva efesina. Marta le risponde con la professione di fede nella resurrezione ma non è credibile che storicamente ne sia venuta a conoscenza. Che senso ha poi resuscitare Lazzaro per farlo poi morire di nuovo per morte naturale? Evidentemente il senso qui è di provocare l’intelligenza dei lettori/interlocutori dell’evangelista: naturalmente Lazzaro e Maria dal punto di vista strettamente biologico dovranno affrontare la morte ma spiritualmente non moriranno mai. Il loro corpo scomparirà inghiottito dalla polvere ma la loro anima vivrà nella misura in cui hanno accettato che Gesù potesse entrare nella loro vita di fede.

Il fondamento della fede in una vita eterna frutto della resurrezione, già iniziata con il kerigma, ha più valore di una vita vissuta tra gli agi e le ricchezze. Per questo la Parola di Dio non può mai essere una parola “distillata” cioè pura al cento per cento ma deve scorrere all’interno della vita del credente, nella sua esperienza quotidiana, nelle sue fatiche e nei suoi successi. Ciò accade nei primi discepoli e nelle discepole per poi trasmettersi nei redattori dei vangeli, nei Padri della Chiesa e nel magistero dei papi. Ne consegue che non è una parola definitiva che può essere “ingabbiata” in un canone o in un vangelo. Si ripresenta cioè il problema posto dai Riformatori dell’ “extra nos” cioè del fatto che Gesù ha operato una salvezza in maniera indipendente dall’operato di ciascun essere umano. Dio ha operato in senso escatologico nella crocifissione e nella resurrezione di Gesù e la giustificazione dei peccati è stata decisa già prima dell’annuncio del kerygma. Il problema allora non è tanto capire se tutte le espressioni contenute nei vangeli siano riconducibili al Gesù storico ma capire in che modo il Verbo si è fatto carne. Se Gesù era qualcosa di necessario e se aveva previsto tutto allora Dio si sarebbe potuto incarnare anche in una zucca ma evidentemente non sarebbe stato credibile quanto la tradizione giudeo-cristiana con tutto il suo seguito di “catene agiografiche” e tradizioni orali.

Ci sono nella Bibbia argomenti più o meno veritieri di cui però non si può fare a meno: da una parte l’eterno conflitto tra fede e ragione e d’altra parte la promessa di Gesù Cristo che alla fine vincerà. La conoscenza di Cristo non consente a nessuno di elevarsi al di sopra degli altri così come la sua ignoranza non può essere una condanna. L’espressione “in origine era il Verbo” andrebbe rimpiazzata con “in origine era la lettera” che riflette di come la tradizione cristiana si sia pietrificata nel corso dei secoli tradendo in un certo senso quella flessibilità dei primi tempi. Il detto paolino “la lettera uccide, lo spirito vivifica” è stato contraddetto e capovolto dalla letteratura cristiana attraverso cui lo spirito vive e agisce più di quanto facciano vescovi e papi. Il rapporto tra verità e storia, infatti, non è sempre stato coerente ed anche la teologia per molti secoli si è posta al servizio del potere dei vescovi e dei papi adattando e modificando i racconti evangelici per le varie esigenze dogmatiche almeno fino al XIX secolo quando la scienza ha reclamato l’indipendenza da qualsiasi forma di autorità. Questo discorso può essere fatto valere in qualsiasi disciplina, dalla giurisprudenza alla letteratura.

Il filosofo inglese Thomas Hobbes diceva che la legge è tale non in virtù della norma in sé ma dell’autorità che la determina; dunque il diritto sarebbe il risultato del potere e dell’arbitrio, non della giustizia e del bene comune. Gli storici latini Tito Livio e Flavio Giuseppe hanno scritto storie esaltanti sull’autorità romana insieme ad una serie di storie più o meno convincenti che però poco avevano a che vedere coi fatti realmente accaduti. Essendo al servizio delle autorità che gli commissionavano i lavori, gli storici avevano idee diverse tra loro spesso e volentieri frutto di credenze e convinzioni personali. La verità però come concetto filosofico ha avuto un percorso travagliato e doloroso con tutto il suo seguito di morti e persecuzioni. La verità cristiana si è infatti spesso imposta come l’unica possibile, assoluta, come riferimento necessario di una convinzione indubitabile e indiscutibile. La ricerca della verità si è trasformata nella sua perentorietà e la forza della sua efficacia è stata usta per imporre l’autorità di chi l’affermava, es. nel caso del processo a Galilei condannato solo perché non aveva rispettato l’imprimatur del papa. La lotta per la verità si è quindi trasformata in una presunta lotta di potere per imporsi sull’ignoranza, sull’eresia o sull’opinione pubblica.

