L’antico mondo cristiano

Introduce il vescovo Tisi che esprime i saluti di rito e l’accoglienza nella Diocesi di Trento. Il sottotitolo “dibattito sul cristianesimo” è di grande attualità il che rimanda ad una visione più ottimista, di cambiamento e di sviluppo che per natura è un corpo vivo che si plasma e si struttura sui volti dei credenti e nel tempo.

Interviene Cecilia Frida Nadalini che discute una relazione illustrativa sul libro i cui primi passaggi sono stati pubblicati sull “Osservatore romano” tra il 2007 e il 2018 e che ha ricevuto finora una discreta attenzione nella presentazione di Marco Rizzi su Avvenire e recentemente da Roberto Antonelli nella prolusione alla Sapienza di Roma. Siamo di fronte a pagine giornalistiche e scentifiche che si caratterizzano per la solidità della dottrina e che vanno dritto al cuore del primo mondo cristiano: quello dell’esperienza culturale orientale e quello occidentale che hanno una radice comune. A tal proposito l’autore utilizza l’etichetta di “esperienza culturale cristiana” e non “cultura cristiana” perché il cristianesimo è una mentalità, uno stile di vita e non una dottrina. Nei primi contributi Simonetti dimostra che l’antichità cristiana è divenuta una disciplina autonoma a partire dal secondo dopoguerra grazie al superamento del confronto tra Stato Italiano e Stato del Vaticano e ciò fu alla base della creazione dell’Istituto patristico “Augustinianum” con lo scopo di dare al mondo cristiano un percorso di studi rinnovato con l’elaborazione di un nuovo linguaggio con alcune scelte lemmatiche che riscrivono o aggiungono le voci già esistenti, es. la “matristica” al posto della “patristica”. Sull’onda di tali trasformazioni Simonetti fa luce su alcuni studi di Jean Danielou che nel 1946 introduce una linea interpretativa improntata alla “nouvelle theologie” che ritorna alle fonti del primo cristianesimo che è in primo luogo dettata dalla “civilitas” al superamento del tomismo e dell’orientamento tradizionale che imperversava negli studi seminaristici dell’epoca. Acquista importanza la componente giudeo-cristiana, la cultura greca e i romani che è diverso dal sincretismo cui tendono gli studi storici perché in questa lettura prevale la dimensione dinamica e quindi non l’apprezzamento di elementi che tendono a fondere le culture ma a separarle, es. “l’impero romano e il popolo ebraico” in cui ebrei e palestinesi trovarono nei romani una sorta di protezione mediante la concessione di privilegi a tutela dell’esercizio del culto. In “Esegesi ed erudizione” Simonetti dice che l’allegoria supera gli intendimenti del testo cui si riferisce sebbene il significato allegorico si sovrappone a quello letterale senza sopprimerlo. Il testo apocrifo (falso) è strumento di interpretazione o di enfasi di qualcosa ritenuto vero mentre l’allegoria pone l’interprete vicino all’idea umanistica del testo autorevole e non ancora autentico. Una seconda chiave di lettura è la riflessione dell’esistenza di molti cristianesimi che posero il problema dell’ortodossia cattolica nel cui ambito si pone il problema dello gnosticismo che si è insinuato in molti movimenti moderni americani. In “Senza macchia e senza ruga” Simonetti ricostruisce l’antico mondo cristiano, la struttura originale delle omelie dei Padri della Chiesa e il metodo interpretativo improntato all’equilibrio tra interpretazione letterale e allegorica. In “Quella rivoluzione che ribaltò la questione del potere” Simonetti analizza la nascita della teologia politica e la relazione tra cristianesimi e potere politico. I cristiani sono persone di speranza in un Dio trascendente e giudice dell’umanità alla fine della storia del mondo che si può ammirare in “L’antico mondo cristiano”.

Interviene Chiara Curzel che discute una relazione su quattro saggi di Manlio Simonetti. Dall’ottobre 2007 sono apparsi una serie di articoli sull’Osservatore Romano su Origene Adamantio vissuto nel III secolo che appartiene agli apologeti greci. In “Le traversie di un’opera anomala” parla del “De principiis” dove l’autore fissa i punti principali della sua riflessione dottrinale. Il trattato fu subito oggetto di aspre polemiche perché il “De principiis” conteneva la dottrina dell’apocatastasi per la quale tutti, anche i malvagi, si sarebbero salvati. Tale teoria costrinse Origine a discolparsi di fronte al vescovo di Roma Fabiano che però non gli evitò la condanna post mortem per eresia perché aveva ristretto la sua dottrina in un sistema chiuso. A Simonetti si deve anche l’avvio degli studi origeniani che per lunghi secoli erano stati abbandonati e la cura dell’edizione critica del “De principiis”. Simonetti sottolinea il carattere “zetetico” (da zeteo = cercare) perché Origene partiva dal presupposto dell’eternità della Scrittura e dalla necessità di trovare lì le risposte alle domande di senso della vita. Il pensiero origeniano invece diventa ortodosso quando la sua ricerca diventa libera e lo studio originale su Origene si caratterizza per la sete di ricerca e per la libertà dell’uomo. Fare teologia significa partire da una conoscenza rigorosa e puntuale della scrittura dove anche uno “iota” può dare vita a nuovi significati e non per nulla il metodo di trattazione è quello delle “questiones” e delle “responsiones”. Questo misto di rigore ed efficacia rientra nello stile di Simonetti che è stato insignito del premio “papa Ratzinger” nel 2011 con la motivazione che aveva aperto i Padri della Chiesa al pubblico facendoli uscire da uno studio di nicchia, confessionale e apologetico, il che ha permesso agli origeniani di riprendersi un posto di onore negli studi patristici degli ultimi 15 anni. Un ultimo passaggio riguarda la riscoperta delle 29 omelie sui salmi ritrovati nel giugno 2012 a Monaco di Baviera sottolineando che solo una biblioteca laica poteva sancire il diritto di cittadinanza ad Origene ed anche l’università statale assume un ruolo importante perché dà la possibilità agli studenti di studiare la teologia.

Interviene Emanuele Curzel che discute una relazione sulla rivoluzione che ribaltò la questione del potere. Ogni epoca si interroga sul passato che dà senso al presente e quindi cerca di capire il linguaggio e le espressioni nella convinzione che si può trovare la verità e la Chiesa ha cercato di tornare alle sue origini (Carlo Magno, Umanesimo, Concilio di Trento) specialmente nella speranza di mantenere le tradizioni orali conservate in successione continua. Nel ‘700 poi si è voluto mettere in discussione quelle dottrine riprendendo quei padri che erano stati integrati nel metodo scolastico e lo stesso Origene lo dimostra. Ciò non toglie che lo stesso fenomeno possa ripresentarsi oggi. In “Interstellar” si parla di un’umanità divisa in due classi, gli gnostici (scenziati) e il popolo (schiavi) dove i primi devono giustificare la propria conoscenza senza lasciare spazio a interpretazioni. In altre parole la lotta per la sopravvivenza non è sentito utile come lottare in sé e oggi i nostri contemporanei giudicano utile questa esistenza di chi cerca di spiegare i meccanismi della vita e le leggi scentifiche. Per parafrasare Origene che è il seminatore ignaro si può dire che generare futuro significa fare come il protagonista del film chiamata a salvare l’umanità. Quella rivoluzione risale agli anni ’60 per rispondere ad un’altra accusa che era stata formulata da Celso che nel II secolo accusa i cristiani di aver abbandonato le leggi patrie. La Chiesa italiana nel XIX secolo con l’intento di recuperare i cattolici persi a causa del modernismo risponde che “l’amore per la patria” è figlia della stessa fonte della religione da cui consegue che un dovere non può essere in competizione con l’altro. All’indomani dei moti del ’48 il papa negò qualsiasi accordo con i partiti anticattolici e non stupisce che in mote famiglie l’educazione cattolica si conciliava con l’avventura coloniale in Libia e in Eritrea. Perfino papa Leone XIII, durante la prima guerra mondiale, invita a deporre la spada senza perdere il senso nazionale. Nel 1923 don Sturzo attaccò i deputati del partito popolare che avevano accettato di sostenere il fascismo (“la nazione non è un ente spirituale ma il complesso storico di un popolo che esperisce le sue energie in una forma ordinata”). Secondo Origene le nazioni sono governate da entità spirituali, gli archonti, capaci di insegnare agli uomini ma inferiori a Gesù per cui il servizio dei cristiani si estende a tutto il mondo mentre il sacrificio di Cristo si configura come liberazione e redenzione che vanno tradotte come qualcunque orizzonte universalista non si può raggiungere con le sole forze umane.

Interviene Diego Quaglioni che discute una relazione sull’impero romano e il popolo ebraico. Quali sono le origini dell’antisemitismo romano e cristiano? Spesso si parla di Simonetti nell’ambito di un clima accademico ricco e variegato sviluppatosi negli anni ’60 e ’70 in cui non si insegnava solo la medievalistica ma anche la storia della Chiesa, l’archeologia cristiana, la morale cattolica, etc. In quegli anni c’erano personaggi quali Giulio Battelli, Raffaele Morghen, Raul Manselli, Agostino Pallavicini, il che faceva presagire ad un apprendistato per i giovani che oggi manca. Questo libro è pieno di pagine vivissime che rispecchiano quell’ambiente di ricerca ma anche di relazioni. Pertanto così come lo studio della teologia viene da una tradizione che si tramanda da maestro ad allievo, tanto il maestro giudaico ha trasmesso qualcosa all’allievo cristiano che riguarda l’amore per la ricerca di Dio. Dei Padri della Chiesa si è detto di tutto ed anche che fossero antisemiti, es. Giovanni Crisostomo è un ottimo omileta ma quando fu posto a capo della Chiesa constantinopolitana iniziò a combinare guai. In “Teologia nella crisi dell’occidente” Simonetti dimostra il ruolo unificatore dell’impero romano anche sul piano dottrinale mentre l’ebraismo viene circondato da una diffidenza già insita nel mondo greco. In “Falsi letterali giudaici e cristiani” si può continuare a vedere come Simonetti scava in questi problemi storiografici e, contraddicendo ad alcune suggestioni, si appiglia fortemente alle fonti tradizionali tra cui Giuseppe Flavio che è stato accusato di plagio ma che dimostra l’attaccamento di uno storico alla verità dei fatti. L’attribuzione delle epigrafi nel mondo cristiano induce Simonetti a riformulare delle ipotesi su possibili intrecci di carattere sincretistico.

Conclude Gian Maria Vian che discute una relazione sul mestiere di teologo. Qualche anno fa poteva capitare di trascorrere un anno di rubrica giornalistica su Avvenire per scrivere ogni settimana due pagine sul mondo antico classico e cristiano e l’ultimo saggio di Simonetti sulla speranza è in realtà una ripubblicazione postuma tratta da un libretto già edito. Oggi un grande teologo può insegnare a scuola che è il luogo privilegiato per trasmettere la cultura del nostro paese. Manlio Simonetti, insieme a Paratore e Marselli, è tra i più grandi studiosi del cristianesimo. Quando gli giunse la proposta di scrivere su Avvenire pensò a come unire il mondo pagano con quello cristiano e pensò di arricchire gli articoli con delle corpose introduzioni in modo da facilitarne la comprensione ad un pubblico più variegato possibile. Una volta ai preti si insegnava la retorica e Simonetti dice che i Padri della Chiesa come Agostino e Crisostomo avevano nel loro uditorio anche molti pagani che erano affascinati dal loro modo di parlare e, insieme ai Padri Cappadoci, sono gli autori prediletti dai bizantini. Oggi non si studiano più le cose che Simonetti ha insegnato sebbene ogni epoca ha i suoi caratteri e i suoi limiti, es. il corso sul vangelo secondo Giovanni spiegato da Rudolf Bultmann in un’epoca in cui non si credeva più ai miracoli.

Nuovo dizionario di servizio sociale

L’iniziativa è organizzata in collaborazione con Sociss erede dell’Aidoss che è stata l’associazione da cui è partita l’idea di scrivere il dizionario. Si tratta di un’opera che costituisce una pietra miliare del riconoscimento della professione di assistente sociale ed al contempo un momento in cui si sistematizza un linguaggio che ha una complessità propria e che si interfaccia con altri contesti e altre discipline di aiuto (la cd. “professione di prossimità”). Il problema del linguaggio rimanda alla necessità di contenere i confini di un dato linguaggio ed un lavoro che ha a che fare con la sedimentazione della cultura professionale e non a caso oggi sono presenti delle personalità che hanno fatto la storia dei servizi sociali. Il dizionario non è solo un testo tecnico ma è una guida per quanti si interessano e vivono l’ambito di ricerca e di studio dei servizi sociali. Il dizionario affronta e porta al cospetto del lettore le diversi letture di certi termini che venivano utilizzati diversamente in contesti diversi, ad es. il contratto sul posto di lavoro o tra assistente e utente. Dove sono i giovani? Sono dentro le stesse parole, nelle voci e nei lemmi che trasudano di una dibattito e non attestano solo delle mere definizioni. Secondo Gianmario Gazzi, presidente dell’Ordine nazionale degli assistenti sociali, ci sono tre parole che più delle altre sono significative. La prima è “casa”: se non ci riconosciamo nelle parole che usiamo è difficile chiamarla “casa”. La seconda parola è “futuro” perché rimanda a delle prospettive, un dibattito e una generazione che ci sta guardando e che un giorno prenderà il nostro posto. La terza parola è “professione” definita solida e ambiziosa capace di intercettare i cambiamenti della società, capace di investire nei giovani e nelle risorse.

Interviene Annamaria Campanini che discute una relazione sul processo di redazione del Dizionario. Qualcuno si può chiedere del perché ci sono state tante edizioni nell’arco di vent’anni. Il primo dizionario del 2005 in realtà ha realizzato un progetto coltivato per lunghi anni da un gruppo di studiosi insieme a Maria Dal Prà Ponnticelli, Elisabetta Bianchi e Milena Diomede Canevini maturata durante gli studi accademici con l’intento di far conoscere gli aspetti più significativi, i concetti, il dibattito sulle prospettive che interessano la professione. L’Aidoss è nata nel 1983 e già da subito ha promosso momenti di confronto e dibattito per la teorizzazione del servizio sociale e come punto di riferimento per l’elaborazione teorica del processo di aiuto, il tirocinio e la pratica professionale. Il servizio sociale iniziato in fabbrica negli anni ’20 e ’30 e sottoposto a revisione dagli americani ha sentito poi il bisogno di spogliarsi di certi aspetti ideologici e colonizzanti. Nonostante i cambiamenti il servizio sociale ha mantenuto l’impegno di contribuire alla proprie peculiarità teoriche e pratiche attraverso degli strumenti tecnici adeguati e il dizionario si inserisce in questo quadro come uno strumento coerente e al passo coi tempi, ad es. alla voce “abbandono” c’è stato bisogno di contattare altri autori (più di un centinaio rispetto a 84 assistenti sociali). Tra questi vi sono degli accademici, degli studenti e 53 esperti di altre discipline (sociologia, pedagogia, diritto, etc.). Non mancano importanti autori stranieri tra cui Lena Dominelli, Antonio Lopez, Walter Lorenz, etc. La logica che guida il Dizionario si mantiene in continuità con le precedenti edizioni ed affiancando voci che fanno parte del bagaglio storico della professione e di uno sguardo al futuro (green social work, digital social work, etc). Ed anche questa edizione ha fatto tesoro dei commenti e dei suggerimenti degli studenti, poi diventati assistenti, e di tutti gli assistenti sociali (ex studenti) che poi sono gli stessi lettori che ci hanno accompagnato in questi anni. Di tutti i lemmi proposti ben 137 sono state riviste con significative integrazioni o con l’aggiornamento dei riferimenti legislativi e bibliografici. 17 sono le voci nuove tra cui agricoltura sociale, integrazione dei migranti, politiche abitative, cure palliative, servizio sociale digitale, welfare generativo. 21 lemmi hanno richiesto l’attribuzione a nuovi esperti perché si rendeva necessario modificare il taglio della voce stessa. La complessità del sistema sociale richiede alla professione un impegno di concettualizzazione e di rielaborazione critica dell’esperienza acquisita. Ci siamo chiesti se fare riferimento al covid e abbiamo deciso di soprassedere per il momento sebbene il lockdown ha creato un discrimine permanente nella società italiana. Abbiamo tuttavia cercato di mantenere l’attenzione sui cambiamenti del welfare e dei servizi sociali e sanitari. Il Dizionario è un passaggio significativo dei fondamenti e dei principi della disciplina e l’interesse suscitato nel mondo europeo e internazionale confermano lo sforzo intrapreso.

Interviene Luigi Gui che discute una relazione sulla comunità di pratica come entità capace di orientare le politiche sociali. L’impegno dell’Aidoss è stato quello di condividere un pensiero e un’azione efficace. Dobbiamo impegnarci a diventare una comunità linguistica che usa le medesime parole per intendersi. Il servizio sociale è poliglotta perché si interfaccia con molti interlocutori e rischia di perdere la padronanza con la propria lingua. Il documenti che oggi presentiamo è uno strumento di costruzione di una comunità linguistica, non un vocabolario che intende classificare tutto lo scibile linguistico ma un dizionario che si sofferma sulle premesse, sulle definizioni e sulle prospettive. È una “casa” senza mura, senza la staticità di qualcosa che separa e stabilizza ma è una continua costruzione di sé in relazione con gli altri. Non è un’operazione autoreferenziale ma per chiarirci con altri interlocutori e altri linguaggi. Il servizio sociale lavora su tante dimensioni che è un elemento di debolezza ed al contempo di virtù. Anche per questo motivo il Dizionario ha tre livelli di lettura: il contatto diretto con l’utenza, le posizioni organizzative e i ruoli dirigenziali. Tutti sono importanti e non meno qualificanti. Il nostro cammino si combina con le contingenza storiche, politiche, ecologiche, pandemiche, etc e quando si parla di “terzi” si costruisce un contesto polifonico di “voci” che cantano insieme. Annamaria Campanini ha orchestrato questa sinfonia che risuona all’infinito e mi auguro che ci possano essere altre edizioni che ne attestino la validità nel tempo e nello spazio.

Interviene Silvana Tonon Giraldo già direttrice della scuola di servizio sociale di Venezia e segretaria dell’Aidoss, che discute una relazione sulla teoria e sulla metodologia del dizionario. Per tentare di cogliere alcune connessioni abbiamo tentato di raggruppare i lemmi di teoria e metodologia in determinate categorie. La prima parte indica le voci relative al servizio sociale per poi via via fare riferimento a specifici servizi. Abbiamo poi considerato quelle voci che più delle altre approfondiscono la voce guida (tridimensionalità, trifocalità e unitarietà). Per il servizio sociale abbiamo individuato alcuni elementi caratterizzanti per giungere alla voce utente-cliente. Ci sono poi delle voci presenti sia nella prima edizione che in quelle successive ma con dei contenuti diversi magari più aderenti all’operato ed alle procedure. Abbiamo poi considerato alcuni ambito che hanno una dimensione più variegata e che non sono propri del servizio sociale (case management, advocacy, etc.). Questa parte comprende il maggior numero di voci e perciò abbiamo inserito delle voci di carattere generale per poi giungere al particolare. Nel metodo abbiamo inserito alcuni strumenti quali l’indagine e l’inchiesta e altri aspetti che riflettono un processo logico. Dalla domanda fino alla conclusione del processo di aiuto e alcune voci (ascolto, cambiamento, competenza, controllo, approccio biografico) abbiamo indicato gli strumenti del processo di aiuto (colloquio, cartella, supervisione) ed infine abbiamo delle voci di orientamento che interrogano la funzione dell’assistente sociale nelle diverse politiche che troviamo nell’individuazione di percorso personalizzati attraverso le prestazioni come la necessità della regolazione sociale ed avere conoscenze ampie sulle prevenzione che danno sostanza e possibilità di muoversi nel suo contesto di lavoro. Abbiamo un numero rilevante di professionisti che operano in prima linea e le voci considerano questa ricchezza di fonti di prima mano. Al di là di tutto, le voci hanno dei rimandi che approfondiscono la lettura della persona: da un lato si cerca di vedere i nessi tra le voci e d’altro canto si cerca di cogliere delle intuizioni che possono migliorare il lavoro. I rimandi in calce al testo hanno questa funzione di non soffermarsi alla voce in sé ma di riflessione continua, di imparare ad imparare che attengono sia al chiarimento personale sia al dibattito più generale. Nell’area teorica e metodologica ci sono dei rimandi espliciti, ad es. nel green social work c’è la sostenibilità ambientale dove da un lato si sottolinea di come di fronte a determinati disastri ci sia un elemento casuale e da un lato che c’è una responsabilità umana ben precisa che ha mutato profondamente il proprio ambiente e che richiede una risposta precisa da parte dei servizi.

Interviene Raffaello Maggian, esperto di politiche dell’abitare, che discute una relazione sulla politica sociale del sistema dei servizi sociali. Partiamo da un concetto, la trifocalità del servizio sociale che si compone di 3 elementi: la persona, la sua storia di vita, la famiglia; la comunità, l’ambiente di vita, il gruppo di pari; l’organizzazione sociale, lo Stato, il lavoro. Ho poi cercato di trovare 6 parole chiave: welfare, territorio, programmazione, organizzazione, gestione e i servizi sociali. Ho cercato di vedere come i vari autori si collocano nel Dizionario, ad es. il welfare è cambiato da un sistema unico e universale (Beveridge) ad una varietà di sistemi tra loro correlati tra cui il welfare generativo che valorizza le competenze di ogni persona evitando che sia una figura passiva delle politiche dello Stato. Vediamo allora quali sono state le norme emanate negli ultimi anni: nel 2017 l’aggiornamento dei LEA nel campo sanitario, la L. 147 sul contrasto alla povertà, il codice del terzo settore, legge di bilancio 2020 che prevede un assistente sociale ogni 5 mila abitanti, il piano di interventi sociali del 2021 dove si parla delle politiche abitative che entra a pieno regime nel processo di aiuto. La voce “Fondi sociali” mette in evidenza l’importanza delle risorse finanziarie ed il fatto che lo Stato ha bisogno di un capitolo di entrare che riguarda l’ambito nazionale e internazionale. Le altre voci sul territorio considerano la “governance” come la possibilità di uscire dall’unico attore decisionale ma di più enti che collaborano tra loro. La programmazione è il risultato di ciò che accade sul territorio mentre l’organizzazione riguarda l’integrazione sociosanitaria che fu uno slogan di venti anni fa e che oggi sta dando frutti insperati, ad es. gli ospedali di comunità.

Segue dibattito:

Quali sono stati gli ostacoli per realizzare il Dizionario?

La difficoltà principale è stato il cercare un consenso unanime sulle voci poiché ciascuno aveva delle proprie rappresentazioni mentali su un dato problema e risultava difficile mettere tutti d’accordo. Ciò che ha aiutato molto è stato il lavoro di gruppo e l’idea che non facevamo qualcosa per noi stessi il che poteva avvenire solo quando ci si rende conto di potersi mettere in discussione.

Come si pone il Dizionario di fronte al mondo della conoscenza virtuale che oggi è vittima delle fake news (wikipedia, google, etc.)?

L’avvocato tiene il codice sul tavolo, e ciò ci induce a pensare che una copia del Dizionario dovrebbe esserci di diritto in tutte le biblioteche specializzate ed in tutti i servizi sociali. La giornata di oggi ci rivela che lavorare con mappe di pensiero diverse significa aiutare gli altri a lavorare meglio su sé stessi. L’errore è umano e, sbagliando, si impara a fare discernimento.

L’esame di Stato come è stato affrontato nel Dizionario?

Stiamo parlando di una base definitoria mentre lo studio va affrontato su testi specifici e come docenti dobbiamo stare attenti sul fatto che il Dizionario non è autosufficiente e non è neppure un “riassunto” di testi. È una base che può rimandare ad altri testi ma da solo è assolutamente inadeguato per superare l’esame di Stato. In alcuni contesti il Dizionario è utilizzato nell’ambito dei gruppi di lavoro (supervisione, peer review) che però poi devono argomentare ciò che leggono.

Don Giussani e la ragionevolezza della fede

La conferenza, svoltasi presso “Le gallerie” (Fondazione Museo Storico del Trentino) in piazza Piedicastello a Trento, si inquadra nell’ambito delle celebrazioni per l’anniversario della nascita di don Luigi Giussani (1922-2005) che non è stato solo il fondatore di un movimento diffuso in tutto il mondo ma un padre ed una presenza che continua ad agire. Di lui Joseph Ratzinger (papa Benedetto XVI) disse: “ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che è un incontro, una storia d’amore, un avvenimento”. L’avvenimento di don Giussani è connesso con l’incontro umano nella reale banalità di tutti i giorni, prima ai discepoli e poi a tutti noi e riconosce alla fede cristiana un metodo che risponde ai bisogni dell’uomo. Modera Luca Tenti.

Viene riprodotto un filmato in cui don Giussani spiega il capitolo 21 del Vangelo secondo Giovanni (“Il si di Pietro”):

«Col suo intuito dice: “è il signore!” e Pietro si butta, vestito così com’era, nel lago e a bracciate lunghe arriva al Signore che aveva preparato dei pesci arrostiti per sfamare coloro che venivano dalla pesca. “Cosa avete pescato?” – grida la voce da lontano – “Niente!” e Lui rispose: “Gettate le reti dall’altra parte!” (circa 10 metri). Le gettano e le reti quasi si spaccano dal peso del pesce. “È il Signore!” Quand’ebbero mangiato Gesù disse: “Simone di Giovanni mi vuoi bene più di costoro?” Gli rispose: “Certo Signore lo sai che ti voglio bene!” Proviamo ad immedesimarci nell’animo di quell’uomo schietto e rude che aveva davanti a sé l’anima tutta piena il ricordo del suo tradimento, il manifestarsi di un momento di qualcosa che aveva dentro, di una ruvidità, di una ingenerosità, di una caparbietà, di una paura, di una timidezza, di una vigliaccheria, di una meschinità che era lui, aveva l’animo pieno di queste cose e davanti a quella domanda tutto veniva dato e il tradimento era come una punta rivelatrice, veniva a galla la sua miseria. La Chiesa ci verrebbe a dire: “riconosciamo di essere peccatori” e quanti di noi lo ripetono. Simone si è sentito in tutta la sua pochezza, la sua pusillanimità, meschinità di uomo, “Simone mi ami tu più di quanto mi amano gli altri?” Quando ha detto: “Signore certo che ti amo”. Quando ha detto: “Signore tu sai tutto”. Nonostante tutte le apparenze dice “tu sai che ti voglio bene” che vuol dire “ti voglio”, “ti affermo”, “riconosco ciò che sei per me, per tutto”, insomma è questo lo sconvolgimento del moralismo e della giustizia fatta con le nostre mani, perché quello lì era un povero peccatore come me, come te, che aveva appena tradito in modo indecente, come a memoria nostra non c’è mai stato, era pieno di errori eppure gli voleva bene».

Interviene Salvatore Abbruzzese, professore ordinario di sociologia presso l’Università di Trento, che discute una relazione su “Don Giussani e la cultura del suo tempo”. Alla fine degli anni ’80 nel corso di una ricerca per motivi accademici, la domanda più frequente era “com’è stato possibile che questo movimento si è affermato?” Secondo la teoria della secolarizzazione la religione sta scomparendo anche se c’è un’affezione crescente ed un tentativo di recupero. “Prima di incontrare il movimento ho parlato con quelli che ne erano usciti e pian piano non sono più riuscito a controllare il senso religioso che mi pervadeva”. Si tratta di un’esperienza che è cresciuta con gli incontri e oggi si può dire che don Giussani aveva ragione ma non per un dato di fatto ma “perché l’ho sperimentato nella mia vita” ed anche gli errori e le sconfitte della vita di ciascuno possono contribuire ad una migliore consapevolezza di sé stessi e di Gesù Cristo. Non è solo il prodotto degli anni ’50, ma è il prodotto di un contesto in cui don Giussani andava controcorrente. Se fosse stato il contesto, lo si poteva ricondurre al pontificato di Pio XII o alla Chiesa post-pacelliana ma non è così. Oggi possiamo affermare che don Giussani rivela un settore della società che non si poteva cogliere altrimenti: fa emergere la Chiesa viva, la porta alla luce del sole. C’è un lavoro di maieutica anche grazie a ciò che ha fatto al liceo Berchet in un momento storico di boom economico dove viene contestato sui principi di laicità immediata, sulla ragione fine a sé stessa. C’è un aneddoto che si racconta spesso: quando don Giussani stava svolgendo un compito scritto di religione, nella terza classe del liceo classico che all’epoca coincideva con la maturità odierna, ed ad un certo punto prende un libro (“Disegno storico della letteratura italiana” di Natalino Sapegno) che parla della vita di Leopardi e dice: “leggete queste cose e le accettate senza colpo ferire, come bere un bicchier d’acqua?” per dire che in confronto al massimo esponente della poesia italiana, Omero e Shakespeare sarebbero degli “adolescenti”. Non è una questione di destra o di sinistra ma del fatto che all’epoca c’era una cultura di fede che raccontava la verità ed una cultura di morte che rasentava il nichilismo. Harold Bloom (1930-2019) in “The closing of American Mind” (trad. it. La chiusura della mente americana. I misfatti dell’istruzione contemporanea) dice che tutto è relativo. Ecco alcune pagine di Jacques Prevert (1900-1977): “ricordati Barbara pioveva senza sosta su Brest … grondante felicità sotto questa pioggia di ferro, di sangue … è una pioggia di lutto. Gli amanti di Brest si dissolvono nella più completa indifferenza”. Prevert era anche un sceneggiatore e l’autore del testo della colonna sonora “Les feuilles mortes” (“Le foglie morte”) del film “Les Portes de la nuit” (“Mentre Parigi dorme”, 1946). Edith Piaf nell’ “Hymne a l’amour” (“Inno all’amore”, 1961) canta: “Se tu morissi trovandoti lontano da me, poco importa se tu m’ami perché anch’io morirei!”. La cultura laica dell’epoca è disincantata ma vede nella dimensione dell’amore qualcosa che può spostare le montagne. Elio Pagliarani (1927-2012) in “La ragazza Carla” (1962) esprime il disincanto di qualcosa di smarrimento. Nel 1962 Bob Dylan si chiede quanti anni debbano passare prima che gli uomini siano liberi (“Blowing in the wind”). In Italia prima Fabrizio De Andrè e poi Francesco Guccini nel 1972 cantavano “frasi vuote nella testa” (“Incontro”, 1972). Don Giussani, citando Sapegno, si rende conto di quanto l’universo studentesco proponeva una prospettiva limitata di crescita in un contesto disincantato e disilluso.

Viene riprodotto un breve filmato con le testimonianze di alcuni membri di CL.

Interviene Lauro Tisi arcivescovo di Trento che discute una relazione sulla teologia di CL. Oggi portiamo a casa delle testimonianze su don Giussani che è riuscito a generare un popolo di uomini e donne che hanno scelto un percorso di vita che riconosce Gesù Cristo come colui che va a colmare il desiderio di umanità presente in ciascuno di noi. Torniamo all’inizio dell’incontro dove don Giussani commenta l’incontro tra Gesù e Pietro sul lago di Tiberiade e più precisamente quando dice “ti voglio bene” (Gv 21,15-17) che esprime chi è l’uomo perché di per sé verrebbe da pensare “come puoi dire una cosa del genere quando la tua vita nei fatti è stata un tradimento?” Forse uno dei più grandi tradimenti che la storia abbia conosciuto (in riferimento al rinnegamento di Pietro). Nel cuore dell’uomo c’è un desiderio di eternità che non viene da lui stesso ma dal “dna” di uomo immesso da Dio ed ciò che san Paolo descrive con il grido “abbà Padre”. C’è un irriducibilità nell’amare che è più grande del tradimento e che coincide con la vocazione e la chiamata all’eterno. Questi principi si possono condensare in tre parole: il senso di appartenenza, l’onnipotenza e l’anelito all’incontro che in Cristo trova pienezza. C’è qualcosa che non appartiene a noi e che ci ritroviamo dentro e che fa in modo che il tradimento di Pietro non è riuscito a fermare il suo desiderio di amare il suo maestro. C’è nell’uomo un anelito ad uscire da sé stesso anche in presenza di percorsi di vita difficili e la possibilità di abbracciare l’altro non perché lo dice una regola o una prassi ma perché non possiamo farne a meno. Tutti gli uomini vengono al mondo con questa struttura di “esistenza in uscita”, come direbbe papa Francesco, ovvero di incontro all’abbraccio, un’operazione maieutica che porta al volto di Dio perché va a prendere un anelito e un desiderio che esiste da sempre. Don Giussani nella sua esperienza di fede ci parla dell’incarnazione e del concetto di onnipotenza che è “fare spazio, ritrarsi” mentre chi occupa spazio è un violento. L’onnipotenza del mondo è violenza allo stato puro mentre l’onnipotenza giussaniana è il modo con cui si riceve la “chiamata” per scoprire che bisogna fare spazio all’altro per incontrarlo e abbracciarlo. Anche per Chiara Lubich la Chiesa diventa una modalità con cui Cristo si esprime nell’eterno per cui la bellezza del compimento è l’approdo a quel “fare spazio” che si traduce nell’abbracciare il gratuito, l’amore disinteressato che è il desiderio dell’umano in esplosione e che porta alla caritativa, all’accoglienza e a tutta quella serie di operazioni che fanno grande il movimento di CL. In questa intuizione primordiale c’è un desiderio che non viene mai meno e una risposta a quella domanda che il Cristo fa a Pietro, il traditore per eccellenza, che è inviato nel mondo per annunciare il Vangelo. Pietro può rivelare che esiste il gratuito, non raccontando storie di filosofia o pura dottrina fine a sé stessa, ma attraverso le esperienze della propria vita. Devono ancora cambiare le modalità con cui si pensa alla Chiesa che non deve avere le “stellette” della perfezione ma deve esibire la testimonianza della carità e del dono gratuito. Tutte le realtà umane fanno i conti con Pietro e non abbiamo bisogno di grandi riforme organizzative ma di trovare uomini che portino avanti questa volontà di “fare spazio”.


Salmo 74/73 Supplica di un levita per l’alleanza

Il salmo si apre sulle rovine di Gerusalemme dove un levita si lamenta per una sciagura. J.Morgenstern suggerisce la distruzione ad opera degli idumei (485 a.C.). Altre ipotesi riguardano l’incursione dei babilonesi (586 a.C.), di Antioco IV Epifane (167 a.C.) e dei romani (70 d.C.). I paralleli sulle lamentazioni tuttavia confermano l’ipotesi babilonese. Il salmo si può dividere in 3 parti: un’introduzione tematica, un blocco definito dall’anafora “tu” e l’inclusione del ricordo dominato da sette imperativi.

1 Maskil. Di Asaf.
O Dio, perché ci respingi per sempre,
fumante di collera
contro il gregge del tuo pascolo?
2 Ricordati della comunità
che ti sei acquistata nei tempi antichi.
Hai riscattato la tribù che è tua proprietà,
il monte Sion, dove hai preso dimora.
3 Volgi i tuoi passi a queste rovine eterne:
il nemico ha devastato tutto nel santuario.
4 Ruggirono i tuoi avversari nella tua assemblea, issarono le loro bandiere come insegna.

La prima immagine è di stupore: l’immagine che Dio sta manifestando in questo momento è contraddittoria con quella di sempre, quella conosciuta dalla tradizione. Com’è possibile che Dio distrugga ciò che lui stesso ha creato? L’orante si offre di fare memoria e di condurlo sul luogo delle macerie fino al punto di assumere il punto di vista dei nemici (v. 4).

5 Come gente che s’apre un varco verso l’alto con la scure nel folto della selva,
6 con l’ascia e con le mazze frantumavano le sue porte.
7 Hanno dato alle fiamme il tuo santuario,
hanno profanato e demolito la dimora del tuo nome;
8 pensavano: «Distruggiamoli tutti».
Hanno incendiato nel paese tutte le dimore di Dio.
9 Non vediamo più le nostre bandiere, non ci sono più profeti e tra noi nessuno sa fino a quando.

La selva (v. 5) potrebbe anche significare un’intelaiatura artificiale di legnami come il soffitto a cassettoni nel tempio o un pannello decorativo. Ne risulta una efficace descrizione della brutalità con cui i nemici distruggono la bellezza e la ricchezza che si conclude con un incendio. Dovremmo leggere questi versi tenendo presente sullo sfondo il lavoro a regola d’arte compiuto dalle maestranze fenice (1Re 7). Fin qui ciò che ha spiegato la guida che accenna ad un bilancio della situazione: niente più forza militare (bandiere) disposta a difendere la patria né più profeti anche se sappiamo per certo che Ezechiele recuperò la parola non appena seppe dell’incendio nel tempio.

10 Fino a quando, o Dio, ci insulterà l’avversario?
Il nemico disprezzerà per sempre il tuo nome?
11 Perché ritiri la tua mano e trattieni in seno la tua destra?
12 Eppure Dio è nostro re dai tempi antichi, ha operato la salvezza nella nostra terra.
13 Tu con potenza hai diviso il mare,
hai spezzato la testa dei draghi sulle acque.
14 Tu hai frantumato le teste di Leviatàn,
1o hai dato in pasto a un branco di belve.

Inizia una nuova ondata di risentimento ma Dio continua a trattenersi. Il titolo attribuito a Dio rivela un paradosso: sia che leggiamo “mio” sia “nostro” il possessivo sembra limitare il titolo reale. Dunque prima non era re? Il mare ribelle (v. 14) con i suoi mostri mitologici rimanda ad una versione demitizzata della creazione. Nei commentari medievali Leviatan è connesso all’Anticristo. Per un breve frangente le risonanze e le reminiscenze dell’Esodo distolgono il lettore dalla solennità dell’inno e dalla sua visione grandiosa facendolo subito ritornare nella situazione tragica in cui sono ambientati i fatti.

15 Tu hai fatto scaturire fonti e torrenti, tu hai inaridito fiumi perenni.
16 Tuo è il giorno e tua è la notte, tu hai fissato la luna e il sole;
17 tu hai stabilito i confini della terra, l’estate e l’inverno tu li hai plasmati.
18 Ricòrdati di questo:
i1 nemico ha insultato il Signore,
un popolo stolto ha disprezzato il tuo nome.
19 Non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortora, non dimenticare per sempre la vita dei tuoi poveri.
20 Volgi lo sguardo alla tua alleanza;
gli angoli della terra sono covi di violenza.

Fonti e torrenti sgorgano dall’oceano sotterraneo di acqua dolce sopra il quale è posta la terraferma. Farli scaturire può essere un’azione creatrice. I fiumi perenni si oppongono a quelli stagionali (v. 15). Si tratta di riminiscenze dell’Esodo: acqua corrente dalla roccia e distese del Mar Rosso e del Giordano. Il popolo ha assistito ad un’invasione che ha imposto un altro re al posto del Signore dopo averne distrutto il palazzo. La tortora (v. 19) è un’espressione di affetto in contrasto coi rapaci. La supplica suppone che l’alleanza (v. 20) continui ad esistere né abrogata né sostituita (Ger 31,31).

21 L’oppresso non ritorni confuso,
il povero e il misero lodino il tuo nome.
22 Àlzati, o Dio, difendi la mia causa, ricorda che lo stolto ti insulta tutto il giorno.
23 Non dimenticare il clamore dei tuoi nemici;
il tumulto dei tuoi avversari cresce senza fine.

Il salmo termina con questo fragore crescente ed ostile; un frastuono che sembra coprire le grida supplicanti che il Signore non può ascoltare.

Bibliografia

Alonso Schokel L., Carniti C., I salmi, vol. II, Roma, 1992.
Ravasi G., Il libro dei salmi. Commento e attualizzazione, vol. II, Bologna, 1981.

Cooperazione sociale (1966-1978)

Cooperazione sociale: rassegna di problemi di assistenza sociale, a cura della Scuola superiore di studi sociali presso l’Università degli studi di Urbino. Direttore responsabile: Aldo Testa.

Comitato di redazione: Osvaldo Cappellino, Michele Alfinito, Armando Benfenati, Gianfranco Carnevali, Alvaro Carotti, Mario Ceccarini, Antonino Curri, Giuseppe d’Alò, Corrado Dionigi, Mario Rigi Luperti.

La cadenza è alquanto discontinua: nel 1966 è quadrimestrale, nel 1967 è semestrale, ma a partire dal 1968 esce ogni due anni per poi tornare annuale nel 1976. Appartiene al ramo più piccolo della grande famiglia delle “scuole-riviste” (Rassegna di servizio sociale, Centro sociale, Assistenza oggi) e che ebbe vita breve rispetto alle sorelle maggiori. La struttura redazionale comprende un nutrito numero di saggi seguiti da alcuni documenti su seminari o convegni rilevanti ed, in coda, la rassegna delle tesi discusse alla fine di ogni anno accademico.

I saggi si caratterizzano per la multi-disciplinarietà dei contenuti rispecchiando, probabilmente il programma di materie di studio impartite durante i corsi didattici, alcuni di valore fondamentale, altri un po’ meno importanti: economia (Busuttil S., Effetti socio-economici dell’industrializzazione nei paesi mediterranei, 1967, pp. 2-11), previdenza sociale (Matteucci M., Prescrizione dei contributi assicurativi e pensionamento dei lavoratori, termini inconciliabili, 1966, 5-6, pp. 43-49), scuola (Benfenati A., Il servizio sociale scolastico in funzione del conseguimento delle mete educative della scuola primaria, 1966, 5-6, pp. 2-8), pedagogia (Gianni E.M., Pedagogia e dialogia, 1970, 13-14, pp. 38-58), diritto (Interpretazione ed applicazione della legge sull’adozione speciale, 1967, 9-10, pp. 110-113), medicina sociale (Bottiglione R., Rischio silicotigeno e prevenzione tecnica della silicosi, 1967, 7-8, pp. 62-65), igiene mentale (Foschi F., Quale riforma psichiatrica?, 1968, pp. 221-231), sociologia (Benfenati A., La società dei consumi come società emarginante, 1974, 17-18, pp. 11-24), religione (Mauri R., Tradizionalismo e modernismo nell’assistenza della prima infanzia in Marocco, 1968, pp. 213-218), storia moderna (Alfinito M., Il diritto alla ricerca della felicità, 1968, pp. 202-206), metodologia (Pascocci M., La tecnica dell’intervista nel case work dell’assistenza sociale, 1978, 23-24, pp. 82-90), organizzazione (Montanari A., Sicard O., Il coordinamento del servizio sociale nel dipartimento della Senna, pp. 109-118), criminologia (Faroni D., Studio dei rapporti fra psicosi e criminalità, 1968, pp. 115-124), infortunistica (Benfenati A., Le teorie sul comportamento con particolare riferimento all’educazione del fanciullo alla sicurezza e alla prevenzione degli infortuni, 1966, 5-6, pp. 50-58), fisica (Evangelista E., Alcuni aspetti di contaminazione dell’ambiente biologico da radiazioni ionizzanti, pp. 77-81), teorie del linguaggio (Gianni E.M., Due ipotesi di comunicazioni, 1976, pp. 74-91), educazione fisica (Pacini G., La scuola di Macolin, 1967, 7-8, pp. 106-108; a fine dello stesso numero vi è un messaggio pubblicitario del libro “Abolire l’educazione fisica”).

Non sorprende, quindi, la presenza di ricerche sociali condotte tramite l’utilizzo di metodologie quantitative avanzate, sintomo di una preparazione didattica rigorosa (Ferrari C., Cappellini E., L’assistenza sociale alle persone anziane nella provincia di Pesaro e Urbino, 1967, 9-10, pp. 12-86; Gennamo M., Minguzzi G., Inchiesta psico-medico-sociale su una popolazione femminile di fabbrica, 1967, 7-8, pp. 66-82). Si tratta, comunque, di un’eccezionale apertura al pluralismo disciplinare che non trova riscontro nelle altre riviste.

Come già detto, il pluralismo non si limita alle discipline di studio ma anche alle culture di altri paesi, come ad es. sull’educazione familiare marocchina che è sintetizzata in due parole: smancerie e maledizioni, poiché il bambino è lasciato libero al suo istinto e gli si consente tutto ciò che desidera, però, per ottenere obbedienza si spaventano i fanciulli chiamando la “mamma farina” o il “f-gol” cioè l’orco e che le donne non danno schiaffi ma feroci pizzicotti che lasciano segni evidentissimi di vera crudeltà sulle braccia (Mauri R., Tradizionalismo e modernismo nell’assistenza della prima infanzia in Marocco, 1968, pp. 213-218, p. 216).

In base ad un’indagine condotta nella Provincia di Ancona si può affermare che il personale degli enti assistenziali non sa bene cosa è la professione dell’assistente sociale né conosce il suo lavoro né il suo compito operativo. Tale disinteresse si deve attribuire a tre ordini di motivi: prima di tutto l’assistente sociale stesso che, per ragioni di opportunità, pigrizia e per evitare pubblicità all’ente di appartenenza, opera una acerba difesa della propria sfera professionale; altra colpa è da imputare all’opinione pubblica che crea nel paese forme assistenziali senza intrattenersi in analisi approfondite del personaggio assistente sociale. Infine, qualsiasi tentativo di portare a conoscenza del pubblico la professione dovrebbe essere incoraggiato dalle scuole di servizio sociale, dai giornalisti e da scrittori e studiosi (Procacci A., L’assistente sociale personaggio quasi sconosciuto, 1968, pp. 219-220).

La direzione della rivista rispecchia il clima ideologico che si respirava in quegli anni. Si legge, ad es., della proposta di cambiare il nome degli utenti da “assistiti” in “conferenti”. Sotto questo aspetto pertanto l’assistente sociale si presenta più che come “assistente” come “cooperatore”, secondo la concezione svizzera che considera gli assistenti sociali come “esperti di vita”, ed è anche un “confidente”. Tanto che, richiamandosi alla debita differenza tra assistenza sociale e servizio sociale, occorre ricordare che questo ultimo, agendo nel campo di un organizzazione fondata su una legislazione compiuta in senso sociale, è inteso a rendere inutile l’assistenza vera e propria, alla quale resta dunque il compito dell’intervento educativo e morale (Testa A., Servizio sociale e cooperazione sociale, 1968, pp. 2-8).

C’è un interessante tabella con i risultati sull’applicazione dell’adozione speciale, in particolare emerge il dato di Milano con il maggior numero di minori in stato di abbandono e Torino con il miglior rapporto di adottati/popolazione (Santanera F., L’adozione e l’affidamento educativo, 1974, pp. 125-154).

Ci sono delle note interessanti sulla storia delle scuole italiane di medicina, in particolare quella crotonese e salernitana (Galileo Faroni D., Martucci N., Miniscetti G., Ciabatti P., Neuro-motu-lesi: scindiamoli e parliamone un po’, 1976, pp. 2-50).

C’è un excursus storico sull’igiene mentale (Galileo Faroni D., Pultrone G., Lineamenti di antropologia differenziale, 1976, pp. 137-174).

Sta scritto che l’endocrinologia è la chiave di volta per risolvere il complesso problema dei processi evolutivi legati alla crescita e al raggiungimento delle forme e delle varie proporzioni che l’adulto raggiunge e che sono alla base dei differenziamenti umani. Così i mongoloidi sarebbero degli ipo-tiroidei, i neandertaliani e gli australiani degli iper-pituitarici, i negri e i melanesiani degli ipo-surrenalici. Venendo ai fatti che hanno dato consistenza all’ipotesi dell’azione morfogenetica degli ormoni nel differenziamento razziale, si possono ricordare certe alterazioni della tiroide capaci di fare acquistare talune caratteristiche dei mongoloidi: la tubercolosi delle capsule surrenali, l’ipertrofia dell’ipofisi da cui può generarsi una particolare forma di gigantismo o, dopo l’età puberale, uno sviluppo esagerato della mandibola (Galileo Faroni D., Razzismo politico-sociale e biologico, 1976, pp. 122-128).

C’è un interessante comparazione tra il sistema socialista e quello dei paesi occidentali. In particolare sta scritto che il collettivo di Marenko rifiuta il valore dell’amicizia, dell’amore, in armonia con la concezione collettivistica della stessa famiglia, la quale è considerata come la scuola in funzione della formazione del comunista per il trionfo del comunismo. La persona vale solo in questo senso, non per la sua autonomia che deve essere bandita (…) la tortura psichica dell’interrogazione, la consapevolezza di essere spiato, letteralmente perquisito nell’anima e nel cervello, nei pensieri, nei sentimenti e nel comportamento, anche se riesce a modificare gli atteggiamenti dello scolaro nei confronti della scuola, non ci sembra che possano essere assunti quali elementi pedagogici positivi (Gianni E.M., Il sociologico pedagogico russo, 1977, pp. 145-171).

Verso la fine degli anni ’70 vi sono una serie di articoli di supporto sulla ricerca sociale applicata al servizio sociale (Pascocci M., Alcune considerazioni preliminari sulla metodologia statistica, 1977, 21-22, pp. 118-122; Pascocci M., La tecnica dell’intervista nel case work dell’assistenza sociale, 1978, 23-24, pp. 82-90).

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Salmo 27 Una cosa ho chiesto

Secondo Origene si tratta di una preghiera comunitaria (exomologesis) che non si sofferma solo alle richieste per sé ma si estende a tutta la comunità dei credenti. Ad una prima interpretazione che vedeva il salmo spezzato in due tronconi (vv. 1-6 e 7-14) si è passati in anni recenti ad una lettura unitaria basata sul tempio (comunità) che riecheggia in più punti (vv. 4, 5, 6, 9) e che rappresenta – agli occhi del pio ebreo – la tenda dell’esodo. Hans Kraus immagina il poeta prima in una orazione personale e poi unito nella preghiera comunitaria; forse una persona afflitta e desiderosa di rientrare nella comunità. Il salmo è quasi interamente costruito sul metro 3+2 accenti, uno dei modelli più usati nella poesia ebraica, soprattutto per le elegie e le suppliche. Il parallelismo tra le due sezioni viene ulteriormente esaltato da alcuni elementi: la metafora del “cibo” (v. 2) usata per descrivere il calunniatore (v. 12) che sbrana la vittima come una belva; l’idea del rifugio (v. 5) è ripresa nell’aiuto (v. 9) è indicativa del luogo sacro in cui avviene il culto o dell’accoglienza (‘asaf) riservata ai fedeli; l’apertura del salmo con la celebre invocazione a dio “luce e salvezza” (v. 1) ha una sua ripresa nel finale dove il “vedere” il volto di Dio ha un triplice senso (liturgico, profetico e regale). Significativa è anche l’accezione conferita al termine “casa” intesa sia come domicilio del padre di famiglia (bajit), sia come aula sacra (hekal) sia come tabernacolo (suk), la capanna in cui Dio soggiornava tra i suoi figli del popolo ramingo. Il salmo si può suddividere in 4 parti con una sezione finale che potrebbe essere stata aggiunta postuma: la dossologia iniziale, il ringraziamento per i benefici ottenuti, la confessione dei peccati e la domanda dell’orante. Il brano rientra nella serie dei salmi di fiducia ed è databile intorno al VII secolo a.C. forse durante l’assedio di Gerusalemme al tempo di Ezechia allorchè il tempio fu utilizzato dalla popolazione come ultimo baluardo prima della capitolazione.

Re Mi-7
Una cosa ho chiesto al Signore,
Re Mi-7
questa sola io cerco:
Re Mi-7 Re Mi-7
abitare nella casa del Signore

Il salmo si apre con una supplica in cui il poeta anela di dimorare alla presenza di Jahvè sia come presenza spirituale sia come presenza nella storia del popolo eletto. Secondo Paul Beauchamp: “si può contemporaneamente supplicare e lodare perché queste due forme tendono a riunirsi nella loro unica verità. Così i salmisti sembrano talora pensare che la più bella forma di supplicare sia quella di accreditare a Dio un inno: “il deposito d’una lode è preferibile al deposito d’uno lamento, come può succedere che il popolo canti un inno prima della battaglia e non dopo averla vinta”. Secondo Origene la supplica rimanda al gesto tipico delle mani sollevate verso il tempio santo di Dio. L’invocazione a Jahvè ritorna poi nel finale dove si esprime la certezza della bontà di Dio.

Re Si-
tutti i giorni della mia vita,
Sol Mi- La La7
per gustar la bellezza del Signore
Si- La La7
e ammirare il suo tempio.

L’orante è così sicuro della salvezza che non chiede la distruzione dei nemici: gli basta stare nel tempio e vivere della presenza del Signore. In qualità di “santo” e quindi di “amico di Dio”, però, rimane separato dal resto della comunità che è chiamata a “nutrirlo” per sostenere il suo combattimento spirituale. Il senso della supplica non è da vedere come un sottrarsi alle proprie responsabilità verso la comunità bensì come la richiesta di essere adeguatamente preparati a fare del bene verso gli altri, quantunque peccatori, senza essere travolti da loro. Il giusto perciò si astiene dal frequentare gli empi ma intercedendo con la preghiera affinchè si convertano. Le immagini della capanna e della tenda richiamano il cammino del deserto illuminato da Dio. La roccia su cui è costruito il tempio di Gerusalemme è l’immagine dell’assoluta sicurezza che vi si può sperimentare.