Vi sono stati studiosi di vario genere che dall’800 in poi hanno cominciato a mettere in discussione il concetto di verità assoluta. Lungi dal cadere nel relativismo questa dinamica della verità consentì alla scienza di sfuggire ai dogmi assolutistici pur lasciando la possibilità di essere sempre aggiornata e riformulata. Anche Bultmann si è dovuto arrendere all’impossibilità di una demitizzazione totale del messaggio evangelico ed accettare molti contenuti per fede. Quando la storia ha voluto essere riconosciuta come una delle forme di conoscenze scientifica, ha incominciato a pensare alla verità più come un orizzonte di senso che come ad un concetto assoluto. Perché fu proprio con la messa in discussione delle certezze positivistiche che le vecchie categorie epistemologiche entrarono in crisi. La lotta per la verità non vuole ridursi all’imposizione della verità ma vuole procedere oltre senza perdere il rigore metodologico tipico della ricerca scientifica. Nel corso del ‘700 si è imposta un’immagine idealizzata della scienza nel solco tracciato dalla rivoluzione industriale.

La ragione illuminista, dogmatica e autoreferenziale si poneva al sicuro dalla critica empirista mentre la ragione storica si apriva alle regole della scienza. Si contrapponeva sia alla versione kantiana statica e inflessibile sia a quella prekantiana di matrice empirista. Diversamente dall’illuminismo che pecca di perfezionismo, la scienza storica rivaluta l’errore come antidoto al dogmatismo. L’impresa scientifica si apre al fallibilismo che garantisce l’apertura e la crescita della scienza. Lo spirito di lotta e sacrificio fu preservato nei discepoli di Galileo che scelsero come motto del Cimento “Provando e riprovando”. L’associazione fondata nel 1657 fu sciolta dopo appena dieci anni. Era stata preceduta dall’Accademia dei Lincei tutt’ora operante. Il granitico credo positivista della scienza canonica cominciò a sgretolarsi tra la fine dell”800 e l’inizio del ‘900 per opera di alcuni scienziati-filosofi (Mach, Poincarè, Vailati) prestando maggior attenzione alla storia delle scienze e scoprendo il “bluff” che si celava dietro le opinioni dominanti. Nel positivismo il metodo ha prevalso sull’idea del mondo ed anche la teologia ha posto il principio di fede come risultato dell’esperienza e della volontà tale da poter essere disposte o riposte a seconda del bisogno.

Il modernismo non è stato solo un modo di applicare il positivismo alla teologia ma il tentativo di porre un rimedio ai ritardi della teologia cattolica in una Chiesa che dal 1542 aveva vietato qualsiasi forma di libera ricerca. Ma anche il positivismo aveva le sue pecche innanzitutto perché ripudiava il soggetto investigatore. Lo stesso Newton, che odiava la Chiesa cattolica, vedeva la natura simile ad un orologio. L’intervento del soggetto ricercatore nel processo di ricerca, invece, è fondamentale in quanto non vive di luce riflessa ma è lui stesso la sorgente delle intuizioni e delle ipotesi da verificare o falsificare. La mente umana non è una camera oscura su cui si riflettono le impressioni fotografiche del mondo platonico delle idee. Così gli evangelisti non erano dei compilatori di tradizioni o dei copisti che lavoravano su commissione ma di fatto erano dei ricercatori a tutti gli effetti che non si limitavano a presentare la parola così come l’avevano ricevuta ma tentavano pure di interpretarla. La tradizione è passata di mano in mano attraverso i secoli dei Padri apostolici, dei monaci e dei teologi. La scienza, così come la teologia o la filosofia, è un intreccio di fili, di tradizioni e di emozioni che provoca la meraviglia intesa come la capacità di stupirsi ad ogni scoperta. La meraviglia è la scintilla che alimenta la fiamma della conoscenza che va continuamente alimentata e custodita come un tempo facevano le vergini vestali. Tale doveva essere la sensazione di Gesù quando ha scoperto che farisei e sadducei ingannavano il popolo con inutili ed estenuanti precetti. Ma i primi cristiani e lo stesso Paolo erano ebrei e non potevano rinunciare di punto in bianco alle proprie tradizioni. Così nel 70 d.C., con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, nascono i vangeli dalla mente di appassionati credenti. I personaggi si distaccano dalla memoria dei testimoni e cominciano a parlare e agire in autonomia. Anche gli evangelisti però hanno avuto un metodo il primo dei quali era l’onestà socratica. In secondo luogo effettuano indagini e vagliano ipotesi scartando quelle meno attendibili (Lc 1,3). Il tutto accompagnato dalla preghiera e dalla vita in comunità di modo che potessero ricevere la giusta ispirazione. La ragione ha i suoi limiti e non si oppone alla fede ma la elabora in modo creativo e costruttivo.


Bibliografia

Lauria P., La ragione picaresca. Avventure e imprese nell’epistemologia della storia, Armando, Roma, 2011.
Scweizer E., Gesù la parabola di Dio. Il punto sulla vita di Gesù, Queriniana, Brescia, 1996.

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