Re
Tu mi hai detto:
Si-
«Cerca il mio volto!».
Sol Mi- La La7
di te dice il mio cuor
Si- La La7
Il tuo volto, Signore, io cerco.

Il poeta teme che Dio non ascolti la sua preghiera ma poi si convince che, pregando con costanza e fervore, potrà ottenere il suo ascolto. Secondo Origene le parole di Dio “cerca il mio volto!” risuonano indirettamente nell’intimo del credente. Questo grido, che viene dalla coscienza, diventa una prova di santità: le profondità da cui sale il grido di preghiera sono quelle dello Spirito santo che abita nel cuore dell’orante. Se il grido di preghiera istituisce il colloquio con Dio, ora vengono presentate le condizioni e le modalità di ascolto. Nella maggior parte di opere d’arte ebraiche non risulta il volto di Jahvè nei suoi lineamenti umani ma trasfigurato perché nella teologia ebraica il volto di Dio è inconoscibile. Com’è possibile allora tracciare la fisionomia divina? Un primo indizio è la luce, principio di vita e di sapienza. Un secondo indizio è il tempio, luogo deputato alla presenza del Signore. Un terzo indizio è il culto attraverso cui avviene l’ascolto della parola. Il “cercare il volto di Dio” perciò diventa la chiave interpretativa per accedere al tempio, non fatto da mani d’uomo, ma dall’intimo del credente. Ecco perché l’orante risponde: “di te dice il mio cuor” perché l’incontro con Dio si riflette nella possibilità non solo di ascoltare ma di custodire la Sua parola per condividerla a sua volta con il resto della comunità. Si tratta di coltivare la verità non solo a parole ma anche con il cuore.

Re Si-
Ho abbandonato tutto di me
Sol Mi- La La7
Te solo io cerco o Signor
Si- La La7
Mostrami i tuoi sentier

Letteralmente il testo dice “mio padre e mia madre mi hanno abbandonato” il che riflette non solo un malcostume diffuso all’epoca ma anche l’idea di filiazione divina che supera i legami di sangue che si instaurano tra membri di una stessa famiglia. In termini più prosaici Dio è sia padre che madre. L’orante conclude la prima parte della preghiera con un’invocazione già usata da Mosè (Es 33,13) che è molto frequente nel salterio. La via di Dio è infatti il cammino di giustizia che ogni retto credente dovrebbe intraprendere. L’intervento divino avrà lo scopo di mettere a tacere i nemici e riabilitare l’orante.

Re Si-
Spero nel Signor
Sol Mi- La La7
ed Egli mi dà la forza
Si- La La7
perché conosco la sua bontà.

Sulle conclusioni emergono due ipotesi: secondo l’ipotesi originale sarebbe un auto-appello interiore che il poeta indirizza in seconda persona alla sua coscienza; secondo l’ipotesi cultica il verso sarebbe il frammento di una formula finale di incoraggiamento indirizzata dal sacerdote al fedele. A prescindere da chi li pronunzia, gli imperativi suonano come parola ispirata, di incoraggiamento e affrancamento dalle fatiche. Il salmo si presta per coloro che si trovano a vivere esperienze di forte sofferenza e di prova, volgendosi a Dio per invocare il suo aiuto.

Bibliografia

Alonso Schokel L., Carniti C., I Salmi, vol. I, Roma 1992.
Dio della mia lode, canti del Rinnovamento nello spirito, Edizioni Rinnovamento dello spirito santo, Roma, 2014.
Perrone L., L’interpretazione origeniana del salmo 27 e il linguaggio della preghiera, “Adamantium”, 2014, pp. 84-111.
Ravasi G., Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, vol. I, Bologna 1981.

Testo e musica di Ted Kennedy (trad. ita. Rns)

Bibliografia di servizio sociale 1925-1965

Queste che seguono sono una serie di annotazioni, commenti e citazioni di testi rilevati nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione nel 2012 del libro “Bibliografia di servizio sociale 1925-1945”. L’idea di approfondire tale argomento mi giunse qualche anno fa, durante gli studi di specializzazione per assistente sociale, in quanto si tratta di un periodo storico non molto conosciuto dalle giovani generazioni e un po’ trascurato dalla letteratura di categoria. Resta il fatto che la storia delle origini del servizio sociale soffre di una vera e propria “Damnatio memoriae” non solo dell’assistenza pubblica pre-repubblicana ma persino nella legislazione degli Stati pre-unitari.
Per tali motivi ho scelto di combinare tutte le bibliografie degli articoli pubblicati sulle riviste specializzate di politica e servizio sociale tra il 1925 ed il 1965.
Il metodo preso in considerazione per la realizzazione di questo lavoro segue quello di una raccolta bibliografica degli articoli di periodici, delle monografie e dei collettanei, sintetizzati dalle fonti più autorevoli dell’epoca. Lo scopo dell’opera è essenzialmente illustrativo-divulgativo rivolto a studenti, ricercatori e quanti altri sono interessati a saperne di più su questo settore disciplinare.
Gli articoli relativi al periodo 1945-1965 sono in gran parte tratti dalla Bibliografia di Corsini-Florea-Urbini che parte da un’ipotesi ben precisa: verificare l’inizio della storia del servizio sociale a partire dal suo sviluppo che gli autori identificano con il secondo dopoguerra. Ma gli autori non potevano sapere che la maggior parte di enti assistenziali creati durante il fascismo (ECA, ONMI, ENAOLI) hanno subito una riforma solo nel 1977? Inoltre il termine “sviluppo” già di per sé è ingannevole in quanto lascia intendere che già ci sia stata una data di nascita. Il libro inoltre rimane ai margini dei grandi eventi della storia italiana come ad esempio la riforma del servizio sanitario nazionale (1978), la riforma Basaglia (1978), il riconoscimento legale del titolo di studio (1987), etc.
Il libro di Corsini-Florea-Urbini, tuttavia, rimane importante perché costituisce una “radiografia” di uno dei periodi più intensi della storia italiana, i “mitici” anni ’60, ma anche più contraddittori con il “boom” economico ed allo stesso tempo la “crisi” dei servizi sociali. A tutto ciò bisogna aggiungere la trasformazione del mercato editoriale e delle biblioteche specializzate inizialmente ubicate presso le scuole e poi trasferite negli istituti accademici. Probabilmente gli autori avevano intuito il destino cui andavano incontro i materiali cartecei soggetti a usura e scarto. Questo è anche uno dei motivi per cui si è scelto di non andare troppo a ritroso del tempo.
Molto spesso i problemi di catalogazione derivano dal pessimo stato di conservazione dei materiali, aggregati approssimativamente con nastro adesivo o con rilegature sfilacciate. A tal proposito, per le edizioni rilegate dove non si è potuto evincere il fascicolo del periodico, si è assegnato il titolo della rivista seguito dal numero della prima pagina.
La compilazione consta di una serie di categorie, ciascuna con in media un centinaio di articoli, per un totale di oltre cinquanta riviste consultabili. Nel primo gruppo si contempla la sezione dedicata ai minori ed alla famiglia considerando che la tutela dell’infanzia è uno degli obiettivi prediletti del servizio sociale. Rientrano in tale categoria le notizie relative alle colonie climatiche, alla tutela della famiglia e della donna. La sezione più cospicua è rappresentata dalla “Previdenza e assistenza sociale” che raccoglie l’attività assicurativa sugli inabili e sui lavoratori. Segue la categoria sulla “Devianza ed esecuzione penale” che tratta del servizio sociale penitenziario e della risocializzazione dei detenuti. La sezione di “Politica sociale” comprende tutti quei temi che non rientrano strettamente nell’assistenza sociale (risparmio, edilizia, opere pubbliche, etc.) ma che comunque concorrono al benessere collettivo.
La sezione “Ricerca e statistica sociale” è dedicata agli studi di approfondimento ed analisi dei problemi sociali. In “Arti e mestieri” si è voluto dare spazio anche ad altre professioni d’aiuto. Segue il gruppo sull’assistenza privata mentre “Lavoro e dopolavoro” è dedicata a tutti i problemi di ergonomia. La sezione successiva comprende un tema delicato quale quello dell’assistenza agli italiani all’estero, dell’analisi demografica e della pianificazione economica. La sezione “Formazione ed istruzione” comprende gli articoli sulla scuola e sulla formazione professionale. Seguono le sezioni sui servizi sanitari e “stampa estera” in cui sono stati aggiunti sia gli argomenti relativi a fatti o personaggi all’estero sia autori ed editori stranieri. Si noti di come nel periodo 1945-1965 aumentano vertiginosamente gli scrittori stranieri specialmente inglesi e americani. Si noti anche di come il “case-work” risulti ridondante ed enfatizzato, si può parlare di tentativo di “colonizzazione americana” dei servizi sociali italiani?
L’ultima sezione è dedicata agli articoli di assistenza sociale correlati all’antifascismo; si tratta di un periodo oscuro che vede molte esperienze realizzate in regime di clandestinità e che merita senza dubbio degli approfondimenti.
Per la scelta della classificazione, si è preferito seguire il criterio adoperato da alcuni testi ufficiali dell’epoca sebbene «i limiti di separazione tra categorie non sono sempre netti e sicuri e non di rado appaiono delle opere che trovano posto in un dato gruppo, mentre possono rientrare anche in un altro» (Bibliografia della civiltà del fascismo, p. X). Si è voluto, quindi, effettuare una selezione come, ad es., sulle opere scritte dagli stessi autori ma pubblicati su riviste diverse, così come su quelle che avevano esclusivo carattere propagandistico o celebrativo, fermo restando la pluralità dei temi trattati, per non incorrere in un eccessivo agglomerato di indicazioni che avrebbe finito per intralciare piuttosto che agevolare la ricerca.
Una categorizzazione totale del resto è impossibile, es. il servizio sociale di fabbrica sta in “Lavoro e dopolavoro” mentre “assistente sociale di fabbrica” e “assistente sociale” sta in “arti e mestieri”. Nel dopoguerra nascono nuove categorie come il “servizio sociale di comunità” che dovrebbe tradurre l’inglese “community care” e ne scompaiono altre ad es. “Antifascismo”. La salute mentale che durante il fascismo era un problema di polizia è stato trasferito integralmente nella categoria “salute ed eugenica”. Uno degli istituti di assistenza generica più rinomati del regime fascista, l’Ente comunale di assistenza, che assorbì le competenze delle Congregazioni di carità, si trova nella categoria “Previdenza e assistenza” perché di fatto era un ente pubblico sebbene le Congregazioni di carità siano nate come enti privati ma poi sono state trasferite nell’ete pubblico ECA. I problemi delinquenziali sono stati uniti a quelli degli adulti (“Devianza ed esecuzione penale”) mentre così come i minorenni anormali psichici che si trovano in “Salute e igiene mentale”. Il periodo 1925-1965 non dedica molto spazio sugli anziani che quindi sono stati inseriti nella categoria “Previdenza e assistenza sociale” considerando sia quelli che godevano di una pensione sia di coloro che, pur non avendola, beneficiavano dell’assistenza generica di base. Il libro di Corsini-Florea-Urbini riporta anche la nuova categoria “Organizzazione sindacale e culturale degli assistenti sociali” che considera l’uscita degli assistenti sociali dal sindacato dei professionisti e degli artisti (FIDAPA) e al lungo cammino per il riconoscimento legale della professione (che però avverrà solo negli anni ’80).
È curioso di come il libro di Corsini-Florea-Urbini si giustifichi sulle lacune del periodo anteriore alla seconda guerra mondiale sebbene poi fa iniziare la bibliografia con la categoria “Storia del servizio sociale”. Gli autori si giustificano con “il limitato numero di articoli” ma la motivazione non regge. Il libro di Corsini-Florea-Urbini, inoltre, non elenca gli autori in ordine cronologico ma alfabetico e non senza un motivo. Ho riscontrato infatti molte lacune nelle date perciò ho pensato che gli autori abbiano trovato un “escamotage” per evitare brutte figure. Ho rimediato a questa lacuna.
Una considerazione a parte meritano le recensioni, laddove non è stato possibile reperire la fonte originale si tratta di un genere letterario non sempre ricercato ma che, nel nostro caso, rappresenta senza dubbio un prezioso contributo per l’evidenza storiografica. In rari casi, specialmente sui materiali tratti dai quotidiani, può capitare che il lettore si imbatti nella sigla s.t. (senza titolo) perché magari l’autore si è limitato a firmare qualche contributo, una “spalla” o un fondo pagina, lasciando libera l’intestazione.
La catalogazione, che rispetta l’ordine cronologico della produzione e non quello alfabetico, inizia nel 1925 quando il regime assunse i caratteri totalitari e termina nel 1965 con la fine della guerra fredda e la divisione del mondo in due blocchi ideologici.
Il libro non ha pretese di esaustività ma costituisce una prima ricerca ed elaborazione, ma se incontrasse l’interesse di studiosi ed operatori, può assumere la forma di un lavoro più ampio e sistematico.
Virginio Bertinelli, nella prefazione al libro di Corsini-Florea-Urbini, fa notare che “il servizio sociale pur non avendo ancora raggiunto una chiara e definitiva affermazione” (Bibliografia italiana del servizio sociale 1945-1965, p. 5) ormai costituiva una realtà consolidata e che il suo sviluppo era avvenuto in condizioni difficili. L’autore poi conclude con la speranza che tale atmosfera di collaborazione possa rimanere integra il che equivale ad un superamento degli estremismi.
Ecco le motivazioni per la redazione di una bibliografia:

 lo sviluppo bibliografico procede di pari passo con il riconoscimento identitario;
 uno strumento di ricerca per gli studi di teoria, metodo e campi di applicazione;
 conservare le tracce delle esperienze più interessanti a vantaggio delle future generazioni di assistenti sociali.

Per il futuro sarebbe auspicabile l’incremento dei programmi di digitalizzazione come già si sta facendo in molte regioni (https://memoriesociali.it , http://digitale.bnc.roma.sbn.it , https://fondazioneolivetti.it , etc).

Il concetto di “assistenza” è già presente prima del fascismo per indicare attività sociali di beneficenza presso il domicilio dei bisognosi, poi si sviluppò in previdenza, protezione e sicurezza.

Bernardino Ramazzini (1633-1714) in “Malattie degli artefici” intuì il legame tra sanità e lavoro e ipotizzò le prime rudimentali norme di assicurazione e protezione sociale. All’inizio del XX secolo l’assistenza è intesa a combattere la morbilità, la mortalità e l’invalidità. Gli scienziati sulla spinta di Lombroso e Ferri ritenevano che il carattere e la tempra di un popolo sono condizionate dalle caratteristiche fisiche e biologiche, in questo senso le politiche sociali hanno un orientamento eugenetico, e si basano sulla medicina sociale introdotta da Giuseppe Tropeano.

Nel “Bollettino associazioni nazionali ECA” del 1946 sta scritto che per ogni utente è rilasciato un libretto di assistenza (Bollettino associazioni nazionali ECA, 1946, Milano, p. 9), che l’Associazione nazionale enti comunali di assistenza (Anea) devolve 1/3 di rendite all’Onmi (Id., p. 11), che offre tra l’altro refettori e ricoveri per senza fissa dimora, buoni pasto, sussidi, vestiario, combustibile per usi domestici, medicine, avviamento al lavoro, macchine da lavoro, borse di studio (Id., p. 20), che il controllo di spesa è affidato ai delegati del governo (Id., p. 43), che la legislazione assistenziale che segue alla Legge Crispi 17.07.1890 n.6972 necessita di una revisione parlamentare.

L’Usis (United states information service) è un ente di documentazione cinematografica che aveva sede in diverse città tra cui Napoli (via Medina, 24).

“L’assistenza è sociale, non guarda all’individuo ma alla collettività realizzata ed espressa nello Stato” (Lo Monaco Aprile Attilio, La politica assistenziale dell’Italia fascista, Roma, anonima romana editore, 1930, p. 6).
(L’assistenza sociale) “mira a rendere la nuove generazione sempre più capaci degli alti compiti assegnati dallo stato (…) pur tuttavia (…) interviene anche per difendere la collettività contro gli elementi passivi e parassitari”(…) come azione di difesa si rivolge anche a favore di individui inutili per la collettività (Id., p. 7) (…) per es. la ospedalizzazione di un demente pericoloso o il ricovero di un accattone può concorrere indirettamente alla tutela del ordine pubblico (Id, p. 8) (…) l’assistenza sociale in senso fascista non è l’azione fredda e burocratica e quasi meccanica di organi schiavi di una formula teorica (es. l’organicismo marxista) chiusi in una sterile intransigenza e refrattari ad ogni concezione realistica e umana della vita in quanto l’azione assistenziale partecipa alla valorizzazione ed esaltazione degli elementi spirituali della vita nazionale (…) la previdenza che costituisce larga parte dell’assistenza sociale è ancora regolata da concetti individualistici (Id., 11) avendo l’assistenza sociale un carattere di assoluta necessità. L’esercizio di essa è demandato ad organi statali o ad enti inquadrati nell’ordinamento giuridico dello stato (cfr. art. 359 c.p. che tutela le professioni per attività necessarie, p. 12). Per impulso della CGII sono sorti a Roma, Napoli, Genova, Torino e Milano presso i centri industriali i policlinici del lavoro che offrono gratis cure mediche agli operai e ai loro familiari (Id., p. 278). Le aziende che assumono assistenti sociali sono De Angeli Frua, Breda di Milano, Cantoni di Legnano, Fiat di Torino, zuccherificio di Pontelongo, De Micheli di Firenze, Monte Amiata, Viscosa di Roma (Id., p. 282). Solo nel corso del 1929 le assistenti sociali si sono dovute occupare di circa 1.880 pratiche tra cui infortuni di lavoro, pensioni vecchiaia, pensioni invalidità, assegni materiali, contributi sulle malattie, etc. (…) i lavoratori ricorrono fiduciosi alle assistenti sociali richiedendo loro il consiglio e l’aiuto (Id., p. 281). Molte aziende sono ubicate nei pressi di un policlinico mantenuto a spese della fabbrica. Hanno creato abitazioni, dormitori bagni, refettori, convitti, ricreatori, cinematografo, biblioteca, asili, colonie climatiche, insomma dei veri e propri villaggi industriali (Id., p. 282), convinti gli industriali di una maggiore assistenza come condizione necessaria di una maggiore produzione, secondo il modello dell’organizzazione scientifica del lavoro e del modello corporativo che impone alle assicurazione professionali di esercitare al proprio interno un azione selettiva rivolta a migliorare la tecnica e l’organizzazione.

Si cita un corso per propagandiste agrarie per affiancare donne colte all’opera de sindacati tecnici e agricoltura (Confederazione nazionale sindacati fascisti professioni e arti, Annuario 1934, Roma, p. 1025).

Il Papa con l’enciclica “Casti connubii” del 1933 ha condannato le sterilizzazioni naziste, nel 1931 con l’enciclica “Non abbiamo bisogno” si era espresso in tono altrettanto biasimevoli verso la soppressione dell’Azione Cattolica” (Bendiscioli M., neopaganesimo razzista, Roma, Morcelliana, 1938, p. 68). In Germania dal 1934 al 1937 vi furono 20.000 pratiche di sterilizzazione verso handicappati, devianti e tossicomani, anche se dopo il 1937 ci fu un rallentamento a causa delle conseguenze psichiche che subivano le vittime. Contro il comunismo il Papa scrisse “Divini redemptoris”.

Sta scritto “beneficenza è l’opera di soccorso di origine privata e discrezionale” (Manuale dell’addetto sociale, Milano, Acli, 1957, p. 27) assistenza “sorretta da norme particolari”, assistenza sociale “è l’attuazione con tecnica di mezzi dell’assistenza” (Id., p. 229), poi ancora previdenza “è l’accantonamento obbligatorio del risparmio di singoli o gruppi sociali” (Id., p. 22). Ecco dunque l’evoluzione del servizio sociale in quattro tappe: Chiesa, stato, università e banche. Dal 1925 al 1942 funzionava il Patronato Nazionale che suppliva tutti i compiti di tutela dei lavoratori: assicurazione, cure mediche, pensioni, assegni, poi dal 1943 tali competenze passarono all’Inam. Le Acli negli anni ’50 introdussero la “Giornata nazionale dell’assistenza sociale” che consisteva in una sorta di manifestazione propagandistica: la propaganda è importante perché prevenire è meglio che curare (Id., p. 43).

Al 31 dicembre 1942 il servizio sociale di fabbrica era impiegato in 1308 fabbriche in favore di 900.000 operai (…) nel dopoguerra “il servizio da taluni fu visto con sospetto come un tentativo da parte dei padroni di strappare il lavoratore all’organizzazione sindacale o peggio di soffocare in lui miglioramenti ben più sostanziali (Colombo U., Principi e ordinamenti dell’assistenza sociale, Milano, Giuffrè, 1954, p. 402). Sta scritto di una casa del manicomio a Napoli gestita dall’Enagem del ministero del lavoro (Id., p. 391).

Sta scritto che la scuola superiore di assistenza sociale di fabbrica di San Gregorio al Celio, che originariamente era di livello “non universitario”, è stata assunta dall’Onarmo e che diplomava gli studenti in 24 mesi (G.C., Assistenti sociali, “Enciclopedia italiana”, appendice II A-H, Roma, Treccani, 1948, p. 291, pp. 291-92).

«La legge 3 aprile 1926, fra le condizioni richieste per il legale riconoscimento delle Associazioni sindacali, impone che queste, «oltre gli scopi di tutela degli interessi economici e morali dei loro soci, debbono proporre di perseguire e perseguano effettivamente scopi di assistenza, di istruzione e di educazione morale e nazionale dei medesimi» (art. 1).
La Carta del Lavoro precisa meglio i compiti delle associazioni quando dice: «è compito delle associazioni di lavoratori la tutela dei loro rappresentanti nelle pratiche amministrative e giudiziarie relative all’assicurazione infortuni ed alle assicurazioni sociali» (dichiarazione XXVIII).
«L’assistenza ai propri rappresentati, soci e non soci, è un diritto e un dovere delle assicurazioni professionali. Queste debbono esercitare direttamente le loro funzioni di assistenza né possono delegarle ad altri enti od istituti, se non per obiettivi di indole generale, eccedenti gli interessi delle singole categorie» (dichiarazione XXIX).
Fra i servizi generali di assistenza, creati dalle associazioni, in conformità ai principi sanciti nella legge e nella Carta del Lavoro, bisogna ricordare il Patronato Nazionale per l’assistenza sociale. Il Patronato ha però una sua storia che precede la legge del 3 aprile 1926.
Furono le organizzazioni sindacali fasciste che iniziarono i primi esperimenti di una assistenza sociale fascista e, prima fra tutte, la Federazione Provinciale Genovese che, per disposizioni della Confederazione Corporazioni Sindacali, nel maggio 1922 creava il «Patronato Nazionale Medico- Legale per, gli Infortuni Agricoli, Industriali e per le Assicurazioni Sociali», istituito con decreto ministeriale del 26 giugno 1925, a sensi del R. decreto- legge 23 agosto 1917, n. 1450 e del R. decreto 30 dicembre 1923, n. 3184. Così sorsero i primi uffici provinciali del patronato, che dovevano assolvere i compiti sino allora attuati, dai patrocinatori privati con i loro uffici di assistenza infortunistica.
L’emanazione della Carta del Lavoro ne consigliò la revisione e così, con il decreto ministeriale 24 dicembre 1927 sull’ordinamento del Patronato nazionale per l’assistenza sociale, venne data questa nuova denominazione e nel contempo ne fu modificato lo statuto. Però di fronte all’allargarsi delle provvidenze a favore dei lavoratori e in conseguenza, del loro bisogno di assistenza, i limiti imposti dallo statuto del 1927 sembrarono ugualmente troppo ristretti. Così, col decreto del Ministro per le Corporazioni del 27 settembre 1930, fu approvato il nuovo statuto del P.N.A.S., a termini del quale fu ad esso affidato non solo l’assistenza dei lavoratori nell’ambito delle assicurazioni sociali, ma anche nelle vertenze relative alle assicurazioni infortuni individuali e collettive, stipulati extra legem, nonché l’assistenza ai connazionali rimpatriati e quella generica dei lavoratori.
All’articolo 1 dello Statuto è detto: «Il Patronato Nazionale per l’assistenza sociale costituisce, ai termini della dichiarazione XXIX della Carta del Lavoro, l’organo tecnico a mezzo del quale le Confederazioni nazionali fasciste dei lavoratori adempiono alle funzioni di assistenza e di tutela dei propri rappresentati nelle pratiche amministrative e giudiziarie, relative all’assicurazione infortuni e alle assicurazioni e previdenze sociali in genere».
Questo statuto, che è ancora in vigore, ha dato al Patronato compiti veramente ampi e che sono suscettibili oggi di una maggiore e più organica estensione onde fare di esso l’organo vero e completo di tutta l’assistenza, da quella legale a quella igienico-sanitaria, che le associazioni professionali devono garantire ai propri associati» (PNF, La politica sociale del fascismo, Roma, Libreria dello Stato, 1938, pp. 61-62).

I compiti dell’assistente sociale riguardano l’inserimento e l’integrazione sociale del novizio o dell’apprendista, previdenza, prevenzione infortuni, controllo degli operai in malattia, coordinamento delle opere assistenziali, es. colonie, dopolavoro, asili, mense, biblioteche, etc. “a questo si deve aggiungere l’azione educativa, morale e spirituale” (Id., p. 11). Poiché le commissioni di fabbrica era state soppresse durante il fascismo, gli operai riconoscevano alle assistenti sociali un ruolo di intermediari tra i padroni e i lavoratori (Id., p. 37). La prima scuola di servizio sociale fu fondata ad Amsterdam nel 1899 (Id., p. 40).

Paolina Tarugi dice che prima del 1920 a Milano presso l’unione femminile nazionale e umanitaria furono istituiti gli uffici di indicazione e assistenza che fu tacciata come “esperimento di servizio sociale” (Paolina Tarugi, Appunti di servizio sociale, Milano, Unsass, 1954, p. 66). L’IIAS sorse a Milano nel 1920 e fu voluto da un gruppo di accademici e imprenditori filantropi con lo scopo di avviare degli addetti con compiti di segretariato sociale “in reminiscenza dei segretariati del popolo allora in uso” (Id., p. 67) presso le fabbriche e le manifatture locali. Non chiaro se questo istituto potesse assumere solo operatori o anche formare studenti. Tuttavia è da pensare che se i fondatori furono accademici anche un minimo di preparazione ce l’avessero anche gli operatori formati. Questo istituto nel 1928 fu assunto dalla confindustria che la diresse fino al 1945. Paolina Tarugi afferma che dopo questa data solo a Milano e Torino sopravvisse l’attività di assistenza sociale di fabbrica ma sotto l’egida di enti diversi (Id., p. 67). La Tarugi è concorde nel ritenere che la prima scuola è sorta a Roma nel 1928 che fino al 1943 fu l’unica scuola italiana. Questo termine (unica) non deve essere preso in senso riduttivo in quanto garantiva quella omogeneità e integrazione della formazione che sarà perduta nel dopo guerra con la frammentazione della scuola private.

Nel 1934 si fa cenno a un servizio sociale creato dal OSLI (Organizzazione sindacale lavoratori industria). Il commendatore Giani fondò tra il 1919 e il 1921 a Roma quello che in seguito divenne l’Opera nazionale dopolavoro (OND); sempre in quegli anni e nel medesimo luogo Ettore Levi fondò l’Istituto Igiene Assistenza Sociale (IIAS) che fu assunto dall’istituto di medicina sociale, la Tarugi accenna all’introduzione del servizio sociale familiare presso l’Istituto case popolari Milano (ICPM) negli anni 1923 e 1924 anche qui tacciati di esperimenti. Un altro esperimento fu introdotto presso la federazione gente di mare “in favore dei marittimi” di Napoli, Genova, Trieste, Messina, Torre del greco, Livorno, etc. (Id., p. 68). Non sapiamo in cosa consistevano questi esperimenti se non assumere del personale sulla scia del IIAS di Milano. Ancora la Tarugi parla di servizio sociale ospedaliero introdotto nei primi anni ’20 presso 44 sanatori gestiti dal INPS (Id., p. 68). È naturale ipotizzare che tutti questi esperimenti avessero finalità ergonomiche cioè di prevenire la diffusione di malattie presso la massa operaia e così incrementare la produttività e l’economia. La Tarugi afferma che “dopo il 1945 molti elementi professionali non ebbero più la possibilità di continuare l’opera” (Id., p. 68). A partire dal 1946 sorsero una miriade di scuole, senza un piano preordinato, anche sotto i finanziamenti del AAI. Complessivamente la Tarugi individua otto aree di intervento del servizio sociale italiano (Id., pp. 68-84):

  1. industriale: con compiti di “prevenzione infortuni” e “cure delle nevrosi” (p. 73) di concerto con gli psicologi di fabbrica;
  2. famiglia: tramite visite domiciliari ma con fini educativi;
  3. sanitario: presso gli ospedali e i sanatori;
  4. scolastico: prevenzione, orientamento professionale e integrazione socio sanitaria;
  5. medico psico pedagogico: portatori di handicap, ritardati e caratteriali;
  6. penale: nel 1934 furono previsti 4 riformatori per minori in realtà ne funzionarono soltanto due (Roma e Milano);
  7. municipale: presso gli ECA per l’avviamento al lavoro e monitoraggio dei poveri;
  8. militare: riservato alle famiglie dei soldati, per il “disbrigo di pratiche per assistenza morale e materiale” (p. 82) presso il comando di zona area territoriale di Milano;

Sta scritto che “si concreta specialmente in Italia una legislazione assistenziale basata sul principio della dignità umana e della solidarietà nazionale che assorbe e interpreta in se lo spirito latino e cristiano della carità” (Id., p. 121). Camillo De Lellis, abruzzese, discepolo di Filippo Neri, ottenne l’autorizzazione da papa Sisto V di apporre una croce rossa sull’abito e sul mantello per sé e per i suoi discepoli nel ordine religioso dei “Ministri degli infermi” portando soccorso sui campi di battaglia degli italiani all’estero. Non si tratta della vera e propria fondazione della CRI ma in un certo senso ne rappresenta l’antesignano per eccellenza.

La rivista “Assistenza sociale agricola” dopo una serie di articoli sul diritto del lavoro e sugli infortuni descrive il proprio scopo quello di combattere le malattie e specialmente la tubercolosi in quanto la rete di “Enti precostituiti” sono parte integrante del sistema corporativo fascista in quanto “la psicologia dell’agricoltore sia datore che dipendente, non è stata finora in grado di sentire compiutamente quell’aspetto della solidarietà sociale che è rappresentato dall’organizzazione dell’assistenza” (Assicurazione contro la tubercolosi e sistema corporativo, “L’assistenza sociale agricola”, 1, 1, 1928, p. 2). La rivista è divisa in due sezioni “infortunistica” che include giurisprudenza e prevenzione, “assistenza sociale” che include articoli su “conoscenze dei bisogni assistenziali di cui i rurali sentono la mancanza” (Pesce G., Appunti per un programma di assistenza sociale agricola, “L’assistenza sociale agricola”, 2-3, 1928, p.145). Si fa cenno alla scuola superiore di Malariologia nata a Roma nel 1927 per specializzazione medici laureati (La scuola superiore di malariologia, “L’assistenza sociale agricola”, 5-6, p. 324). Sta scritto della ruralizzazione come obiettivo della politica sociale fascista al fine di prevenire i pericoli derivati dall’urbanesimo e che dovrebbe rispondere ai criteri dell’organizzazione scientifica del lavoro e dell’abuso dei ricoveri in istituti per cui si propone il collocamento presso famiglie o il ricovero presso colonie rurali (Agricoltura e assistenza all’infanzia, “L’assistenza sociale agricola”, 7, 1928, p. 409, pp. 403-418).

La “preparazione programmatica” (Id., p. 408) della scuola superiore fascista di assistenza sociale consisteva in:

 Legislazione fascista del lavoro, ordinamento politico e sindacale, ordinamento amministrazione sanità italiana, nozioni di economia politica e sociale, assicurazioni sociali, infortunistica
 politica sociale, organizzazione scientifica del lavoro sotto aspetto medico, malattie sociali (tubercolosi, etilismo, sifilide o celtica, tracoma, etc.)
 Nozioni di anatomia fisiologia igiene generale, fisiologia del lavoro, patologia del lavoro, puericultura, infermieristica, nozioni di economia domestica, nozioni di psicologia psichiatria sociale pediatria e pedagogia sociale
 Origini e storia del servizio sociale, essenza ed organizzazione del servizio sociale, il servizio sociale in Italia e all’estero, metodologia del servizio sociale, orientamento pratico del servizio sociale, pratica e tirocinio
 Visite agli istituti di beneficenza/assistenza, ricoveri diversi, scuola di rieducazione per anormali psichici e fisici, casa di correzione, riformatorio, visite ambulatoriali preventori e dispensari, religione, conferenze di cultura generale e cultura fascista.

Presso ogni Consiglio di patronato è ubicato un “Ufficio di assistenza sociale retto da un assistente sociale” (Onmi, Origini e sviluppi, Roma, Tip. Colombo, 1936, p. 60); tra gli utenti del servizio rientravano “i bambini maltrattati” (Id., p. 64). L’istituzione dell’Ufficio distrettuale di assistenza sociale presso i Tribunali per i minorenni risale al 1934 (CFLI, Per le assistenti sociali, Roma, Tip. Il lavoro fascista, 1936). La legge sul tribunale per i minorenni è il primo documento nella storia legislativa italiana che cita il “servizio sociale” (RDL 20 luglio 1934 n. 1404 pubblicato sulla GU del 5 settembre 1934 n. 208 e convertito in legge dalla L. 27 maggio 1935 n. 835). Un consultorio di medicina pedagogica emendativa composto anche da assistenti sociali fu istituito presso il centro di osservazione del carcere di Roma Rebibbia (Di Tullio B., Il consultorio di medicina pedagogica emendativa nell’Onmi, “Difesa sociale”, 1935, 3).

«Fin dall’origine di tale organo (Tribunale per i minorenni) è stata individuata nella presenza del Collegio, accanto ai due giudici di carriera, di un suddito avente intrinseche qualità e specifiche attitudini: un benemerito dell’assistenza sociale, scelto tra i cultori di biologia, psichiatria, antropologia e pedagogia» (…) «di conseguenza diventava determinate l’analisi del bisogno, considerato non i modo generico da parte di un’unica categoria, quella dei poveri, ma come domanda generalizzata, in quanto facente capo a tutti i sudditi, e nel contempo precisamente individuata, rispetto a specifiche necessità. Di qui l’assunzione diretta da parte dello Stato delle competenze assistenziali, prima lasciate al settore privato o demandate ad enti pubblici aventi competenze settoriali (Onmi, Ipai, Enaoli, etc.)» (L’affidamento di sorveglianza, “Lavoro fascista”, 16 giugno 1941).

Il Patronato pro liberati dal carcere nacque a Vicenza nel 1907 su iniziativa del celebre scrittore Antonio Fogazzaro. Nello Statuto si leggono tre ordini di soci: ordinari, benemeriti e fondatori che si differenziano in base all’ammontare della quota versata. Si accenna a una casa per liberati a Vicenza e una fabbrica di spagari. Si cita “la domenica del carcerato” giornalino dei reclusi di Roma (L’opera del patronato pro liberati dal carcere, Vicenza, 1931, p. 5).

Si legge di una terza generazione di assistenti sociali in Aurelia Florea, “I rapporti professionali degli assistenti sociali” (Marinatto L., L’assistente sociale, Firenze, Vallecchi, 1964, p. 30). Ciò significa l’esistenza di una seconda generazione nel ventennio precedente (1944-1964) ed una prima generazione ancor prima (1924-1944).

Per “corporazioni” si intendono libere associazioni professionali gestite da privati ma controllate dallo Stato “sono le professioni che tramite le corporazioni contrattano tra loro le condizioni lavorative alle quali tutti gli appartenenti delle categorie lavorative devono aderire” (Miraldi, G., Elementi di diritto corporativo, Roma, Ed. Diritto del lavoro, 1935, p. 141). La corporazione per es. degli Artisti e Professionisti dettava le regole del contratto per tutti gli assistenti sociali, anche chi non fosse iscritto all’associazione. La L. 563/1926 afferma che tutte le corporazioni devono perseguire scopi di azione sindacale e assistenza sociale. Le corporazioni hanno facoltà di creare “scuole professionali” (p. 54). Funzioni delle corporazioni sono: collocamento dei disoccupati, disciplina ed espletamento del tirocinio, vigilanza sulle norme ergonomiche, consulenza presso enti locali, conciliazione sulle controversie, disciplina dei rapporti di lavoro, candidature alla camera delle corporazioni, etc. Tale ordinamento attribuiva allo Stato, e in particolare alle corporazioni quali organi del medesimo, la funzione di disciplinare, in regime di autarchia, tuta l’attività produttiva e i rapporti economici collettivi (L. 20.03.1930 n. 206 e L. 05.02.1934 n. 163).

Sta scritto che “l’autarchia è la capacità di un ente di amministrare se stesso, ovvero di agire per il conseguimento di fini propri, mediante l’esercizio di attività amministrative che ha natura e effetti della PA, propria dello Stato (…) l’autarchia presuppone la personalità giuridica, mentre l’autogoverno implica solo la concessione della facoltà di porre in essere atti amministrativi; “autonomia” significa che oltre all’attività amministrativa, l’ente può disporre anche di attività legislativa” (Zanobini G., Corso di diritto amministrativo, Vol. I, Milano, Giuffrè, 1954, p. 126).

La corporazione elabora norme generali sulle condizioni dei lavoratori, concilia le controversie fra le associazioni sindacali, promuove tutte le iniziative tese a organizzare la produzione, regola con norme il tirocinio e l’apprendistato, esprime pareri alle pubbliche amministrazioni sulle materie di lavoro, stabilisce tariffe di servizi e consumi, elabora norme per il controllo del collocamento e per la disciplina della produzione (Primo e secondo libro del fascista, Roma, Mondadori, 1941, p. 101).

Gli artt. 2114 e 2123 c.c. hanno anticipato di 8 anni l’art. 38 della Costituzione e non esistevano norme simili nei codici anteriori del 1882 e nel 1865.

Dal 27 al 30 ottobre 1927 si è svolto a Nancy il VII congresso francese d’assistenza pubblica e privata. All’epoca in Francia gli operatori erano chiamati “auxiliaires sociales” che operavano tramite il “service social” in un “oeuvre sociale” poi nel dopoguerra si fece riferimento all’Unrra dove gli operatori erano nominati “social workers” che agivano tramite il “social work” in un “social agency”, dunque in Italia nel 1946 si è voluto conservare entrambe le terminologie a causa di due diversi periodi storici (Union Catholique International de Service Social, Compte rendu des Journees Internationales d’Etudes pour les Auxiliaries du Service Social, Paris 11-13 juillet 1937, Bruxelles, p. 8).

Corporativismo deriva da “corpo” per indicare l’attenzione rivolta a i corpi sociali intermedi, che si frappongono tra lo Stato e l’individuo quali la famiglia, l’associazione e le professioni.

“Bisogna convincersi che l’opera di penetrazione sociale e in genere quella preventiva non ha per fine curare l’individuo, quanto di bonificare l’unità familiare. L’unità medico sociale non l’individuo ma la famiglia o l’aggregato ambientale che l’individuo si è artificialmente costruito(…) infatti ogni individuo bisognoso di assistenza, non è solo un caso clinico ma soprattutto un caso sociale” (Levi Ettore, Un centro studi e di attività sociale, Istituto italiano di igiene, previdenza e assistenza sociale, Roma, 1925, p. 84). “Dovranno costituirsi in Italia, come già in America, delle scuole superiori di cultura sociale intese alla preparazione morale e tecnica del personale destinato a dirigere tali istituti” (es. casa mutilato, casa del marinaio, p. 82). “Le facoltà di legge sono relativamente meglio attrezzate” (Id., p. 84) per un eventuale inserimento nel contesto accademico. A Milano per iniziativa del dott. Correggiari si impartiscono lezioni per la preparazione di segretarie sociali destinate a diffondere la loro opera in ambienti operai (…) la Cassa Nazionale per le assicurazioni sociali questo anno inizierà a Roma e Milano dei corsi integrativi per la preparazione di assistenti sociali sanitari di fabbrica con speciale riguardo alla maternità” (Id., p. 89). Ai marittimi furono somministrati una serie di conferenze igieniche tenute da certe propagandiste agli operai presso i principali stabilimenti industriali.

Definizione di funzione assistenziale “dovere dello Stato e quindi di tutti i cittadini di contribuire ad aiutare e a sostenere le masse lavoratrici e fra esse gli elementi più bisognosi e meno validi per la lotta esistenziale” (Baranelli, F, Sancipriano M., Puericultura e formazione spirituale del bambino, Torino, Lice, 1944, p. 289). Sta scritto di una legge che obbliga le aziende a introdurre una camera di allattamento per ogni fabbrica superiore ai 50 dipendenti.

Oltre alle aziende si assumeva anche tramite la Cassa nazionale di assicurazione sociale.

Secondo Villani Rimassa nel 1928 la scuola superiore di assistenza sociale San Gregorio al Celio diretta dalla confederazione degli industriali italiani con il concorso dell’università Bocconi impartiva il seguente programma (Villani Rimassa Serena, Esperienze e formazione degli operatori sociali negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, in Materiali per una ricerca storica sulle scuole di servizio sociale, 1978, pp. 11-25, p. 19):

Primo semestre: Ordinamenti politici e sindacali (prof. Augusto Turati), Legislazione fascista (Giovanni Balella), Ordinamento amministrativo e sanitario (prof. Cesare Giannini), Organizzazione scientifica del lavoro (prof. Giovanni Antonio Vigliani), Igiene generale e industriale (prof. Maza), Etica professionale (prof. Maza), Legislazione sociale (prof. Giovanni Balella), Ordinamento assicurativo (prof. C. Giannini), Infortunistica (prof. Giovanni Antonio Vigliani), Protezione sociale della madre e del bambino (prof. Giovanni Balella), Puericultura (prof. Maza), Servizio sociale in Italia e all’estero (prof. Maza), Economia domestica (prof. Paola Baronchelli).
Giacché il corso di studi durava 8 mesi, il primo e unico semestre era dedicato agli esami e gli ultimi due, cioè 480 ore, dedicate al tirocinio. L’ammissione alla scuola era riservato ai laureati, per gli eventuali posti vacanti era indetto un concorso per diplomati della scuola superiore.

Manifesto degli studi della Scuola superiore fascista al Celio: legislazione fascista del lavoro, ordinamento politico e sindacale, ordinamento amministrativo e sanitario, economia politica e sociale, assicurazioni sociali, infortunistica, politica sociale, organizzazione scientifica del lavoro, medicina sociale, anatomia e igiene fisiologia del lavoro, patologia del lavoro, puericultura, infortunistica, economia domestica, psicologia-psichiatria-pedagogia sociale, servizio sociale, origini e storia del servizio sociale, servizio sociale in Italia ed all’estero, metodi di servizio sociale, orientamento pratico del servizio sociale, pratica e tirocinio. Le competenze consistevano nel “visitare la famiglia bisognosa accompagnate dalle ASV della CRI o dalla maestra della scuola ortofrenica o dalle ispettrici dell’ONMI; è previsto un esame di cultura generale per l’ammissione alla scuola al Celio, “non si improvvisano le assistenti sociali di fabbrica, non chiunque può essere un ASF. Bisogna possederne l’attitudine morale e spirituale, bisogna altresì possedere tutto un corredo di cognizioni specifiche” (G.A., 3 tipiche scuole istituite a Roma dal PNF, “L’assistenza sociale agricola”, 6, 1933, pp. 400-409, p. 407); “per uno speciale accordo di quest’anno anche la Cassa Nazione per le assicurazioni Sociali se ne avvarrà per la propaganda e l’assistenza agli assicurati e alle famiglie” (Ibidem).

Sta scritto “invoca la solidarietà dei ricchi e dei poveri, dai sapienti agli ignoranti, per propagare alla parola e per tradurre nell’azione quei sani principi di igiene ed etica sociale, così ignorati e negletti nel nostro paese” (Levi Ettore, la medicina sociale in difesa della vita e del lavoro, Roma, La voce, 1921, p. I) per indicare che la solidarietà si riferisce alla questione sociale e all’integrazione delle risorse (da solidus = il tutto insieme). La coercizione fisica dei disabili e anormali irrecuperabili presso gli istituti era di natura eugenica per evitare che si accoppiassero fra loro e con normali perché allora si riteneva che tale tare fossero ereditarie. È da pensare che la prima assistenza sociale sia nata in Italia per motivi eugenici e cioè al fine di ottenere dei miglioramenti bio-psichici; “in tal senso la guerra mondiale ha avuto un’influenza benefica, agendo come un rimedio eroico, nella rivelazione improvvisa dell’importanza sociale sia morale che economica, dei grandi problemi assistenziali in tempo di pace in conseguenza della guerra (…) un altro fatto benefico è stato di sostituire all’antica, spesso ipocrita, opera di beneficenza, una vasta, illuminata e sincera organizzazione di assistenza civile, concepita non come una prova di generosità, ma come un dovere delle classi più fortunate verso quelle più misere” (Id., p. 10). “L’evoluzione attuale della società esige ormai la creazione di una nuova categoria di lavoratori cd. sociali che dovranno rispondere a una maggiore produzione e a una più civile solidarietà umana (…) sia in senso morale che materiale” (Id., p. 83). L’autore si riferisce a un certo Ducloux (la quale dottrina difende l’assunzione dell’alcol entro certi limiti) con vago orientamento anticlericale “ci siamo arrestati sull’idea di carità, un’idea falsa, quasi assurda (…) la carità infatti non prevede ma cura, aspetta che l’ammalato sia realmente tale, spesso in fin di vita” (Id., p. 10).

Si legge della proposta di istituire un Ministero di assicurazioni sociali “che mira all’unificazione di tutte le istituzioni di protezione sociale” (Cabibbo, E., Sulla proposta di legge per l’istituzione del ministero di assicurazione sociale, in “Informazioni sociali”, Acli, 1949, 3, p. 39, pp.39-40). Sta scritto degli indennizzi alle vittime di violenza sessuale da parte delle truppe d’invasione alleate specialmente marocchine (Varie, “Informazioni sociali”, Acli, 1949, 10, p. 287).

Secondo Odile Vallin “in mezzo alla lotta di classe, l’assistente sociale è l’elemento neutrale (…) analogo a quello della CRI” (Vallin Odile, L’assistente sociale, Milano, Vita e pensiero, 1947, p.28) e che un “assistente sociale rurale” lavora nel “centro rurale insieme agli animatori d’una casa comune” (Id., p. 35) che svolge attività di “doposcuola, corsi giovanili, bibliografia, corsi di economia domestica e puericultura” (Ibidem). Sta scritto che in Germania lavorano le “assistenti sociali di parrocchia i cui modelli sono Giovanni Battista, Marta sorella di Maria e la Veronica “perché dal viso imbrattato della povera umanità con il suo lavoro farà affiorare sempre più luminoso il viso di Cristo sofferente” (Id., p. 46). Sta scritto che l’Uciss fu fondata a Milano nel 1925 e ha tenuto congressi a Bruxelles nel 1946 e a Lucerna nel 1947, un altro a Parigi prima della guerra. Sta scritto che le materie d’insegnamento spaziano “dalla medicina sociale, psicologia, diritto, enti Ipab” (Id., p. 52), anche qui si pone un limite d’età tra 19 e 40 anni.

Gian Alberto Blanc afferma che la rivoluzione francese ha avuto il merito di affermare il principio della giustizia sociale, mentre le poor law inglese volevano solo “preservare la società dai disordini derivanti dalla miseria” (Blanc G.A., Il fascismo e il problema della razza, “Maternità e infanzia”, 10, 1927, p. 18). Sta scritto, inoltre, che “secondo la dottrina fascista, l’assistenza non corrisponde alla beneficenza, a base questa di carità, né all’assistenza della rivoluzione francese a presupposto individualistico. La concezione fascista è tutt’altra cosa. Essa non cura l’individuo in sé e per sé, ma si prefigge di provvedere alla sanità della generazione; non è rivolta alla tutela per ragioni di filantropia elemosiniera, bensì per tenere alti gli elementi vitali del valore della stirpe per contribuire al progresso, al rafforzamento della razza, nel migliorare le sue energie fisiche e morali al fine di renderla altamente produttiva (Bergamaschi, C., Una giornata d’amore e di idee, “Maternità e infanzia”, 12, 1937, p. 1, pp. 1-2).

Si legge di un nuovo istituto psico pedagogico in una villa del ‘700 tra Ponticelli e Cercola (Un istituto medico psicopedagogico a Napoli, “Maternità e infanzia”, 8, 1928, p. 596). Inoltre nei pressi dell’ingresso del tunnel “laziale” di Napoli a Fuorigrotta c’era un centro di assistenza ai minori. Una nuova sede fu inaugurata nel 1936 nel Rione Principe di Piemonte ai Granili (Inaugurazioni, “Maternità e infanzia”, 11, 1936, p. 12).

Sta scritto che “il Tribunale per i minorenni è il frutto dell’insegnamento della scuola positiva lombrosiana” (“Maternità e infanzia”, 4, 1929, p. 433).

Dal 22 al 25 giugno 1931 si è svolta a Ginevra la Premiere Jeunesse Africa Conference.

La selezione e l’assunzione di assistenti sociali presso l’Onmi avveniva nei ranghi dei fasci femminili (Fabbri Sileno, Circolare 10.06.32 n. 16 in “Maternità e infanzia”, 6, 1932, pp. 625-26). Le materie di preparazione per il personale assistenziale comprendevano le seguenti materie: legislazione sociale, psicologia, sociologia, demografia, pedagogia, morale (Nervi C., Il medico e l’istituzione del servizio di assistenza sociale, “Maternità e infanzia”, 2, 1933, p. 10).

I Consigli di Patronato erano composti dal: Procuratore del Regno, Giudice ordinario, giudice minorile, pretore, rappresentante Onmi, sindaco, ufficiale sanitario, direttore penitenziario, rappresentante dei sindacati per ogni categoria produttiva (industria, agricoltura, commercio, banche, trasporti, arti e professioni, etc.), un prete, una persona benemerita dell’assistenza sociale (I consigli di patronato presso il Tribunale Ordinari, “Maternità e infanzia”, 10, 1933, p. 18).

Sta scritto “il fascismo, è inutile ripeterlo, rinnega l’astratta concezione del cittadino, e rinnega quindi la concezione negativa del minore come individuo non ancora giunto alla condizione psicologica che ne consente e ne determina lo status civitatis. Il minore, invece, rappresenta una forza spirituale che agisce nella vita sociale (…) il minore non è la speranza del cittadino di domani, ma è l’uomo che vive già nella società attuale” (Chiarelli, G., Il tribunale per i minorenni e la concezione fascista della vita sociale, “Maternità e infanzia”, 9, 1934, p. 4, pp. 4-5).

Sta scritto che «i professori americani non hanno nulla da invidiare a quelli dell’Urss che sono costretti a far appello alle proprie qualità artistiche le quali consentono le facoltà ginniche più adatte al salto dei pasti […] sono 14.000 i professori di Chicago che debbono avere ancora lo stipendio dall’aprile 1931 (A.G.B., Letture periodiche, “Bibliografia fascista”, 10, 1931, pp. 747-748, p. 747).

Si evince che la Carta della Scuola, approvata dal Gran Consiglio del Fascismo il 15.02.1939, al tit. III ha anticipato di 9 anni l’art. 34 co. 3-4 Cost., inoltre stra scritto che la maggiore età si conseguiva al 21° anno entro la quale era garantita e obbligatoria l’istruzione e il mantenimento agli studi (Carta della scuola, “Maternità e infanzia”, 1, 1939, p. 65).

Il successo all’esterno è tale che sono organizzate periodicamente delle visite guidate con osservatori stranieri (Attività svolta dal Centro Stranieri dell’ONMI, “Maternità e infanzia”, 6, 1939, p. 400).

Le statistiche nel 1938 indicano 2.132 condanne a fronte delle 7.150 del 1932 (La diminuzione della delinquenza in Italia, “Maternità e infanzia”, 2, 1949, p. 107).

L’Haner scrive “solo dove c’è popolo c’è Storia (…) una forma sociale definita dal sangue e dallo spirito in uno spazio assegnato dal destino (Billi G., Case per il popolo e igiene della razza, “Maternità e infanzia”, 3-4, 1940, p. 159).

Sta scritto che “l’assistenza non deve essere prestata secondo schemi fissi o prestabiliti, ma alla stregua dei particolari bisogni e con la massima urgenza” (Circolare 23.06.41 n. 241 in Frontoni A., Norme per il funzionamento dei comitati di patronato, “Maternità e infanzia”, 6, 1941, p. 301).

Il coordinamento dei servizi sociali e sanitari era affidato alla Direzione Sanitaria Provinciale (Veronese D., Organizzazione servizi sanitari provinciali dell’Onmi, “Maternità e infanzia”, 3, 1942, p. 85).

La spesa previdenziale è passata da 22 miliardi nel 1946 a 500 miliardi nel 1951 (Colombo U., Principi e ordinamento dell’assistenza sociale, Milano, Giuffrè, 1954, p. 370). Le statistiche del 1946 indicano circa 2.762.644 assistiti dell’Onmi a fronte dei 1.937.601 nel 1938 (Gatti V., Dura lex sed lex, “Maternità e infanzia”, set-ott 1947, p. 23), l’autore si esprime spregiativamente contro gli illegittimi quando la Cost. non era ancora entrata in vigore.

  • RD 23.12.29 n. 2392 “Riordinamento degli istituti pubblici di educazione femminile”
  • RD 01.09.25 n. 2009 “Riordinamento dei convitti nazionali” modificato con RD 22.10.31 n. 1410
  • RD 01.10.31 n. 1312 “Approvazione delle norme modificative, integrative ed interpretative del R.D. 23 dicembre 1929, n. 2392, concernente il riordinamento degli istituti pubblici di educazione femminile”.

Da Origini del fascio di Pericle Ducati (Ducati P., Origini e attribuzioni del fascio littorio una pagina di storia che nessuno deve ignorare, Tipografia “La Grafica Emiliana”, Bologna, 1930):

 VII sec. a.C. Necropoli etrusca Vetulonia: ritrovamento a fine ‘800 di un fascio di verghe di ferro sormontate da una scure bipenne.
 I sec. d.C. Silio Italico nel ”Le puniche” accenna a 12 fasci in processione (nel commento all’Eneide di Servio sta scritto che ogni provincia etrusca era divisa in 3 parti ognuna a sua volta divisa in 4 parti per un totale di 12 lucumoni per ogni provincia.
 II sec. d.C. Annio Floro fa rientrare il fascio in un elenco di istituzioni civili. A Roma i fasci erano custoditi presso i magistrati e mostrati nelle celebrazioni pubbliche dai littori che li abbassavano dinanzi ala popolo come per esaltarne la sovranità.
 VI sec. d.C. I fasci scompaiono con Giustiniano per riapparire con la Rivoluzione Francese.

L’Istituto Universitario Orientale è stato fondato dal Fascismo (v. TU 31.08.33 n. 1592 artt. 238-48) “per la formazione dei funzionari e impiegati delle colonie” (Zanobini, vol. V, p. 275) quando ancora si chiamava Istituto per l’Africa Orientale Italiana di Napoli.

Sta scritto “il mantenimento degli inabili al lavoro ha sempre trovato la sua disciplina giuridica nella legge di pubblica sicurezza” (Zanobini Guido, Corso di diritto amministrativo, Vol. V, Milano, Giuffrè, 1954, p. 563).

Durante il Fascismo l’assistenza sociale era suddivisa in assicurazione sociale, beneficenza legale, previdenza obbligatoria e assistenza pubblica. Sta scritto, infatti, che “mentre la beneficenza ha sempre scopo di riparazione, l’assistenza avrebbe scopo di prevenzione e si avvicinerebbe alle varie forme di previdenza (…) la distinzione fu introdotta nella L. 18.07.1904 n. 390” (Id., p. 534).

Sta scritto “il principio vigente riguardo la capacità giuridica degli stranieri è sancito dall’art. 16 delle disposizioni di legge al codice civile che subordina il godimento dei diritti civili alla sussistenza di un trattato di reciprocità da parte dello Stato a cui appartiene” (Id., p. 121).

«Spetta al legislatore fascista il merito di aver usato il termine ”parastatale” nel linguaggio ufficiale, per significare un Istituto al quale partecipa lo Stato» (Cacace E., Recensione su Danesi F., Gli istituti di credito parastatali in Italia, Bologna, Zanichelli, ”Bibliografia fascista”, 2, 1933, pp. 121-122, p. 121).

Sta scritto che “l’INPS è un ente parastatale” e che “l’ONMI è un’istituzione su base associativa” (Zanobini Guido, Corso di diritto amministrativo, Vol. V, Milano, Giuffrè, 1954, pp. 128-129), altrove sta scritto che “l’Istituto Nazionale assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l’Unione Italiana Ciechi, l’Associazione Italiana Croce Rossa, l’Associazione Italiana Mutilati e Invalidi di Guerra sono enti parastatali” (Rainaldi L., Parastato, in Guarino Giuseppe, Dizionario Amministrativo, Giuffrè, Milano, 1978, p. 432, pp. 429-459) tutti aboliti dalla L. 20.03.75 n. 70 (cfr. anche Cosi, Commento alle disposizioni della l. 20.03.75 n. 70 sul riordinamento degli enti pubblici, in I modelli organizzatori degli enti pubblici, Ciriec, Milano, 1977, II, 5 ss; Cardi, Diritti sindacali e potestà organizzativa degli enti pubblici nella legge sul parastato, “Rivista giuridica del lavoro”, 1975, II p. 839; D’Alberti, La legge sul parastato, “Rivista giuridica del lavoro”, 1975, I, p. 185; Frengo, Assetto delle fonti normative e giurisdizione sul pubblico impiego, “Giurisprudenza costituzionale”, 1977, p. 539; Cerulli Irelli, Problemi della individuazione delle persone giuridiche pubbliche, “Rivista tributaria diritto pubblico”, 1977, p. 626; Arena, Soppressione degli enti inutili e riforma del parastato, “Rivista trimestrale diritto pubblico”, 1977, p. 678).

Sta scritto che «non esiste alcune esempio» nella legislazione pre-repubblicana «di un diritto all’assistenza» (Zanobini G., Corso di diritto amministrativo, Vol. V, Milano, Giuffrè, 1954, p. 542) venendosi così a configurare il più generale interesse legittimo dei poveri all’assistenza.

Nel codice civile lo straniero gode degli stessi diritti degli autoctoni in base a trattati di reciprocità col paese di provenienza [C.C. art. 16 disp. Leggi] Stesso discorso vale per l’esercizio di un mestiere o l’iscrizione all’Albo [Dlgs 13.09.46 art. 8].

Sta scritto dell’istituzione della scuola di puericultura a Trento nel 1941 che prende il posto della vecchia Scuola per vigilatrici d’infanzia (B. Baldo, la scuola professionale per vigilatrici d’infanzia di Trento, tesi di laurea, relatore V. Colalì, 2005, Trento, p. 196)) in base alla L. 1098/ del 19.07.40 che autorizza enti pubblici e privati a istituire scuole a tal guisa della durata di due anni al termine del quale è rilasciato un «diploma di stato». La dirigenza didattica è affidata a un medico pediatra, mentre l’organizzazione funzionale e la supervisione è affidata alla direzione IPIAI; sono ammesse ragazze in possesso di licenza elementare; l’accesso è vincolato ad un esame di ammissione preceduto da un breve corso di preparazione (Id., p. 197) al quale segue un periodo di prova di due mesi (Id., p. 199) volto ad analizzare la disciplina e l’attitudine; l’organizzazione è convittuale così come lo era al celio, alla fine di ogni quadrimestre la direzione della scuola effettua una valutazione per ogni allieva in base alla condotta, al profitto didattico, al lavoro e al tirocinio (Id., p. 199), per ogni insegnamento è previsto il superamento di un esame sia teorico che pratico «costituite da singole sperimentazioni» (Id., p. 200); la commissione esaminatrice è composta d a direttrice della scuola, tre docenti, direttore del convitto, rappresentante ministero interni, rappresentante ministero educazione, ed è presieduto da un rappresentante Opera (Onai, Onmi), forse al celio era presenta un rappresentante CGII, ognuno dei quali ha a disposizione 10 punti di valutazione, le allieve godono di 12 ore libere ogni 10 giorni, e 8 giorni liberi per ogni 8 mesi, la scuola ubicata a Palazzo Consolati e sede distaccata a Pergine garantendo la didattica per tutti gli anni ’40 e ’50.

Sta scritto che, oltre a Gregorio al Celio, un’altra scuola fu operativa a Milano per breve tempo (Fiorentino Elda, Note sul problema del personale tecnico per l’assistenza, ”Assistenza oggi”, 4, 1954, pp. 56-61, p. 57).

Nell’anno scolastico 1938-39 furono condotte delle indagini sanitarie sulle collettività scolastiche coordinate dal prof. Salvatore Collari sull’utilità degli esami schermografici (Federici M., Recensione a Collari S., Le colonie climatiche, Roma, Istituto di medicina sociale, ”Assistenza oggi”, 4-5, p. 117, pp. 115-117).

«La nostra legislazione […] è costituita dal complesso delle norme giuridiche che riguardano l’assistenza, la previdenza e il servizio sociale: protezione per la maternità e infanzia, assicurazioni contro gli infortuni, assicurazione contro la vecchiaia, l’invalidità, malattia, disoccupazione involontaria, mutualità scolastica, collocamento dei disoccupati, istituzioni di assistenza e previdenza, OND, scuole secondarie di avviamento professionale» (Lama E., Recensione a Fantini O., Corso completo di legislazione sociale e del lavoro interna e comparata, 1930, Perugia, Regia Università, “Bibliografia fascista”, 7, p. 610-611).

A partire dal 1930 risuonano anche in Italia le grida delle persecuzioni religiose in Russia (Chirini L., Recensione a Goyau G., I sovieti contro Dio, Firenze, 1930, Lef, “Bibliografia fascista”, pp. 705-706).

«Il nazionalsocialismo tedesco non ha nulla in comune col fascismo italiano all’infuori di qualche esteriorità, che esso ha preso da quello italiano senza comprenderne il senso che hanno per l’Italia […] Il nazionalismo tedesco è una demagogia senza idee, barbara» (L’opera del fascismo, “Allgemeine rundschau”, in Bibliografia fascista, 11, 1930, pp. 1026-27).

Secondo i dati del Patronato Nazionale Assistenza sociale per il 1929 ci sono stati 135.500 operai assistiti, liquidazioni per 133 milioni di lire, 125.000 visite mediche, 8.600 cause trattate, 2 milioni di contributi assicurativi recuperati (Problemi del lavoro, ”Bibliografia fascista”, 11, 1930, pp. 1036-37).

Nel 1930 a fronte delle particolari condizioni sociali, economiche e politiche della crisi, il governo decise di istituire l’Ente Opere Assistenziali presso ogni Federazione Provinciale dei Fasci di Combattimento finanziate con 75% dai datori di lavoro e 25% dai lavoratori stessi con il compito di erogare prestazioni periodiche in beni di prima necessità. Nel 1937 per alleggerire il Partito da tali impegni, tali competenze furono affidate all’ECA.

La settimana delle 40 ore è stata introdotta a seguito degli accordi interconfederali del luglio 1935 (H.S., Recensione su Di Paola G.F., Assegni familiari in Italia e all’estero, Ed. Guerra e terra, Roma, 1936, “Bibliografia fascista”, 1936, 4, pp. 239-241, p. 239).

«Il comitato di patronato, al quale spetta di svolgere l’opera esecutiva, è composto di persone di indiscussa probità e rettitudine ed esperte in materia di assistenza materna ed infantile, chiamati patroni e patronesse. Sono patroni di diritto il segretario del Fascio, un magistrato, il medico comunale, il presidente della congregazione di carità (poi ECA), un maestro di scuola elementare, un sacerdote e la segretaria del fascio femminile» (F.G., Recensione su Corsi P., La protezione della maternità e infanzia in Italia, Ed. Nuovissima, Roma, “Bibliografia fascista”, 11, 1936, pp. 736-739, p. 737).

Sta scritto che l’assicurazione di maternità è pagata con L. 7 dal datore e L. 3 dalla donna. Se questa non ha reddito, la quota è corrisposta per intero dal datore (F.G., Recensione su Corsi P., La protezione della maternità e infanzia in Italia, Ed. Nuovissima, Roma, 1936, “Bibliografia fascista”, 11, 1936, pp. 736-739, p. 736).

Si accenna a una pregevole completa pubblicazione dell’OMNI (F.G., Recensione su Corsi P., La protezione della maternità e infanzia in Italia, Ed. Nuovissima, Roma, 1936, “Bibliografia fascista”, 11, 1936, pp. 736-739, p. 738).

Si legge nel verbale del 7 ottobre 1944 della nomina di un commissariato all’assistenza presieduto da Amelia Valli con funzioni di cura e di relazioni pubbliche con le mutue, le assicurazioni e le organizzazioni assistenziali e culturali di lavoratori (Giarda M., Maggia G., Il governo dell’Ossola, Novara, Grafica Novarese, 1989, p. 47).

Sta scritto che «il ”pastone” consiste nell’inanellare notizie, spiegazioni e commenti nel breve spazio di 2 pagine» (Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra, Bari, Laterza, 1973, p. 170).

Sta scritto di un corso di formazione per segretarie sociali organizzato dall’Istituto Italiano per l’Assistenza Sociale a Milano in via Piatti, 4 diretto da Paolina Tarugi (Alice Salomon, Die Ausbildung zum sozialen Beruf (la formazione per il servizio sociale), Berlin, C.H.Verlang, 1927, p. 303).

“L’assistenza sociale nell’Italia fascista è organizzata su un principio fondamentale: l’individuo è considerato una cellula del vasto e complesso organismo sociale della nazione, e il capitale umano rappresenta la potenza economica, spirituale e produttiva della nazione. Per chiarire l’espressione capitale umano bisogna considerare che ogni vita umana è di per se un capitale il cui valore è costituito, in un primo tempo da ciò che ciascun individuo, a cominciare dalla nascita, costa alla famiglia, alla società, alla nazione, per vivere , per svilupparsi, per istruirsi. Tutta questa spesa è, per così dire, un prestito fatto dal capitale sociale all’individuo il quale ha la possibilità di restituirlo quando comincia a raccogliere i frutti del proprio lavoro” (Pittini F., Manuale di assistenza sociale, Roma, Ed. italiane, 1942, p. 37).

“Tale organo (l’ECA) è stato creato con L. 3 giugno 1937 allo scopo di alleggerire il Partito da una serie di compiti assistenziali precedentemente da esso svolti, a mezzo dell’Ente Opere Assistenziali (…) al Partito è rimasto soltanto il funzionamento delle colonie climatiche” (Pittini F., Manuale di assistenza sociale, Roma, Ed. italiane, 1942, p. 47).

“È raro che l’assistente sociale visitatrice sia chiamata a svolgere la sua opera alle dipendenze degli Uffici di Assistenza dei Sindacati perché per ovvie ragioni, a questo compito sono destinate le assistenti sociali” (Pittini F., Manuale di assistenza sociale, Roma, Ed. italiane, 1942, p. 301).

“Dal 1935 la CGFII e i lavoratori dell’industria hanno istituito, con il concorso dell’INPS, un servizio sociale presso alcuni sanatori” (Pittini F., Manuale di assistenza sociale, Roma, Ed. italiane, 1942, p. 302).

“Anche nei grandi centri dove è organizzato il servizio domiciliare di condotta, l’opera dell’assistente sanitaria visitatrice adibita al servizio sociale ospedaliero non costituirebbe un duplicato, in quanto buona parte della popolazione che affluisce negli ospedali non è la stessa che già si trova sotto la vigilanza de servizi sanitari sociali; per giunta l’ Assistente sanitaria visitatrice destinata al servizio rionale, difficilmente segue il suo assistito mentre è ricoverato in ospedale. Quindi sarebbe anzi opportuno stabilire un collegamento fra colleghe” (Pittini F., Manuale di assistenza sociale, Roma, Ed. italiane, 1942, p. 330).

“In Italia, dove da 30 anni sono iniziati studi in proposito, funzionano alcuni centri di orientamento professionale; primo quello istituito al Governatorato di Roma. Sotto l’egida del Ministero dell’Educazione Nazionale si svolgono da alcuni anni in parecchie città d’Italia brevi corsi formativi di orientamento professionale destinati ad insegnanti e capi d’azienda che potrebbero essere seguiti anche da AASSVV (…) è dacché i medici scolastici dovranno interessarsi della valutazione individuale per avviare i giovani al futuro lavoro anche l’Assistente sanitaria visitatrice non potrò rimanere estranea all’argomento” (Pittini F., Manuale di assistenza sociale, Roma, Ed. italiane, 1942, p. 332).

“D’altra parte, fra assistenza e beneficenza può stabilirsi una differenza di caratteristiche giuridiche e sociali che è la seguente: beneficenza, elemosina, traggono la propria origine nel sentimento spontaneo di carità, di generosità, che non sempre è efficace e che spesso è amaro e poco decoroso invocare. L’assistenza invece è una pubblica funzione dello Stato e degli enti pubblici, prima che dei privati benefattori. Pertanto l’assistenza ha un carattere di conforto morale, di aiuto impegnativo e continuativo, di pubblica solidarietà che risponde ai principi dello Stato moderno, espressi nella Carta del lavoro. Ciò spiega di come la nuova denominazione di assistenza non sia puramente formale” (La Torre M., La nuova legge sull’ECA: 03.06.1937 n. 847, 1937, pp. 15-16).

Nel 1935 risultavano 7300 Congregazione di carità per un valore patrimoniale di 600 milioni di lire, 2500 asili infantili per un valore patrimoniale di 400 milioni di lire, 700 Orfanotrofi per un valore patrimoniale di 750 milioni di lire, 900 Ricoveri per un valore patrimoniale di 1000 milioni di lire, 1350 Ospedali per un valore patrimoniale di 3000 milioni di lire, 250 Monti di pegni per un valore patrimoniale di 70 milioni di lire, 9000 altre opere pie per un valore patrimoniale di 2680 milioni di lire. In totale circa 22000 enti di assistenza per un totale di 8500 milioni di lire.

Nel 1935 il Ministero dell’Interno, su cui ricadevano le competenze di assistenza sociale, erogava: 100.000.000 milioni di lire all’Onmi, 2.475.000 ai consolati italiani all’estero, 4.300.000 agli inabili del lavoro, 13.086.000 per altre opere pie.

“Il RD 30.12.36 n. 2171 istituiva un’addizionale su talune imposte erariali per fini di assistenza sociale” (La Torre M., La nuova legge sull’ECA: 03.06.1937 n. 847, 1937, p. 29); si tratta del primo tentativo di fiscalizzare gli oneri sociali così come avvenne negli anni ’60.

“Essi (gli ECA) sono enti morali, di carattere pubblico autarchici (…) cioè persone giuridiche pubbliche. Hanno un proprio patrimonio, propri scopi, propri organi e sorgono con riserva di legge” (La Torre M., La nuova legge sull’ECA: 03.06.1937 n. 847, 1937, p. 30).

Un’altra differenza con le Congregazioni di Carità sta nella composizione del comitato direttivo: prima era elettivo e variava in base agli abitanti della Provincia, invece nell’Eca è nominativo scelto dal Prefetto sulla base delle rappresentanze produttive con alla presidenza il sindaco-podestà (La Torre M., La nuova legge sull’ECA: 03.06.1937 n. 847, 1937, p. 39). Nel CdA sono ammesse le donne con diritto di voto appartenenti ai fasci femminili (Id., p. 44). Eccetto il medico, il personale retribuito può essere assunto anche senza concorso e che i contributi previdenziali sono per gli enti più importanti” (Id., p. 103).

« Nel secondo volume di un mio recente studio “Assistenza e previdenza” ho sostenuto, trattando del servizio sociale, la necessità di coordinare tutte le attività assistenziali per trarre i maggiori benefici dai mezzi che sono attualmente a disposizione dell’assistenza e per indirizzare un’opera così complessa e importante nella vita nazionale secondo criteri e sistemi unitari.
(…) Di un coordinamento col termine di “servizio sociale” ci hanno parlato la Federazione delle Mutue e il Commissario per l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, ma il problema è più vasto e complesso, e ci pare che una spinta verso una soluzione integrale possa essere rappresentata dalla nomina recente di una Commissione per l’assistenza, avvenuta in seno al Consiglio delle Corporazioni, secondo il decreto del 12 dicembre u.s., con il compito di:

a) esprimere pareri sulle riforme da apportare alla legislazione di tutela e disciplina del lavoro, di assistenza e previdenza sociale e della cooperazione e sulle altre questioni relative a detta legislazione;
b) esprimere pareri sui problemi riguardanti il lavoro, l’assistenza e la previdenza sociale e la cooperazione, nonché sugli altri problemi dei quali sia affidato lo studio e l’esame preventivo alla Commissione stessa, ai sensi dell’art. 31 delle norme di attuazione della legge 20 marzo 1939 n. 206;
c) esprimere il suo parere sulle questioni trattate dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e da altri enti internazionali quando interessino il lavoro, la previdenza e l’assistenza sociale e la cooperazione, ed inoltre sui progetti d’accordo con gli altri Stati, riguardanti le materie predette.

Per la trattazione dei problemi che rientrano negli altri Dicasteri, sono chiamati a partecipare ai lavori della Commissione:

  1. il capo dell’ufficio legislativo presso il Ministro di Grazia e Giustizia;
  2. il direttore generale dell’Amministrazione civile;
  3. il direttore generale della Sanità pubblica;
  4. il direttore generale dell’istruzione tecnica;
  5. il rappresentante del R.Governo nel Consiglio di Amministrazione dell’UIL e il suo supplente;
  6. i membri italiani, patronati ed operai, nel Consiglio di Amministrazione dell’UIL» (Fantini O., L’organo di coordinamento per un’assistenza unitaria, “Echi e commenti”, 1933, 5 marzo, pp. 251-52).

Oltre alle riviste ed ai periodici, un’altra fonte importantissima per il servizio sociale è rappresentata dagli annuari e dalle raccolte archivistiche delle imprese e dei consorzi di aziende.

«Ad un’assidua opera continua, che si svolge giorno per giorno e quasi ora per ora, sia fra gli operai stessi che fra le loro famiglie, è specialmente dedicata l’assistenza sociale.
La creazione del servizio di Assistenza Sociale quando già erano in atto da tempo le più cospicue istituzioni del Regime intese ad elevare materialmente e moralmente la classe lavoratrice del popolo italiano, poté sembrare al primo sorgere qualcosa di superfluo. Sfuggiva evidentemente il vero significato del servizio sociale: in molti il suo nome, pur così preciso ed insostituibile, richiama l’idea di un’affinità con le istituzioni di beneficenza, il cui compito si esaurisce spesso nello sterile aiuto del momento.
Ben diverso invece è il compito dell’Assistenza sociale di fabbrica che è costituito da due punti essenziali: da un lato sollevare col continuo apostolato il morale dell’operaio, dando a lui la sensazione più precisa di sentirsi vegliato dal Regime; dall’altro completare il programma delle istituzioni a favore del lavoratore, facendo sì che questi possa utilmente servirsene, dal momento che non sempre un operaio – anche il più intelligente – è in grado di farlo da sé o addirittura di conoscerle.
(…) Nel 1929 il servizio sociale veniva istituito a Napoli in sette volenterose aziende: Ilva, Miani e Silvestri, Jutificio, Saffa, Montecatini, Italo-Americana e Seta artificiale. Il numero degli operai assistiti era 4110. Dopo un primo periodo di esperimento e, quindi, di necessaria stasi, l’Ufficio centrale della Confederazione generale degli industriali richiamava l’attenzione sulla sede di Napoli e ne promuoveva lo sviluppo attraverso un’assidua opera illustrativa e di propaganda. Sensibili effetti si ebbero nel 1937 con l’aumento delle aziende. Attualmente si ha l’adesione di ben 36 aziende, con un numero di assistiti che supera i 35.000. Cifra questa che può dare adeguatamente l’idea dell’importanza e dell’estensione del servizio sulla popolazione operaia, solo se si tien presente che in esse sono calcolati i lavoratori e non i familiari di questi, ai quali invece il servizio sociale anche si estende con particolare attenzione.
Ma c’è di più. Se da una parte aumenta il numero di richieste di assistenza in proporzione alla maestranza che ne può beneficiare e questa forma di attività acquista sempre maggiore prestigio e rivela il suo vero carattere delicato e pronto, d’altra parte alla comprensione degli industriali succede d’ora in ora l’entusiasmo che li porta a richiedere l’intensificazione del servizio sociale nell’ambito della propria azienda.
I felici risultati conseguiti inducono a ritenere non lontano il tempo in cui non vi sarà più nella provincia una grande e media azienda industriale che non senta la necessità di avere a collaboratrice l’Assistente Sociale » (Annuario industriale della Provincia di Napoli, Napoli, Tip. Giannini, 1939, pp. CCXII-CCXIII).

Una considerazione a parte meritano le recensioni, che rappresentano un genere letterario non sempre ricercato ma che, nel nostro caso, rappresenta senza dubbio un prezioso contributo per l’evidenza storiografica.

«Le istituzioni aziendali, l’ambiente del lavoro con le sue caratteristiche, costituiscono l’attrezzatura entro la quale l’assistenza di fabbrica deve trovare lo stimolo per alimentare l’efficienza delle disposizioni e renderle consone alle loro finalità. Occorre quindi considerare l’ambiente dei lavoro, ai pari di quello familiare come un elemento decisivo della costituzione psico-fisica del lavoratore, e cogliere – in esso – all’origine, le cause che verranno più tardi a perturbare l’equilibrio individuale. L’intuizione dell’assistente di fabbrica, intuizione affinata dai rapporti con le maestranze, con i servizi igienici e sanitari, con gli ambienti direttivi ed i reparti del lavoro, orienterà le sue attribuzioni inizialmente generiche, in compiti ben definiti nell’ambito della fabbrica stessa.
Occorre quindi stabilire i rapporti del servizio sociale con le altre istituzioni, e precisare in adattamenti eri accorgimenti pratici le sue funzioni. Inoltre, le prestazioni di ordine pratico per la tutela del produttore, ed anche i fini utilitaristici dell’economia industriale, non dovranno mai far passare in secondo piano le finalità spirituali del servizio. È noto che i vari accorgimenti si rivolgono all’uomo, nel suo complesso fisiologico come nei suoi aspetti morali eri intellettuali; l’assistente deve quindi concorrere alla comprensione ed interpretazione della personalità umana del lavoratore, nei confronti dei dirigenti. Le istituzioni, i servizi stabiliti per alleviare i disagi dell’operaio, le molteplici « pratiche » con cui si cerca di armonizzare i suoi interessi nella giustizia, di sanare situazioni anormali in rapporto a vari rischi dell’esistenza, non possono essere considerati fine a se stessi. Tutti questi mezzi non sono che lo strumento attraverso il quale l’individuo dovrà poter edificare il proprio organismo fisico, morale, intellettuale. L’empirismo inerente al servizio non dovrà far dimenticare il più alto fine che sta nel promuovere l’adattamento dell’individuo alle sue mansioni, sia orientandolo verso il campo ricreativo ed educativo, sia concorrendo a migliorare la vita familiare del lavoratore.
Nel far fronte alle varie necessità non si dovrà né favorire la passività dell’individuo, né paralizzare il suo spirito di iniziativa. Evitare, insomma, l’errore della pura e semplice «distribuzione di munificenze» tanto radicate nelle consuetudini perché rispondente ad uno stimolo puramente sensibile, ma sollecitare, invece, la partecipazione dell’assistito a tutte le manifestazioni che possono suscitare in esso lo spirito di emulazione, il desiderio di progredire, di istruirsi, di prodigarsi nei limiti delle sue attitudini. Farlo diventare consapevole della sua parte nella società e nell’ordinamento economico, e cosciente di quella unità di interessi e di valori che è lo scopo e la base dello « Stato corporativo ».
Le manifestazioni assistenziali, educative, ricreative, vengono a creare, nell’ambito dello stabilimento aziendale, un’attività eminentemente spirituale che si ispira al principio della collaborazione.
(…) Non basterà, all’assistente di fabbrica, un semplice corredo dottrinale di nozioni acquisite, ove manchino quelle facoltà ed attitudini che la renderanno pienamente cosciente dell’importanza della sua missione, specie se la sua attività verrà circoscritta entro i limiti di un unico organismo aziendale, l’Assistente, attraverso i rapporti continuativi con uno stesso ambiente, diventerà veramente lo strumento misuratore dei bisogni, l’interprete delle esigenze della massa umana affidata alle sue cure.
Tenuto conto dei nuovi orientamenti scientifici del servizio sociale, e compresa la necessità di trasporre le enunciazioni della dottrina fascista nella prassi, che si fonda sulla comprensione dei singoli problemi psicologici, l’Assistente sociale potrà assumere l’atteggiamento più opportuno nelle diverse verifiche che si presentano ai quotidiano esercizio del suo compito.
Tale, in sintesi, le conclusioni della Grossmann, che, nella sua qualità di dirigente del servizio assistenziale presso la Confederazione Industriali, ha saputo trarre dalla conoscenza pratica acquisita, e dalle osservazioni fatte nei vari stabilimenti italiani, tale esperienza da poter indicare alle proprie collaboratrici, compiti e mete, pericoli e realizzazioni. Ed in tale utilità intrinseca la bellezza della sua missione» (Pistolese G.E., Recensione su “Margherita Grossmann, Aspetti dell’assistenza sociale di fabbrica, Ed. «La Difesa della Stirpe» Roma, 1939-XVII”. In “Bibliografia fascista: rassegna mensile del movimento fascista in Italia e all’estero”, 1940, pp. 767-769).

Un altro campo di applicazione del servizio sociale fu nella rieducazione dei minori delinquenti (Eula E., Una nuova missione della donna fascista, “Echi e commenti”, 1939, 25). A tal proposito, presso ogni Tribunale per i minorenni in base alla L. 20.07.1934 n. 1404 art. 23, era custodito un registro di istituti di assistenza e delle persone benemerite che si fossero dichiarate disponibili all’assistenza ed all’educazione dei minori sottoposti a libertà vigilata (Novelli G., La rieducazione dei minorenni dal punto di vista scientifico, sociale e giuridico, “Rivista di diritto penitenziario”, 1938, 2, pp. 223-262). In altri casi i minori prosciolti per incapacità d’intendere e di volere erano destinati ai riformatori giudiziari, mentre quelli condannati in via definitiva erano destinati alle carceri giudiziarie minorile, es. Sant’Eframo a Napoli (Novelli G., Il primo esperimento delle misure amministrative di sicurezza in Italia, “Rivista di diritto penitenziario”, 1937, 1, pp. 17-48).
L’amministrazione penitenziaria investì molte risorse per il recupero dei detenuti introducendo la psicotecnica nel lavoro penitenziario al fine di favorire la scelta e l’orientamento professionale, risolvere i problemi della fatica e del lavoro mentale, valutare la personalità del condannato, adattare il nuovo giunto ed incentivarlo al lavoro (Banissoni F., La psicotecnica del lavoro negli istituti di prevenzione e di pena, “Rivista di diritto penitenziario”, 1936, 2, pp. 229-239); rispetto a ciò che avveniva nei paesi d’oltralpe e d’oltreoceano, il Fascismo proibì severamente le pratiche di sterilizzazione dei delinquenti (Ottolenghi S., La sterilizzazione del delinquente, “Pro Juventute”, 1935, 4; Ilvento A., Sterilizzazione eugenica?, “Forze sanitarie”, 1935, 4). Negli Stati Uniti d’America furono compiute circa 9000 pratiche di sterilizzazioni tramite la recisione dei dotti deferenti nell’uomo e delle tube di Falloppio nelle donne (Patini E., Recensione su Gosney E.S., Popende P., Sterilization for human bettmerment, NY, McMillan, 1929. In “Rivista di diritto penitenziario”, 1930, 1). Le misure di sicurezza detentive consistevano nella facoltà da parte del giudice di sorveglianza di inviare i detenuti presso una colonia agricola o in una casa di lavoro (assistenziario) o al ricovero in una casa di cura o in un ospedale psichiatrico giudiziario o in un riformatorio (L.C., La discussione al Senato del Disegno di Legge sulla riforma penitenziaria, “Rivista di diritto penitenziario”, 1931, 6, pp. 1471-96).

Il governo adottò un sistema per l’affido dei minori secondo quanto stabilito dal primo libro del codice civile già approvato nel 1939 (riformato poi dalla L. 184/83) in base al quale lo Stato prevedeva che un minore, qualora i genitori non si dimostrassero in grado di accudirlo, fosse accolto in istituto o affidato a persone di fiducia: se dopo tre anni dall’affidamento, si provava che l’affidatario avesse compiuto il proprio dovere educativo, si consentiva a dichiarare “l’affiliazione” (art. 401) per il quale il giudice poteva stabilire la revoca o la proroga dopo il compimento dei 18 anni o con il suo parere dopo i 21 anni (Azara A., L’inquadramento giuridico della famiglia nello Stato fascista secondo il nuovo codice civile, 1939, “Rivista di diritto penitenziario”, 1939, 2, pp. 357-278).

«Molto si parla e si scrive oggi del servizio sociale; ma non sempre se ne comprende l’intimo spirito e il significato essenziale.
Infatti, la parola « servizio » richiama alla mente il pubblico servizio, cioè un complesso di organi aventi una medesima funzione da svolgere. « Servizio » fa, pensare ad organizzazione, a uffici con archivi, a pratiche e protocolli, a norme di leggi e a regolamenti, e pertanto si pensa che il servizio sociale voglia « procedere sulle masse e non sugli individui, si pensa che « l’agente statale » non possa penetrare nei « meandri della vita » e alla mente si affaccia l’immagine di un organismo che a somiglianza di ciò che è l’Alto Commissario per il turismo sia una specie di direzione generale del servizio sociale.
(…) Così inteso il concetto di servizio sociale gravita attorno a due poli: la personalità dell’individuo e la società; e non può quindi essere disgiunto né dalla persona che lo esercita né dai principi generali, gli scopi collettivi a cui tende e in cui si incastona.
Il servizio sociale, secondo la definizione di Mary Richmond, consiste di quei provvedimenti che sviluppano la personalità mediante l’adattamento, convenientemente effettuato per ciascun individuo, dell’uomo al suo ambiente sociale.
Ma la personalità vive e si espande nel modo migliore nel suo ambiente, dall’atmosfera che la circonda, di cui risente tutte le influenze e su cui esercita a sua volta un’azione diretta.
Ecco perché il servizio sociale non ha potuto né voluto prescindere mai dalla famiglia.
Anche la protezione e l’assistenza della famiglia è oggi un’espressione che corre sulla bocca di tutti, che si sente ripetere sulle riviste e sui giornali, senza che però alcuno sia .ancor penetrato nel profondo significato di questo che è un programma e un compito arduo. Si pensa, in generale, alle norme dcl diritto penale che puniscono chi attenta alla integrità della famiglia; alle esenzioni fiscali concesse alle famiglie numerose, alla protezione delle madri e dei bimbi ma tutto questo al solito come organizzazione, come provvedimenti generali e quindi schematici e dei quali molte volte le famiglie che potrebbero valersene non sono e non possono essere a conoscenza.
Nessuno pensa al servizio sociale della famiglia come opera di educazione, di consulenza e di tutela, ma svolta da una persona che sia preparata a questo compito e che lo eserciti professionalmente, cioè con continuità e completa dedizione di sé, in una determinata circoscrizione territoriale.
Ed è questo servizio sociale in rapporto alla famiglia che ha costituito il programma e il contenuto del recente congresso Internazionale del servizio sociale (Francoforte 10-15 luglio 1932). Mentre il 1° Congresso tenutosi a Parigi nel luglio 1928 rappresentava sopratutto uno spiegamento delle forze del servizio sociale di tutto il mondo e doveva avviare i «Social Worker » a conoscersi, a intendersi, a imparare gli uni dagli altri e ad unirsi, questo Congresso doveva approfondire e studiare da tutti i punti di vista il tema centrale del servizio sociale, il problema basilare dell’oggi: la famiglia.
Anche la famiglia è uno dei temi all’ordine dei giorno; se ne parla per constatare che essa va disgregandosi, va perdendo le caratteristiche tradizionali che la rendevano così salda e forte; onde da alcuni si afferma la necessità di far di tutto per ricondurla all’adempimento dei compiti, che leggi naturali e civili, morali e religiose le posero: mentre da altri se ne deduce che la famiglia è un’istituzione superata, destinata a cedere il posto a forme di vita e di organizzazioni sociali più rispondenti ai tempi nostri.
Per discutere di una questione bisognerebbe conoscerla: conosciamo noi veramente la famiglia, sappiamo noi in che cosa consiste, come si svolge la vita di questo organismo che cela un suo intimo essere agli sguardi degli estranei, la cui essenza è un mistero a quegli stessi che ne fanno parte e contribuiscono alla formazione di quel « quid » indefinibile ed inafferrabile che è l’anima: l’atmosfera famigliare o spirito di famiglia?
Abbiamo statistiche dettagliate dei matrimoni si rapporto alla età e alla professione dei coniugi, al loro grado d’istruzione, al prezzo all’ingrosso del ano; statistiche della natalità legittima e illegittima, della mortalità, delle separazioni coniugali, della frequenza di certi delitti e da tutte queste espressioni schematiche e generali tanto da divenire talvolta astratte, noi cerchiamo di dedurre qualche conclusione sulla vita di famiglia, sulla moralità dei suoi membri e così via. Ma anche questi studi non fanno che girare attorno al punto cardinale, non ci rivelano che alcune linee generali su cui tutto ancora sarebbe da costruire.
Per conoscere da vicino e nella stia realtà palpitante la vita della famiglia, il metodo principe è quello delle monografie, dello stadio intensivo dei casi tipici, mediante accurata e prolungata osservazione, metodo messo in onore dal «Le Play», fiorito per alcuni anni e poi caduto in oblio, e recentemente ripreso con una serie di interessanti pubblicazioni dalla « Akademie fur soziale und padagogische Frauenarbeit » (Berlino).
Se la monografia studia da vicino in tutti i suoi particolare la vita di alcune famiglie, la inchiesta sociale, la indagine personalmente e intensamente condotta in tutto un quartiere fa conoscere le famiglie non soltanto come organismi isolati, ma quel che più importa, nei loro reciproci rapporti, volontari e involontari. Fa conoscere un « vicinato» e quindi illumina più chiaramente le influenze che operano su ciascuna famiglia. La grandiosa inchiesta sulle condizioni di vita della popolazione londinese fatta da Charles Booth nel 1886 e ripresa oggi nella stessa Londra da una schiera di demografi e sociologi (The new Survey of London life and labor, v. I. Forty years of change, London, 1930), ha avuto anche presso di noi una felice, applicazione, purtroppo rimasta senza imitatori, di Paolo Orano: « Come vive il popolo a Roma ». Per studiare la vita di un quartiere popolare, il Testaccio, egli vi si era insediato, ben sapendo che soltanto con la partecipazione spontanea, naturale e continua alla vita del popolo nel proprio ambiente, la si può conoscere e comprendere. E soltanto vivendo con il popolo e in mezzo al popolo, condividendone la vita, lo si può capire, aiutare e sollevare. Questa la convinzione, confermata poi dalla esperienza di decenni, dei pionieri di Toynbee Hall (il primo « Settlement » fu istituito nel 1884 a White Chapel, il più orrido « slum » di Londra, dal Reverendo Canon Barnett, da sua moglie e da alcuni idealisti; e ”to settle” vuol dire in lingua inglese stabilirsi, fissarsi, onde ”settlement” è residenza, colonia). Nei loro concetti fondamentali i « bonificatori » dell’Inghilterra e dell’America; del Belgio, della Francia e della Germania, là dove si sono diffuse le dozzine di « settlement », si sono ispirati, e ispirano, ai a « Social case workers », coloro cioè che svolgono nel popolo il servizio sociale del caso individuale della famiglia.
(…) « Gli esseri umani sono interdipendenti » con le parole di Miss Mary Willcox Glenn (Bulletin International du Service Social, n. 3) « e la famiglia meglio organizzata è quella che promuove, nel modo migliore la personalità dei suoi membri; e la personalità si sviluppa mediante lo giuste relazioni con la società. L’arte del servizio sociale consiste nel saper scoprire e assicurare all’individuo, le relazioni sociali migliori possibili. Ma gli esseri umani sono differenti gli uni dagli altri; bisogna trovare i provvedimenti per offrire aiuti diversi a ciascun individuo (principio della individualizzazione). Gli esseri umani non sono animali dipendenti e domestici; onde deriva la necessità che ciascuno deve partecipare alla elaborazione e all’attuazione del progetto per il proprio risollevamento. Gli individui hanno le loro volontà e non sono fatti per avere una parte passiva nel mondo: essi si guastano, se questo avviene (principio della compartecipazione dell’assistito all’opera del proprio risanamento). Per attuare questi metodi, per applicare questi principi, per perseguire questi scopi è sorto il servizio sociale professionale. « Questa professione è ardua; essa pone al di sopra di ogni azione pratica, il più elevato sforzo intellettuale di cui il lavoratore sociale sia capace, poiché i suoi contatti con la parte umana della vita sono caldi continui e ricchi di ricompensa, operando con riverenza istintiva per la personalità e con caldo umano interesse per il popo1o, la personalità stessa del lavoratore sociale si sviluppa. Così il servizio è reciproco ».
Questi principi proclamati in forma diversa — sotto diversi punti di vista e partendo da presupposti ambientali e spirituali diversi — ma aventi in comune l’essenza e il significato, sono il frutto dell’esperienza fatta nella beneficenza, nell’assistenza sanitaria, nella previdenza sociale — esperienze che inducono alla stessa conclusione: al riconoscimento, cioè, della necessità del servizio sociale basato sulla ricerca delle cause e sulla diagnosi del singolo caso sociale, condotto con metodo finemente individuale, adatto di volta in volta alle singole esigenze; elaborato ed attuato con il consenso, la partecipazione e la collaborazione attiva del « cliente ».
La beneficenza sì limita al soccorso immediato, temporaneo, alla concessione di elemosine, sussidi, in denaro e in natura, distribuiti secondo il criterio personale del benefattore o secondo l’impulso sentimentale del momento; quindi, creando le condizioni favorevoli, coltiva e mantiene la miseria (come lo sperimentatore prepara e conserva le colture di bacilli in terreno adattò), sperpera improduttivamente i mezzi, frazionandoli in piccoli sussidi saltuari, insufficienti e male impiegati.
L’assistenza sanitaria — anche quella più moderna e perfezionata — sono parole del Direttore dei servizi sanitari della città ai Birmingham (Bullettin international du Service Social, n. 5) che considera unicamente la parte sua, biologica della personalità umana e quindi ha valore solo in quanto, curando, proteggendo e preservando la salute fisica dell’individuo, ne libera le forze e lo mette in condizione di poter concentrare le sue energie su scopi più elevati. L’assistenza sanitaria profilattica e curativa non può raggiungere lo scopo completo della bonifica integrale dell’individuo — se non con l’aiuto del servizio sociale educativo, che guida le energie così liberate a dirigersi verso finalità socialmente utili e proficue.
La previdenza sociale dovendo operare sulle masse, basandosi sulle statistiche dei grandi numeri, e essendo per necessità generale e uniforme, è schematica e livellatrice e deve quindi — come osserva Alice Salomon nel suo studio sui « Metodi individualistici e schematici dell’assistenza » (Le assicurazioni sociali, 4, 1930) — esser corretta e integrata dal servizio sociale del caso individuale.
Ancora una volta a Francoforte i lavoratori sociali, convenuti da ogni parte del mondo hanno ribadito questi concetti fondamentali, ne hanno riaffermato la necessità e l’utilità, hanno cercato di perfezionarli, di adattarli alle esigenze particolarmente difficili di questo periodo di crisi e di disoccupazione, nel quale il servizio sociale è la condizione imprescindibile per salvare la famiglia e per proteggere le nuove generazioni.
I mezzi di aiuto sono scarsi e vanno sempre diminuendo: più forte che mai quindi il bisogno di adoperarli con parsimonia e soltanto in quel modo che ne garantisca il massimo rendimento.
Come il capo intelligente di un’azienda in pericolo cerca di perfezionare i metodi di produzione, di ridurre al minimo i costi e di migliorare i prodotti, valendosi di tecnici altamente qualificati, così i capi delle organizzazioni di tutto il mondo, i dirigenti degli organi assistenziali dello Stato, gli esperti più di atti e più colti, sono d’accordo nel proclamare l’urgenza di migliorare e approfondire la preparazione tecnica dei personale del servizio sociale per affidare soltanto ad esso i delicati compiti di protezione e assistenza sociale (Fanny Dessau, La famiglia e il servizio sociale, “Maternità ed infanzia: mensile dell’Opera Nazione Maternità ed Infanzia”, 1932, 8, pp. 736-744; cfr. Fabbri S., Il servizio sociale dell’Onmi, “Maternità e infanzia”, 1932, 11-12, pp. 464-465).

Maria De Benedetti, Federica Pittini, Assistenza sanitaria sociale, 1959:

Il concetto di assistenza fu introdotto da Cesare Correnti nel 1848. l’introduzione del termine “servizio” avvenne su emulazione degli stranieri (Di Benedetto M., Pittini F., Assistenza sanitaria sociale, Roma, Armando, 1959, p. 2). Si parla del data base comunale “i tentativi di collaborazione tra le varie istituzioni sono state risolte in America mediante l’introduzione di un centro di informazioni sociali”(Id., p. 42) presso il quale è ubicato un “schedario centrale” con tutte le cartelle. Sta scritto che “l’uguaglianza è una somiglianza nella quale spiccano le diverse necessità” (Id., p. 52)

Durante il fascismo il sistema sanitario era costituito dalla Direzione Generale della sanità pubblica alle dirette dipendenza del Consiglio dei Ministri. Sono elencate l’Istituto superiore di sanità con competenze e tecniche e il Consiglio superiore di sanità con funzioni consultive che è formato dai prefetti per ogni provincia. A un livello inferiore vi sono le Province dirette dal Prefetto che si avvale della collaborazione di un medico provinciale nel laboratorio d’igiene e profilassi e di un consiglio provinciale sanitario. L’ultimo livello è rappresentato dal sindaco e dall’ufficio d’igiene. Sono elencati una serie di requisiti per accedere alla professione di assistente sanitaria visitatrice (Id., pp. 68-71):

  • organi in buone condizioni
  • sensi raffinati
  • perfetto equilibrio fisico-mentale

Accanto a questi requisiti fisiologici sono indicati anche quelli morali:

  • Responsabilità professionale: l’assistente sanitaria visitatrice non sempre ha l’appoggio di qualcuno, spesso si ritr5ova a dover prendere decisioni da soli cercando di conciliare il tempismo con la determinazione ma soprattutto non si deve mai dimenticare il bene comune, l’entusiasmo della professioni e l’onesta della norma.
  • Spirito di abnegazione: nulla è possibile senza sacrifici, al di là del carico di lavoro individuale e delle condizioni sociali degli utenti
  • Ordine e disciplina: sono indici d’ordine la scrittura chiara, lo zelo nel compilare le schede di riepilogative, il modo di vestirsi possibilmente in divisa, sono da abbandonare i modelli basati sull’organizzazione scientifica del lavoro, poiché è impossibile ottenere il massimo risultato col minimo sforzo, piuttosto è da prediligere il senso di obbedienza e di rispetto per la gerarchia, nonché la puntualità degli orari
  • Osservazione: attingere ogni particolare durante lo svolgimento del proprio lavoro al fine di realizzare dei rendiconti ordinati per il miglioramento del metodo
  • Iniziativa: tempestiva nel superare gli imprevisti, prudente nel mantenersi nei limiti organizzativi
  • Tatto e discrezione: evitare pettegolezzi, spirito di collaborazione coi colleghi ma soprattutto cogli utenti per carpire informazioni ai fini dell’ananmesi
  • Sociabilità e socievolezza: con la prima si intende la capacità di esprimersi e di parlare un buon italiano e possibilmente anche una lingua straniera, la seconda indica la capacità nel dare e provocare la collaborazione altrui.
  • Perseveranza: non deve mai venir meno la fede nelle opere e nei risultati anche se tendono a venire meno, senza nascondere le difficoltà, anzi mettendole in luce e chetarle, da non confondere con l’ottimismo che tende a offuscare i problemi
  • Umiltà: da non confondere col servilismo che porta all’acquiescenza degli eventi e alla passività, piuttosto l’umiltà stimola a non fermarsi alle apparenze e a riconoscere i momenti altrui e decidere di migliorarsi con la pratica dell’esempio.
  • Bontà d’animo: da non confondere il buonismo che prelude di indossare la maschera dell’ipocrisia, piuttosto deve riflettere il sentimento senza farsene trascinare, deve guardare al prossimo senza chiedere nulla in contropartita se non la giusta mercede che la professione richiede. Coltivare la propria sensibilità ad onta dei condizionamenti che tendono a riporre la maschera in volto.
  • Religione: “rende capaci di combattere le depressioni e gli scoraggiamenti suscitati dal contatto colle sofferenze umane” (Di Benedetto M., Pittini F., Assistenza sanitaria sociale, Roma, Armando, 1959, p. 70).
  • Amor di patria: riabilitare l’utente significa anche partecipare alla “grandezza della nazione e alla purezza della stirpe” (Ibidem)

Requisiti per le funzioni direttive:

  • Autorevolezza: passa attraverso l’obbedienza in quanto “nessuno può comandare con maggiore sicurezza di chi sa obbedire volentieri”, da non confondere con l’autoritarismo che tende a imporre la propria volontà trascurando quella altrui, piuttosto occorre incoraggiare, risvegliare le energie e le risorse latenti, stimolando gli altri a credere in se, non chiedendo ai propri subordinati nulla di più che siano disposti a dare, ma essendo sempre disponibili ad ascoltare gli altri pur dispensano qualche piccola cortesia al moneto opportuno; se servizi sociali si lascia in genere esercitare la professione di base per quattro anni in quanto si ritiene che difficilmente si può giungere al posto di comando, senza aver sperimentato tutte le fasi di lavoro.
  • Iniziativa: “l’esempio cioè accertato nella strategia militare, è alla base dell’ardore per la vittoria” (Di Benedetto M., Pittini F., Assistenza sanitaria sociale, Roma, Armando, 1959, p. 72).
  • Obiettività: capacità di rinunciare al proprio ego, informandosi sempre sulla controparte in caso di diatribe favorendo il contraddittorio e la riconciliazione, osservare la realtà empirica con oggettività.

“le prime scuole professionali furono per infermiere” (Di Benedetto M., Pittini F., Assistenza sanitaria sociale, Roma, Armando, 1959, p. 75) “ a Roma nel 1919 sotto l’egida del consiglio nazionale delle donne italiane per iniziativa di un gruppo di infermiere americane che aveva prestato assistenza in Italia durante la prima guerra mondiale in favore dei soldati feriti”(Id., p. 77) “a partire dal 1921 la scuola fu guidata dalla CRI” (Id., p. 77)

Il corso per assistenti sanitarie visitatrici aveva durata annuale e oltre alla disciplina teoriche conteneva anche un tirocinio pratico formativo. Gli insegnanti erano importati col concorso della facoltà di medicina e del personale della provincia. Il tirocinio serve a “rendersi conto del congegno del servizio” (Di Benedetto M., Pittini F., Assistenza sanitaria sociale, Roma, Armando, 1959, p. p. 78) oltre “a quale branca assistenziale preferirebbero dedicarsi le allieve” (Id., p. 28). Per accedere alla scuola sono stabiliti dei periodi di prova di 2 mesi durante i quali si cerca di fare una cernita tra chi manifesta “doti morali e spirituali”(Id., p. 79) e chi invece appartiene agli “spostati e agli scontenti della vita” (Id., p. 78). Le sessioni d’esame sono tre con una singolare novità: l’accesso agli esami estivi è consentito solo per chi ottiene la media 7/10 in tutte le materie,, ma per chi risultasse respinto in una o più materie è consentito il recupero autunnale. In ogni caso la media 7/10 è necessaria per conseguire il diploma, non si fa menzione di alcuna dissertazione orale o tesi o simili, il titolo dunque è assegnato ipso jure, mentre è obbligatorio l’esame di stato le cui tracce sono stabilite dalla direzione generale di sanità pubblica . l’esame di stato si rende necessario a fronte di tante scuole dislocate sulla penisola, ognuna con programmi d’insegnamento diversi.

Sta scritto “le allieve devono sentire abolita la cattedra che qualche volta distanzia non solo materialmente, ma anche spiritualmente e considerare la direttrice come una sorella maggiore” (Id., p. 80) questa alleanza cameratesca consente di vivere la scuola come “salutare per la vita e per la professione” (Id., p. 80)

De Benedetti, riprendendo la conferenza di Parigi del 1928, così definisce il servizio sociale “l’insieme degli sforzi aventi lo scopo di sollevare le sofferenze causate dalla miseria e riportare gli individui e le loro famiglie nelle condizioni normali di esistenza, sia con il servizio individuale, sia con l’azione legislativa collettiva, sia con le inchieste sociali” (De Benedetti M., Pittini F., Assistenza sanitaria sociale, Roma, Armando, 1959, p. 100).

“è stato detto che la forza di un popolo è l’educare gli individui nel dare una coscienza morale e nel creare una coscienza igienica. Cerchiamo con spirito di carità cristiana e di amore patrio di contribuire ad aumentare la forza del nostro popolo” (Id., p. 105)

Intervista è un “inchiesta verbale o orale” (Id., p. 153) che non rende ragione al corrispettivo inglese “interview”.

“fin dal 1923 per iniziative della CRI furono destinate assistenti sanitarie” nei rioni popolari delle città italiane tra cui Napoli” (Id., p. 171)

Tra i compiti dell’ECA c’era la distribuzione di “pacchi viveri, indumenti, contributi di affitto, medicine” (Ibidem)

Durante il Fascismo l’80% della popolazione viveva in zone rurali, il regime intendeva mantenere tale status quo in ragione della maggiore condizione morale in quanto “gli adulteri, gli abbandoni e le nascite illegittime sono minori che nelle città” (Id., p. 185)

L’Onmi offriva un premio di affiliazione che consisteva in soldi dati alla coppia sorteggiata che aveva preso in affido uno o più bambini (Id., p. 270)

Dopo il primo o secondo anno, il bambino abbandonato è dato in affido (affiliazione) o in adozione presso coppie o single. Previsto anche l’adozione all’estero, es. America. Dopo il 14 anno il fanciullo dell’istituto socio-assistenziale è riconsegnato alla famiglia d’origine o avviato al lavoro (Id., p. 271)

Caratteriali, eretistico, instabili, immorali, deboli fisici, distratti, classi differenziali, mentre quelli che dopo un periodo di osservazione sono riconosciuti recuperabili frequentano gli “asili scuola” (Id., p. 283)

Di Tullio ha fondato l’ENPFM nel 1944 che si occupava di minorenni “caratteriali” (con problemi disciplinari) tramite i centri provvisori di servizio sociale. Prendeva in carico i bambini dopo i sei anni dopo che erano stati allontanati dall’Onmi (Id., p. 301).

Circa le case di rieducazione sta scritto “in sostituzione dei vecchi sistemi repressivi, rigidamente disciplinari, che l’esperienza ha dimostrato essere controproducenti, sono strati applicati metodi ispirati alla psicologia e alla pedagogia” (Id., p. 313). È noto infatti che le case di rieducazione o di trattamento penitenziario per minori fossero presenti moto prima del Fascismo già all’epoca dell’introduzione del Codice Zanardelli nel 1889 ed è probabile che i metodi fossero molto più poveri ed essenziali rispetto al XX secolo.

Fin dal 1935 gli uffici distrettuali di servizio sociale ubicati nelle sedi di Corte di Appello presso il Tribunale per i minorenni si occuparono del servizio sociale per minori di condotta irregolare, ovvero abbandonati o fermati dalla pubblica sicurezza o comunque in attesa di provvedimento dell’autorità giudiziaria che era assolto e comunque non ritenuto socialmente pericoloso era affidato alle case di rieducazione tramite gli Udss, i più pericolosi invece erano relegati nei riformatori cioè il carcere minorile (Id., p. 313).

“Durante la grande guerra sorreggere moralmente e materialmente gli operai degli opifici, significava contribuire alla vittoria” (Id., p. 60).

Virginia Delmati, Ciò che ricordo, 1951:

Parlare del Servizio Sociale di Fabbrica in Italia è per me scrivere un capitolo di storia vissuta poiché ebbi la ventura di assistere, nel ’24, agli inizi di tale attività in Roma e, nel ’28, dopo il primo Congresso Internazionale di Assistenza Sociale a cui avevo partecipato, al suo inserimento ufficiale nella vita del Paese. Mi sembra che, a Roma, il Servizio Sociale, nel settore del lavoro, sia nato nel ’23 e ’24, con lo stabilirsi qui, per la prima volta nella grande industria, quando la mano d’opera, assorbita sin d’ora soprattutto nell’artigianato, non era facilmente reperibile in loco, e quella disponibile necessitava di un orientamento e di un appoggio per incanalarsi nel nuovo lavoro.
Fu allora ch’io vidi sorgere a Roma il primo servizio sociale con l’impianto delle attrezzature assistenziali della Viscosa, progettate e sollecitate dall’iniziativa intelligente ed ostinata dell’allora Don Ferdinando Baldelli, ardente seguace dell’opera sociale dei grandi vescovi lombardi Monsignor Bonomelli e Monsignor Scalabrini, apostoli degli operai. Egli seppe allora ottenere con il suo entusiasmo, dalla cortesia un po’ brusca e distratta, ma in fondo umana, del Barone Fassini, gradatamente attenzione, comprensione ed interessamento. Sorsero così, nel complesso dei nuovi edifizi costituenti lo Stabilimento di Prenestina, i padiglioni assistenziali dei refettori, dei convitti, degli spacci aziendali e della Cappella. L’inaugurazione dei refettori della Viscosa segna veramente una data d’inizio per l’assistenza di fabbrica. Fino ad allora gli operai romani, in generale, non avevano avuto l’opportunità di consumare un pasto caldo sul luogo del lavoro, al coperto, in un ambiente igienico, riscaldato. I nuovi locali divennero subito centro degli incontri, dei contatti, dei ritrovi, degli avvicinamenti, degli scambi di idee; il luogo ove nascevano le nostre amicizie con le maestranze, e dove, con la simpatia, nacque la nostra vocazione sociale.
I convitti furono qualche cosa di più; furono sino al 1943, il cuore della fabbrica, come le dinamo ne erano il polmone: ed il loro arrestarsi, infatti, fu coordinato e violento, come fra i due organi vitali; ma, grazie a Dio, temporaneo. I convitti introducevano un po’ di famiglia di cose semplici e umane nel travaglio della produzione meccanica; furono l’angolo della sosta nell’ansia della fatica. Non erano caserme, e la vita comunitaria in essi, non fu mai massiva, ma umana. C’era, tra l’altro in essi, anche il teatro, ove la domenica si proiettavano film, o si rappresentavano drammi, di sapore schiettamente popolare. Gli abitanti del quartiere vi si riversavano tutti, accanto ai convittori e convittrici e, platea e palcoscenico diventavano una cosa sola. La fusione era completa tra il pubblico, gli attori e l’autore, appartenenti tutti alla medesima classe, con il medesimo gusto ispirazione, emotività.
Di maggio i pini e gli oleandri dei viali ai convitti erano festonati a gala e, di sera, illuminati: processioni di operai al mattino sfilavano dietro la Madonna dello Stabilimento, rompendo poi le righe in una incontenibile gaiezza paesana, sostenuta dalle note sonore della banda, celebre anche per il lusso della divisa e dei berretti. Accordi di mandolini e di chitarra indugiavano nei giorni feriali, a spegnersi nelle camerate, nostalgiche di desideri di casa, di molteplice natura. Le ragazze arrivavano al Convitto di novembre già fidanzate e, in genere, se ne ripartivano a primavera, due o tre anni dopo con il baule del corredo, ricamato negli intervalli di lavoro, dovuto oltre, che alla loro buona volontà, anche a quella, più tenace, delle suore. Portavano via anche un libretto di risparmio, che Suor Caterina aveva custodito più gelosamente di qualsiasi tentazione, sino a quel giorno. C’era nel convitto femminile anche una scuola di canto e di ginnastica, oltre a quella di cucito e sartoria; ed anche, con sereno ardimento, la classe di danza ritmica, che si produsse ufficialmente più di una volta nelle grandi occasioni.
II Comitato di Monsignor Baldelli si occupò subito di scuola. È il primo tipo di Scuola di fabbrica ch’io conobbi, e mi pare, scorgendone il programma del ’28, di trovarla già adulta, concepita nei corsi di cultura generale, e di cultura professionale, che per le donne, era di economia domestica. La cultura generale comprendeva anche la scuola per gli analfabeti. Il primo direttore fu un sacerdote professore dell’Università di Roma; gli insegnanti volontari, parte laureandi esterni alla fabbrica, parte tecnici della fabbrica medesima. La scuola fu frequentatissima e rilasciava annualmente certificati che si distribuirono con gran solennità in fabbrica. Seguiva l’opera della scuola, una biblioteca circolante con un fondo di volumi filosofici, storici, romantici, tecnici e religiosi. Queste attività assistenziali culminavano nell’assistenza religiosa, la quale offriva all’operaio la possibilità di coltivare, liberamente la più preziosa sua ricchezza e dignità; quella dello spirito. Tale la prima assistenza di fabbrica che ho visto in atto nell’industria, alle iniziative della quale ho la gioia dì aver partecipato, facendovi le mie prime, preziose esperienze: ero la Segretaria dell’Onarmo.
Da Roma l’Onarmo si estese a Rieti, Padova, Bologna, Napoli, comprendendo sempre più larga cerchia di industrie, private e di Stato, a Carbonia, all’Arsia, a Genova, Torino, Venezia. Finché si trovo, nel’43, ad essere uno dei più grandi Enti di assistenza Sociale nel campo dell’industria e, come tale, ad essere considerato nel cruciale momento dell’ecatarsi, quando si distinse per gli eminenti meriti civili che acquisto nei confronti della Patria. La caratteristica principale di tale assistenza di fabbrica, che dura tuttavia fu, ed è, di convogliare, accanto al complesso delle forze meccaniche impiegate nella trasformazione della materia, la forza immateriale, ma potente, dello spirito, sviluppando, nei recinti della fabbrica una umana simpatia per i bisogni, le aspirazioni, le preoccupazioni degli uomini che vi lavorano, la cui persona non può mimetizzarsi con l’ambiente incolore e sterile, ma rimane viva ed è spesso tormentata.
L’intento fu di provare di alleggerire la fatica cooperando a trasformarla in una consapevole milizia umana e cristiana, utile e degna. I metodi furono e sono semplici: il contatto diretto, la fiducia, l’introduzione della “luce della Fede”, la dedizione di persona. Il personale che vi si impegnò fu un gruppo, in cui ha particolare rilievo la caratteristica figura del Cappellano del Lavoro, così coraggioso e semplice, e con lui, l’assistente sociale. Le realizzazioni furono pratiche e spirituali; furono utili e buone, e resero servizi molto importanti. Gli industriali dettero la loro comprensione e le possibilità materiali; ma lasciarono i1 rischio e la responsabilità a chi aveva ideato un lavoro così concreto ed ideale. Nel ’29 nacque l”Assistenza Sociale di Fabbrica” ed io ebbi l’onore di essere scelta per iniziarla a Roma, dalla Confederazione degli Industriali, che l’aveva assunta a modello in tutta Italia e che introdusse presso le Unioni Industriali di quasi tutte le provincie.
L’Assistenza Sociale di Fabbrica ebbe, sin dagli inizi, carattere proprio, diverso dai servizi sociali descritti. Fu improntata ad una precisa tecnica di orientamento e di collegamento del lavoratore all’organizzazione amministrativa, assicurativa, civica sociale del Paese. Era urgente portare l’operaio a godere praticamente delle sue competenze giuridiche, amministrative ed assicurative, che spesso egli ignorava. L’assistenza di fabbrica fu soprattutto un servizio specializzato di legislazione sociale applicata, caso per caso, da specialiste. Auspice la Confindustria nacque appunto nel ’29 la Scuola Superiore di Assistenza Sociale che si assunse il compito della preparazione delle assistenti sociali di fabbrica, soprattutto nella legislazione sociale, con programmi eminentemente giuridico sociali. Le Assistenti di fabbrica usarono per la loro tecnica uno “strumentario cartotecnico”, creato appositamente per il loro servizio dalla Dott.ssa Paolina Tarugi, alla quale si deve soprattutto la concezione e l’organizzazione del Servizio sociale di Fabbrica della Confindustria, e che già aveva attuato precedenti esperimenti, nell’immediato dopo guerra nel 20 e ’21 a Milano, per le donne impiegate nelle fabbriche ed a Terni.
L’assistenza Sociale di Fabbrica operò su di una casistica così ampia (in circa 1500 stabilimenti) da costituire, nelle assistenti più intelligenti, una non comune competenza. Non solo, ma tale competenza fu anche adoperata nello sviluppo dello jure condendo assicurativo ed assistenziale di quel periodo. Ricordo che la Dott.ssa Tarugi presentò, qualche tempo dopo l’istituzione degli assegni familiari, nel ’34, se non erro, all’Istituto di Previdenza Sociale una proposta di ampliamento della qualifica di “capo di famiglia”, attribuita alla donna lavoratrice. Proposta che fu accettata, e che era documentata su moltissimi casi, collezionati dalle assistenti sociali e dalle sue dipendenti. Essi dimostravano la necessità di estendere tale qualifica ad alcune categorie dimenticate dal decreto istitutivo, tra le quali, ad esempio, le mogli dei detenuti. Oltre al ramo assicurativo la consulenza si estese al campo amministrativo, civile e militare, tributario e para-giuridico. L’assistente divenne una sorta di vademecum vivente ad uso degli operai. Ma la tecnica giunse anche allora, naturalmente, al contatto personale, all’approfondimento del caso, e sboccò nella visita domiciliare. Adottò dunque i mezzi di una opportuna diagnosi solale. Nelle mani dell’assistente il documento sì animò molte volte. servì da testimonio vivo, benché in apparenza arido e quasi afferrabile, di una storia umana, significativa, che reclamava sostegno e comprensione.
Oltre al lavoro descritto le assistenti, soprattutto nei grandi complessi di lavorazioni delicate o pericolose, fiancheggiarono efficacemente il medico nell’azione di profilassi medico-sociale, in fabbrica ed a domicilio. Sempre l’assistenza rappresentò nei confronti della direzione, in maniera più o meno efficace, i bisogni degli operai. Nel contatto, le assistenti portarono liberamente la loro personalità, a volte la più profonda. Pur non disponendo di una guida teorizzante tipo americano odierno, esse però riuscirono, quasi sempre, è stabilire i capisaldi del case-work. Ognuna, comunque, apportò sul lavoro il contributo della sua cultura, di frequente universitaria, che, al contatto della realtà umana divenne viva e palpitante. Molte ditte adottarono l’attività completa, per sé, di una esistente sociale. Tal ché alcune assistenti si trovarono a dirigere l’organizzazione assistenziale dello stabilimento e cioè il nido di fabbrica, il dopolavoro, le colonie estive, l’organizzazione ella giornata della Madre e del Fanciullo.
L’Assistenza di Fabbrica aveva una vita feconda ed intensa, fin quando fu travolta nella catastrofe del’43. Se il servizio burocratico dell’Assistenza Sociale di Fabbrica fu dimesso, esso però sopravvisse nell’umile, ininterrotta prestazione delle singole assistenti sociali. Le quali continuarono le loro laboriose visite di fabbrica, incuranti della tempesta che infuriava ovunque, rifacendo ogni giorno serene, ed apportatrici di serenità, la loro strada di stabilimento, anche quand’essa fu battuta dai bombardamenti. E qualcuna di loro terminò in virtù eroica di vittima della guerra, la propria carriera sociale. Le trovai ancora al loro posto, quando l’Onarmo ne assunse molte al proprio lavoro, utilizzandone l’opera preziosa. Esse non avevano abbandonato le maestranze, e le maestranze non avevano abbandonato loro; le consideravano al di sopra ed al di fuori della lotta e della fazione di parte, nella zona sicura dell’amicizia umana. L’Onarmo aggiunse la tecnica del loro servizio sociale la proprio umanesimo sociale. Ora, con la loro collaborazione, l’Onarmo svolge gran parte del servizio sociale nell’industria italiana. Questo il consuntivo del servizio sociale di fabbrica nei miei ricordi. Riassumendo mi pare che finora, in Italia, il servizio sociale, con le sue tecniche, abbia atteso ad adattare la persona umana alle circostanze di lavoro e della vita nelle quali si trova. Occorre ora svolgere la seconda parte del lavoro, più ampia della prima, e nella quale il servizio sociale non può certo fare da sé, a soltanto agire come parte di un assai più vasta azione sociale. L’adattamento cioè del lavoro all’uomo. Ma di questo, potremo forse, in sede adatta, di nuovo parlare (Delmati V., Ciò che ricordo, “Quaderni d’informazione per assistenti sociali”, maggio-agosto, 1951, pp. 31-36).

Nel 1947 l’Italia aderisce all’International Conferenze of Social Work in seguito alla costituzione del Comitato italiano di servizio sociale (Torru V., A Roma la X conferenza internazionale di servizio sociale, ”Assistenza oggi”, 6, 1959, pp. 79-82, p.79).

Sta scritto del «diritto di asilo non come diritto dello straniero ma come un dovere dello Stato verso altri Stati» (Assemblea Costituente – Atti Parlamentari – Discussioni, 1947, vol. III, p. 2744).

Si inizia a parlare di «assistenza sociale» nell’Assemblea Costituente a partire dal 16 aprile 1947 in occasione della discussione sui rapporti economici, in particolare si legge di un emendamento sull’art. 38 (all’epoca 34) di Enrico Medi (DC) «lo Stato promuove e favorisce l’assistenza e la previdenza» (Assemblea Costituente – Atti Parlamentari – Discussioni dal 16.04.47 al 29.05.47, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma, 1947, vol. IV, p. 3834); si legge di un emendamento per disabili «i cittadini inabili al lavoro […] hanno diritto alla rieducazione e all’immissione al lavoro» (Mario Merighi, PSI, 3697); si legge di una pianificazione sociale da pp. 3778 a 3790; tutta la seduta del 10.05.47 è dedicata all’art. 38 in particolare si legge della distinzione tra «diritto al mantenimento» e «diritto all’assistenza sociale» dove il primo è garantito dalla famiglia, mentre il secondo dallo Stato (3833); sta scritto che il testo licenziato dalla commissione indica «ogni cittadino inabile al lavoro» invece durante le discussioni era sorto «ogni cittadino» (3834); non si parla quasi mai di operatori sociali eccetto in riferimento agli enti privati «tutti i professionisti sentono il bisogno di godere della fiducia dei propri assistiti, come del pari gli enti e gli assicurati sentono il bisogno di scegliere i professionisti in base al merito» (Beniamino De Maria, DC, 3828), si intende invece la disciplina quasi sempre alla stregua di solidarietà sociale tra cittadini, in tale cornice si dipinge la figura del operatore sociale, non ancora inquadrato legalmente, perchè considerato un soggetto del diritto privato.

Secondo Ferdinando Terranova «l’art. 38 è così tormentoso, carico di compromessi che l’interpretazione della norma finisce coll’essere ancorata alle volontà politiche delle maggioranze» (Terranova F., Il potere assistenziale, Roma, Ed. riuniti, 1975, p. 117); secondo l’autore il legislatore ha espresso il medesimo concetto con due «dizioni diverse» cioè l’art. 38 dove si legge “assistenza” e l’art. 117 dove si legge “beneficenza” (idem); «le leggi che il fascismo ha posto in essere sono conservate intatte nell’ordinamento giuridico post-fascista» (p. 100).

La presidente ANAS Rosetta Stasi durante il primo convengo nazionale a Roma nel 1950 disse: «i principi fondamentali di servizio sociale sono già espressi agli artt. 2 e 3 Cost. e una disciplina giuridica della professione si impone in quanto […] ogni attività è prevista e contemplata da un’espressa norma di legge» (Vaccaro C., 1951, Per una maggiore valorizzazione dell’assistente sociale, ”Quaderni di formazione degli assistenti sociali”, mag-ago, pp. 115-117, 116).

Giorgio Mastino Del Rio, commissario all’ENPI, scrive: «Più sovente accade che il servizio sociale debba operare nella sfera morale, sotto forme di conforto diretto a ridare fiducia nella vita a chi può averla perduta ed a superare avversità in cui il fattore umano prevale, mentre il lavoro sociale presenta caratteri di mera complementarietà, anche se conserva integri quelli di solidarietà nazionale. (…) quanti sono attualmente gli assistenti o lavoratori sociali in Italia? All’incirca 1100 dei quali circa 500 usciti dalla scuola di Gregorio al Celio dal 1928 al 1943, oltre 350 diplomati dalle diverse scuole nel quinquennio 1946-50 e 250 e forse più i non diplomati» (Mastino Del Rio G., Il lavoro sociale nella realtà italiana, Quaderni di informazione per assistenti sociali, 7-8, 1951, p. 177, pp. 173-180).

«Si è costituito a Napoli presso la Mostra d’Oltremare, il Centro studi emigrazione italiana con lo scopo di indagare sulle possibilità emigratorie italiane in relazione alle richiese di mano d’opera di paesi esteri» (Il centro studi emigrazione italiana, ”Assistenza oggi”, 4, 1953, p. 90).

«Il 19 settembre alcuni enti di Genova (Provincia, Università degli studi, Associazione industriali, Camera di commercio, Onarmo, Ucid) si sono riuniti in comitato per promuovere l’istituzione di una scuola di servizio sociale. Il presidente della provincia ed il vice presidente della camera di commercio sono stati eletti rispettivamente presidente e vice presidente del comitato, che giunge da consiglio di amministrazione della scuola. La scuola si prefigge lo scopo di formare personale specializzato per il servizio sociale particolarmente addestrato sul piano scientifico tecnico e professionale e la sua istituzione in Genova è considerata particolarmente felice in quanto la regione offre largo campo di azione alle nuove discipline sociali ed assistenziali. I corsi che avranno una durata di tre anni ed una impostazione teorico pratica saranno svolti sotto la guida di docenti scelti tra professori universitari, funzionari di enti assistenziali ed esperti di provata competenza. […] La segreteria della scuola ha sede presso il centro studi della camera di commercio di Genova» (Nuova scuola di servizio sociale, ”Assistenza oggi”, 5, 1953, p. 110).

Si leggono di alcuni dati sulle condizioni sociali in Somalia (Cao-Pinna M., Documentazioni, ”Assistenza Oggi”, 1, 1955, pp. 66-69).

Sta scritto di un D.L. 02.07.54 n. 619 ”Lotta contro il tugurio” che traendo spunto dall’inchiesta parlamentare sulla miseria, si propone la costruzione di 3 milioni di appartamenti in 3 anni. È il preannuncio di quella politica, cd. del cemento selvaggio, che seppellirà i quartieri periferici delle città italiane trasformandole in pericolosi focolai di problemi e disagi (Rassegna legislativa, ”Assistenza d’Oggi”, 1, 1955).

Sta scritto di un ”servizio sociale in risaia” dove le assistenti sociali partecipano all’organizzazione del lavoro (Rassegna della stampa, ”Assistenza Oggi”, 4, 1955, p. 92).

Sta scritto di un primo congresso nazionale di sociologia a Perugia dall’8 al 15 settembre 1959 (Un contributo agli studi sociali in Italia, ”Assistenza oggi”, 1958, p. 78).

Nel 1961 c’erano 125 assistenti sociali assunte dalle imprese, 81 dalla confederazione generale industria italiana e confederazione fascista lavoratori italiani, 37 da enti vari di cui 38 dall’Istituto assistenza sociale di fabbrica, 16 dal SAFS, 26 dal ASFG, 90 dall’IRI, 148 dal Onarmo e 62 dall’Ucid (Marinato Luigi, L’assistente sociale, Firenze, Vallecchi, 1964, pp. 43-44).

«L’ambiguità della professione si manifesta anche quando alcuni assistenti sociali impegnati politicamente vogliono fare la rivoluzione strumentalizzando gli utenti senza impegnarsi a coinvolgere nel processo di giuste rivendicazioni, le forze democratiche e sindacali che possono concretamente sostenere e difendere i diritti di chi è emarginato» (Getrevi M.T., Problemi e prospettive del servizio sociale, Trento, Scuola superiore di servizio sociale, 1973, p. 6, si riferisce ai fatti dell’Istituto Cavazza a Genova dove nel 1971 gli assistenti sociali furono caricati dalla polizia con al seguito gli utenti privi della vista).

«L’attività della professione non può catalogarsi tra quelle cosiddette libere o liberali, del medico, dell’avvocato, dell’ingegnere, dell’economista e del commercialista, ma del funzionario dello stato o meglio del servitore dello stato e quindi della società stessa come portatore e realizzatore dei compiti dello stato» (Pasquariello G., L’assistente sociale, Roma, Arti grafiche Tris, 1972, p. 14).

«Con il progredire della sistemazione e dei compiti, tener presente anche il criterio della qualificazione professionale o meglio della specializzazione, attribuendo pur nella zona specifiche attività distinguendo i vari settori (agricolo, industriale, commerciale, ricreativo, culturale, etc.)» (Pasquariello G., L’assistente sociale, Roma, Arti grafiche Tris, 1972, p. 16).

«Ma è tempo che ci domandiamo come definire l’assistente sociale. Inanzi tutto osserviamo che si è scelto il sostantivo ”assistente” invece che ”consigliere” o ”consultore” o ”consulente”. La ragione è che l’assistente sociale non si limita solo a consigliare ma opera e coopera insieme al soggetto assistito si singolo che come gruppo. Ecco perchè l’assistente è anche denominato operatore sociale o lavoratore sociale e la sua attività si richiama ad un servizio. […] L’appellativo si giustifica da una parte che è posto dalla società (lo Stato) e dall’altra che persegue fini sociali» (Pasquariello G., L’assistente sociale, Roma, Arti grafiche Tris, 1972, p. 17-18).

Sta scritto di una «specializzazione come avviene per gli stessi dirigenti d’azienda […] correndo il paradossale rischio per gli stessi dirigenti di fabbrica» (Marinatto L., L’assistente sociale, Firenze, Vallecchi, 1964, p. 49); «la presenza dell’assistente sociale in quei settori richiede una specializzazione. Per ora l’assistente sociale non ha una qualifica statale riconosciuta. Abbiamo già visto però che l’assistente sociale lavora in fabbrica negli ospedali nei quartieri polari […] tutto ciò sta a dimostrare che una specializzazione sia pure fondata sul expertise è stata raggiunta anche se le scuole non offrono corsi supplementari (Marinatto L., L’assistente sociale, Firenze, Vallecchi, 1964, p. 77).

L’assistente sociale «può specializzarsi nel settore medico-psicopedagogico (per l’infanzia irregolare nel carattere e nella condotta), nel settore del lavoro e dell’emigrazione (per gli operai occupati, i disoccupati, gli emigranti, etc.), nel settore ospedaliero (per i degenti in sanatori, centri traumatologici e di rieducazione professionale) nel settore dell’organizzazione comunitaria (centri sociali, educazione degli adulti, etc.) e nel settore delle ricerche sociologiche» (s.v. Assistente sociale, Dizionario delle professioni, Roma, Libreria dello Stato, 1966, p. 42).

«Per centro sociale si intende un’organizzazione che mediante collaborazione di valore per i quali sorge, si sforza di risolvere i problemi propri della popolazione di un quartiere, mettendo a sua libera disposizione, in un locale appropriato, un’insieme di servizi e di realizzazioni collettive di carattere educativo, sociale e sanitario animati da un assistente sociale responsabile dell’andamento generale del centro» (Carmen Perini, I nostri centri sociali, Incontriamoci, 5, 1959, 6-8, p. 6).

«Monsignor Baldelli istituisce i centri sociali – oggi circa 3000 – per la promozione comunitaria delle popolazioni, affidati ad assistenti sociali, medici, maestri, assistenti sanitarie ed alla collaborazione dei cittadini» (V.D., Il suo lavoro sociale, “Incontriamoci”, 1959, p. 4).

La rivista “Problemi minorili” riporta dei casi e delle sentenze di giurisprudenza penale e civile sui minori.

Approvata a Milano il 27 marzo 1976 la ”Carta dei diritti del bambino ricoverato in ospedale”, dove tra l’altro sta scritto «del diritto dei genitori di partecipare alla gestione del reparto pediatrico» (Carta dei diritti del bambino ricoverato in ospedale, “Problemi minorili”, 3-4-5-6, pp. 199-200).

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Salmo 2. Perché le genti congiurano?

http://resuscicanti.com/Perch%C3%A8%20le%20genti%20congiurano2.mp3

Il progetto di Davide di costruire un tempio per conto di Dio che gli promette la discendenza adottiva (filiazione divina) mette in gioco il rapporto tra tempo e spazio in cui Dio abita in modo speciale perchè sarà in mezzo al suo popolo anche mediante il ruolo della monarchia. In Israele c’è l’idea di un re figlio di Dio per adozione (già nelle monarchie orientali) che rimane sempre un comune mortale ma in qualche modo anche luogotenente di Dio, segno della sua presenza reale nel popolo (in tal senso quando si parla di figlio di Giacobbe, figlio di Giuseppe ci si riferisce alla casa reale mentre figlio di Israele è sotteso a tutto il popolo). In Dt 17 si dice che il re non dovrà essere poligamo e che dovrà custodire una copia della legge per sé (deuteronomio è un titolo assurdo, frutto della traduzione greca, perchè non esistono 2 leggi). Morto Davide ed estinto il casato, Israele ha creduto in un re che avrebbe riportato grande il suo popolo, tuttavia man mano che i re scemavano, la scuola masoretica ha pensato a qualcuno che scompare nel 586 a.C., non senza una certa ambiguità, tenendo viva la speranza e l’attesa del messia inteso come un uomo comune ma con un incarico speciale: governare sul nuovo ordine mondiale. In altre parole il salmo non rispecchia una situazione storica ma, verosimilmente, esprime le illusioni messianiche di una parte delle scuole teologiche. Il salmo fu letto dai primi cristiani in chiave cristologica (Cristo Figlio di Dio) perciò è uno tra i più citati nel NT (insieme al Sal 110). Inoltre è citato negli Atti degli apostoli (At 4,26) in riferimento a Pilato e al Sinedrio che hanno congiurato contro Gesù e nella lettera agli ebrei in riferimento alla filiazione divina (Eb 5,5). Ravasi dice che è una delle più antiche composizioni della storia d’Israele ma alcuni dubitano che possa risalire al tempo di Davide e ritengono che sia stato iniziato in epoca preesilica (VIII-VII sec. a.C.) a cui hanno fatto seguito una serie di “riletture” compiute dagli scribi e dalle scuole teologiche per adattare di volta in volta i temi del salmo al cambiamento dei tempi. Più propriamente si può pensare ad un nucleo originario al tempo di Giosia (VII sec. a.C.), un secondo strato all’epoca dei tobiadi (VI sec. a.C.), un terzo strato risalente all’epoca del tritoisaia (V sec. a.C.) quando Gerusalemme riacquista un ruolo di primo piano grazie alla ricostruzione del tempio ed infine un quarto strato risalente al giudaismo postesilico (IV sec. a.C.) dopo l’editto di Ciro il Grande. Il salmo vuole rispondere ad alcuni quesiti di taglio sapienziale: chi regge la storia? Chi governa il mondo? La struttura letteraria si basa su una prosopologia: quattro personaggi con 3 versetti per strofa (ritmica) il tutto inserito nel genere aulico della serie dei salmi regali. Sul versante artistico il salmo è stato musicato da Benedetto Marcello e da Mendelssohn Bartholdy.

Mi- La-
C. Perché le genti congiurano,
Mi-
perché invano cospirano i popoli?
La-
Insorgono i re della terra
Si7
e i principi congiurano insieme
Mi-
contro il Signore e contro il suo messia:

Qui entra in scena il primo dei quattro personaggi: il poeta, autore del salmo, che descrive per sommi capi ciò che sta accadendo ed introduce agli altri tre personaggi: i ribelli, Dio e il messia. I ribelli sono le tribù vassalle (idumei, moabiti e amorrei) che approfittano dell’interregno (lotta per la successione) per fomentare il malcontento: “le genti in tumulto” riflette uno stile cortese dove Davide è esaltato come il re più grande che partecipa del potere universale di Dio. Nella teologia ebraica la sovranità mondiale spetta a Dio il quale sceglie e depone i sovrani a suo arbitrio. Davide è uno di questi e il tentativo di spodestarlo rappresenta una minaccia anche per Dio perché in qualche modo ne rimette in discussione i metodi. La domanda iniziale del poeta è retorica e volutamente beffarda sul destino dei ribelli.

“Su spezziamo le loro catene,
La-
gettiamo via i loro legami”.
Si7
Se ne ride chi abita i cieli,

li schernisce dall’alto il Signore.

Egli parla loro con ira,
Mi-
li spaventa nel suo sdegno:


Qui entra in scena il secondo dei quattro personaggi: il gruppo di ribelli che si richiama ad una figura simbolica, il giogo degli animali da soma, per descrivere la situazione di sottomissione in cui si trovano. Verso la fine del VIII secolo a.C. la Siria e il Regno del Nord (Regno di Samaria) organizzarono un complotto ai danni del Regno del Sud (Regno di Giuda). Storicamente non era raro per i sovrani di Israele intavolare trattative e ricatti con le tribù confinanti anche se era altamente improbabile che vi fosse un rapporto di subordinazione con tributi e trattati. Inoltre, eccetto piccole scaramucce, non risulta nessuna ribellione di così vasta portata. Non c’è quindi alcun motivo apparente che ne giustifichi gli scopi.


La- Mi-
A. “IO L’HO COSTITUITO MIO SOVRANO
Si7
SUL SION MIO SANTO MONTE,
Mi-
SUL SION MIO SANTO MONTE”.
La- Mi-
“IO L’HO COSTITUITO MIO SOVRANO
Si7
SUL SION MIO SANTO MONTE,
Mi-
SUL SION MIO SANTO MONTE”.

Qui entra in scena il terzo dei quattro personaggi: Dio assiso in trono che si trastulla assiso nei cieli non per diletto ma per chi ha ricevuto la missione e riesce a vedere l’utopistico futuro dei nemici. Inizia qui il rito di intronizzazione così come è appare nelle formule regali più antiche. Formule simili si ritrovano nell’Egitto dei faraoni, nella monarchia cananea e ugaritica e in Mesopotamia (cilindro di Giudea). In effetti molti autori ritengono che i salmi 1 e 2 fossero inizialmente uniti e facessero parte di una “liturgia di iniziazione”.

Mi- La-
C. Annunzierò il decreto del Signore.
Si7
Egli mi ha detto: “tu sei mio figlio,
Mi-
Io oggi ti ho generato.
La-
Chiedi a me, ti darò in possesso le genti
Si7
e in dominio i confini della terra.

Le spezzerai con scettro di ferro
Mi-
come vasi di argilla le frantumerai”.

Continua la formula dell’intronizzazione dell’eletto con il decreto di nomina “tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”. Iv. 7 sarebbe una glossa inserita per rafforzare l’oracolo messianico (Lepore L., L’evoluzione del messianismo nel Sal 2, “Rivista biblica”, 1, 2021, pp. 45-61, p. 55). C’è qui un’idea di paternità divina che è tipicamente profetica (Osea, Geremia) per il quale Dio sceglie suo figlio (il profeta Daniele lo chiama “figlio dell’uomo” per distinguerlo dai comuni animali) come mediatore tra Lui e il popolo. Si apre uno scenario apocalittico dove il messia acquista i connotati dell’immortalità e si proietta nell’eternità. Il rito dell’esecrazione (v. 8) era diffuso nell’Egitto dei faraoni e consisteva nell’apporre il nome del nemico su un manufatto di terracotta, solitamente un vaso o un oggetto di ceramica, per poi infrangerlo con uno scettro o scaraventarlo contro la parete o contro il pavimento; ciò stava a significare che all’ascesa al trono del re sarebbe corrisposta la caduta del nemico.

La- Si7
C. E ora sovrani, siate saggi,

istruitevi giudici della terra;

servite Dio con timore
Mi-
e con tremore esultate;
La-
che non si sdegni e voi perdiate la via,
Si7
perché improvvisa divampa la sua ira.
Mi-
Beato chi in lui si rifugia.

Qui torna in scena il poeta che, con toni più dolci, cerca di far ragionare i ribelli. I “giudici” (v. 10) sono i notabili di Gerusalemme (tobiadi) che ostacolano la riforma di Neemia che voleva condonare i debiti delle classi meno abbienti. L’analisi stilistica fa pensare che la strofa sia più recente del resto del salmo e sia stata aggiunta in un’epoca in cui il profetismo denunciava la politica oppressiva degli assiri. Anche il testo è più corrotto, diverso da un manoscritto ad un altro, rendendo più difficile la lettura. Se infatti è scontato servire il Signore con timore, che senso ha rallegrarsi con tremore? Alcuni pensano che il v. 11 fosse unito al seguente e che quindi “tremore” sarebbe riferito alla “disciplina” con un implicito riferimento al rito del “bacio dei piedi” perché Dio che è seduto in trono. Presumibilmente il poeta sta parlando in un luogo sacro dove Dio si rende presente tramite il suo consacrato e dove “servite” (obed) richiama “perdere la via” (hobed) perchè se non si resiste, il vivere diventa deviante. Il salmo termina con un macarismo forse un’aggiunta postuma per dare al componimento un finale più dolce. Perché dunque le genti congiurano? Il salmo, nella rilettura cristiana, non riesce a spiegare l’origine del male che, ontologicamente parlando, è ineffabile per natura ma piuttosto sembra rivolgersi all’origine del bene. Nell’alternarsi tra le due parti che si incontrano e si scontrano, bene e male, guerra e pace, gioia e paura, c’è sempre un filo conduttore che procede verso Gesù Cristo e il Regno di Dio.

Bibliografia

Alonso Schokel L., Carniti C., I Salmi, vol. I, Roma 1992.
Lepore L., L’evoluzione del messianismo nel Sal 2, “Rivista biblica”, 1, 2021, pp. 45-61
Ravasi G., Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, vol. I, Bologna 1981.
Resuscitò. Canti per le comunità neocatecumenali, Fondazione Famiglia di Nazareth, Roma, 2017.

Diversità e professioni di cura

Convegno organizzato dall’Università di Trento in collaborazione con l’Ordine degli educatori professionali e l’Ordine degli assistenti sociali della provincia di Trento, via Verdi, Trento. Dopo i saluti istituzionali si passa agli interventi dei relatori.


Interviene Barbara Poggio, prorettrice alle politiche di equità e diversità dell’Università di Trento, che discute una relazione sull’inclusione lavorativa. Il contesto di riferimento è la progressiva e crescente diversificazione della forza lavoro con la convivenza tra generi, età, provenienze etniche e culturali diverse. Parliamo dei bisogni soggettivi e degli stake holder a cui le organizzazioni devono rispondere in termini di prodotti e servizi ed in termini di responsabilità; dei bisogni a cui il lavoro deve dare risposte di realizzazione, di sviluppo e delle competenze (specializzazione e gap generazionale). Gestire la diversità nei contesti di lavoro implica l’esistenza di una pluralità di differenze che caratterizzano i soggetti (primari e secondari) anche all’interno dei contesti di lavoro che è importante riconoscere, valorizzzare e gestire. C’è bisogno di un approccio diversificato alla gestione delle risorse umane, finalizzato alla creazione di un ambiente lavorativo inclusivo, in grado di favorire l’espressione del potenziale individuale e di utilizzarlo come leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi. In questo scenario vengono a crearsi anche delle figure professionali dedicate, ad esempio a Trento c’è l’Ufficio “Diversity Management” che supporta i vari organismi di tutela e prevenzione delle discriminazioni. Quali sono le motivazioni per cui le organizzazioni devono sviluppare politiche di inclusione? La dimensione etica che migliora i contesti lavorativi, la dimensione normativa che regola i contrasti e la dimensione economica perché tutti, sia uomini che donne, hanno bisogno di salari adeguati e di politiche di sostegno al reddito. Quali sono i vantaggi dell’inclusione lavorativa? Miglioramento del clima organizzativo e del benessere dei dipendenti; riduzione dei costi aziendali, maggiore capacità di attrarre personale qualificato, maggiore capacità di interfacciarsi con contesti differenziati; più creatività, innovazione e capacità di problem solving. Quali sono gli ostacoli all’inclusione lavorativa? Stereotipi e pregiudizi, resistenze al cambiamento, difficoltà di incidere sulla consapevolezza, dimensioni culturali ed emozionali personali. Queste considerazioni rientrano anche nelle professioni nel lavoro di cura che si connotano per una significativa differenziazione di genere, basata su una visione tradizionale e stereotipata dello stesso lavoro di cura, considerato come attività tipicamente femminile che ha conseguenze problematiche sia sul piano simbolico sia su quello più concreto del riconoscimento del lavoro. Se occuparsi di cura ed educazione è qualcosa di normale non occorre valorizzarle perché diventa naturale farle. Si tratta di una diversità che ha a che fare anche con gli stereotipi e il primo lavoro da fare è la consapevolezza degli operatori e degli insegnanti. Un’utenza sempre più differenziata sui vari settori implica il lavorare sugli stereotipi di cui si è spesso inconsapevoli portatori. Il secondo aspetto è l’importanza di adottare una prospettiva integrata – non una somma di diversità – ma l’interazione simultanea di diverse categorie tra loro interconnesse e che producono specifici profili di svantaggio non riducibili alla somma delle varie dimensioni.

Interviene Wilma Di Napoli, specialista in psicologia clinica e direttrice del Centro di salute mentale di Trento, che discute una relazione sulla diversità nel mondo della psichiatria. Oggi viviamo nella retorica buonista del “matto-diverso” a fronte del quale cerchiamo di comprendere la dimensione del disagio mentale. Effettivamente la diversità è una regola nel disagio psichico sotteso al fenomeno delle migrazioni e dei minorenni. Dieci anni fa si parlava dell’omosessualità come malattia del DSM mentre oggi si parla di identità di genere e di fragilità collegate. Pur essendo cambiata molto l’utenza ci ritroviamo ad avere una multidimensionalità legata al consumo di sostanze, disagio sociale ed in generale una situazione che presenta lati oscuri. I REMS sono strutture piccole e la microcriminalità sta diventando sempre più un “area grigia” tra penale e sociale. Il mandato di una professione di cura oggi non è quella di custodia ma di ascolto e condivisione. Per tale motivo a Trento abbiamo creato l’area del Fareassieme che include gli ex utenti (Ufe – Utenti familiari esperti) che sono diventati a loro volta dei volontari dei servizi sociali. Si tratta di una figura che nasce nel 2005 e indica una presenza viva che funge da aiuto ma anche di critica del servizio. Non bisogna negare la diversità ma coglierne gli aspetti positivi. I cambiamenti nel tempo ci fanno capire che c’è bisogno di lavorare con personalità diverse sopratutto sui disturbi dell’umore laddove c’è bisogno di più consapevolezza mentre nel confronto con gli altri riusciamo ad essere consapevoli dei nostri limiti.

Interviene Walter Lorenz, docente di lavoro sistemico all’Università di Bolzano, che discute una relazione sulla dimensione socio-politica della diversità. Si tratta di un’occasione per mettere insieme due campi di professione che si muovono in modo separato e questo limite va superato senza riferimenti all’essenzialismo. In tal senso sono contento di partecipare ed incontrare amici di Trento che è molto vicina a Bolzano. La dimensione sociale non è qualcosa esclusiva della psicologia ma si svolge sempre in un contesto socio-politico ed il riferimento alla persona come cittadino ha un’importanza particolare. L’attenzione è rivolta al riconoscimento dell’individualità e della diversità che è aumentata in modo incredibile rispetto ad un passato dove l’identità era definita attraverso le strutture mentre oggi dobbiamo definire la nostra identità come un’opportunità di cambiamento. La diversità è aumentata non solo per l’arrivo degli immigrati che fanno parte di un movimento di diversificazione non solo culturale ma globale. Noi come professionisti del sociale guardiamo alla persona nel suo ruolo centrale nella storia delle professioni che guidano i principi e i fondamenti dei servizi sociali. Quando le prime misure assistenziali all’inizio del XX secolo cercavano di seguire gli utenti secondo delle categorie predeterminate, il compito dei primi filantropi inglesi fu quello di stare attenti al caso individuale e tale individualità è poi diventata un perno fondamentale del nostro lavoro. In particolare il principio di “non direttività” e di “accettazione dell’altro” sono diventati le caratteristiche principali di un professionista verso qualcuno che viene privato della sua dignità a causa delle discriminazioni subite. Nel corso degli anni il servizio sociale e la pedagogia hanno richiesto l’introduzione di metodi che hanno come obiettivo l’universalità e le nuove devianze (identità di genere, bullismo, disturbi alimentari) sono esempi di larghe categorie che bisogna mettere insieme per giungere ad una teoria che abbia caratteristiche trasferibili. Dotati di tali caratteristiche i professionisti potevano esercitare un certo tipo di potere e di professionalizzazione spesso associato ad una sorta di alienazione tra utenti e operatori e ciò creava un dilemma sul modo di trattare certi casi. Molti movimenti sociali a partire dagli anni ’70 e ’80 hanno iniziato a sfidare il gap di potere insito tra operatori e utenti e con ciò il diritto di definire le categorie e i bisogni sociali. Questi movimenti hanno gradualmente avuto un impatto sull’emancipazione delle minoranze e gli utenti hanno chiesto di avere più voce in capitolo, ad esempio il femminismo per le donne o l’europeismo per i sinti. Questi movimenti sono stati accolti nel servizio sociale ed hanno portato all’accettazione della pratica orientata al cliente come modello universale e la partecipazione diretta degli utenti gradualmente è diventata un principio nella pratica, nella formazione e nella ricerca scientifica. Tale principio è stato poi ripreso dal movimento per la salute mentale secondo cui “niente su di noi, senza di noi” che si è concretizzato in Italia con la riforma Basaglia e poi gradualmente si è esteso nel resto dell’Europa. Di per sé non elimina lo stigma sociale ma ha consentito il riconoscimento dell’individuo e l’autodeterminazione del paziente. Parallelamente a questi movimenti abbiamo visto la diffusione di politiche sociali neoliberiste che hanno colonizzato il concetto di responsabilità individualità per giustificare la drastica riduzione della spesa pubblica e ciò crea un ulteriore problema in quanto i politici sono stati accusati di ridurre i fondi e fare ben poco per creare lavoro. Il cittadino ideale è diventato un uomo autosufficiente il che contrasta coi nostri valori di solidarietà e inclusione. L’orientamento al cliente sta diventando uno strumento per dare un’attenzione minimale all’utenza al fine di risparmiare sulle risorse e ciò significa che l’equilibrio tra diritti e doveri si è spostato verso gli obblighi. La precarietà dei servizi sociali offre agli utenti una maggiore possibilità di scelta ma d’altro canto enfatizza la distanza tra cittadini che possono permettersi di pagare dei servizi privati. Assistiamo alla polarizzazione tra gruppi di persone che possono esprimersi in maniera spontanea ad altri che non possono farlo a causa della riduzione degli investimenti. La pandemia ha creato una maggiore distanza tra chi aveva l’accesso alle tecnologie e altri che non ne avevano. Il gap tecnologico crea nuove tensioni e diseguaglianze e, nel momento in cui le persone si trovano in scelte difficili e ostacolate dalle tendenze della moda e dai social, iniziamo a notare le incertezze che tale abbondanza di scelte crea nelle persone. Viviamo in un modo ambiguo tra il superare e il ritirare le nuove forme di collettività che sono sempre più artificiali. Per affrontare la diversità e la stigmatizzazione bisogna capire che questi problemi dipendono da un’incertezza di fondo sull’appartenenza globale: l’economia è finalizzata all’individualismo e al soddisfacimento personale senza far più riferimento a strutture di supporto comunitario. Gli effetti di questa politica coinvolgono le strutture solidali che in passato erano sostenute dalla Chiesa e dai partiti politici mentre oggi sono tipicamente aleatorie. Magari ci sono pure nella forma ma in sostanza sono lontane da chi ne ha bisogno. La gente preferisce rifugiarsi nelle comunità virtuali e nelle strutture artefatte che rafforzano l’isolamento e lo sfruttamento delle solitudini e delle fragilità. Con ciò non si vuole dire che i Social network non offrono alcuna forma di solidarietà né che i riferimenti alle nuove tecnologie siano fuorvianti al contrario le persone esprimono il loro desiderio di ritrovarsi in uno spazio in cui sentirsi riconosciuti. Il problema sorge quando queste identità diventano esclusive, oppressive e monolitiche. Le professioni sociali hanno la il compito nel dare forma e curare gli spazi e i tempi in cui le persone si muovono e agiscono in modo differenziato. Prendersi cura dell’utente in modo bilanciato significa diminuire la prossimità e la distanza dello spazio sociale (come mi avvicino a qualcuno o come mi allontano) che può diventare una prigione come abbiamo visto durante la pandemia dove sono aumentati gli episodi di violenza domestica e di suicidio dei giovani. Il senso di isolamento non deve essere compensato da artefatti virtuali o ideologici che sono incapaci di accogliere la diversità ma creano solo uniformità che discrimina ed esclude. Gli operatori sociali hanno la funzione di essere custodi della relazione sociale al di là dei bisogni individuali e devono prestare attenzione al senso di appartenenza comune che può essere costruito nel processo di aiuto. Solo l’attenzione alle diversità può aiutare a superare gli stereotipi.

Oggi abbiamo ascoltato 3 punti di vista differenti sul lavoro sociale: non solo le persone da aiutare sono diverse ma anche gli operatori sono diversi e per costruire servizi migliori bisogna cambiare i propri pregiudizi. Se riusciamo a rompere le “scatole mentali” forse riusciamo a muoverci meno rigidamente.

L’Assistenza sociale (1927-1992)

“L’assistenza sociale” rivista della Confederazione Nazionale Lavoratori e Sindacati Fascisti (1927) poi “L’assistenza sociale. Rivista mensile di dottrina e giurisprudenza, a cura del Patronato Nazionale dell’Assistenza Sociale” (1928-1943), Roma, via dei Mille, 23. Direttore responsabile: Edmondo Rossoni (1927-28), Maurizio Maraviglia (1929), Ermanno Carli (1930-1934), Liberato Pezzoli (1935-1943). Comitato di redazione: Franco Angelini, Tullio Cianetti, Riccardo Del Giudice, Giuseppe Landi.

Nel 1947 cambia titolo in:
“L’assistenza sociale: rivista bimestrale dell’Istituto Nazionale Confederale di Assistenza” (1947-2003), Roma, via Lucullo 6. Direttore responsabile: dal 1947 al 1961 Aladino Bibolotti, dal 1962 al 1968 Sergio Marturano, dal 1969 al 1985 Luigi Nicosia, dal 1986 al 1992 Gian Carlo Vicinelli.

Assistenza sociale e Patronato Nazionale
La conferenza internazionale del servizio sociale
A proposito di assistenza sociale
Spirito, forme e sviluppi dell’assistenza sociale fascista
Corso di specializzazione in tecnica delle previdenza e assistenza sociale
Uffici di assistenza della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria
Solidarietà fascista
Guida per le assistenti sociali
L’assistenza del partito ai lavoratori dell’Impero
Premessa ai 40 anni di storia, battaglie, dibattiti, proposte della Rivista dell’Inca-Cgil
Per una moderna organizzazione dell’assistenza sociale
La riforma dell’assistenza pubblica in Italia
La fungaia degli enti assistenziali
Proposte e prospettive per la riforma dell’assistenza pubblica e dei servizi sociali
Le strutture assistenziali e sanitarie nella Repubblica Popolare Cinese

La rivista, nello speciale settore di attività assegnato all’organo tecnico delle Confederazioni sindacali dei lavoratori, creato per l’assistenza medico-legale e per lo studio dei problemi attinenti alla legislazione assistenziale e previdenziale del lavoro, ha in questo ultimo anno perfezionata la propria struttura al fine di adeguarsi alle presenti necessità divulgative delle realizzazioni che il Regime persegue incessantemente a favore delle categorie lavoratrici. La materia strettamente tecnica e medico-legale è stata incessantemente vivificata dall’apporto dell’azione sindacale e politico-sociale delle Confederazioni, attraverso la quale il Sindacato, come organo tipicamente rivoluzionario, entra sempre più in tutti i meccanismi e congegni della vita assistenziale e previdenziale. Nell’azione quotidiana che debbono svolgere tutti coloro ai quali è affidato il compito di applicare le previdenze e le tutele del lavoro, instaurate dal Regime fascista, appaiono sempre più indispensabili lo studio e la conoscenza dei problemi strettamente connessi a tale azione, si tratti di dirigenti politici, sindacali, di professionisti o di personale organizzatore e direttivo non solo degli Enti assistenziali e previdenziali, ma anche delle stesse aziende economiche e produttive, nelle quali il fatto sociale assume aspetti e caratteristiche sempre più importanti.
La rivista si suddivide in varie sezioni: studi e rassegne, osservazioni cliniche, quesiti, riunioni e congressi, note di attualità, informazioni, legislazione, recensioni, giurisprudenza, etc.
«Il Patronato nazionale per l’assistenza sociale costituisce, a termini della dichiarazione XXIX della Carta del lavoro e degli articoli 1 e 4 della legge 3 aprile 1926 n. 563, l’organo tecnico a mezzo del quale le Confederazioni fasciste dei lavoratori provvedono all’assistenza medico-legale dei propri rappresentanti nelle pratiche relative all’assicurazione infortuni ed alle assicurazioni sociali in genere, nonché alla divulgazione e realizzazione fra i lavoratori delle forme di prevenzione e di previdenza contro i rischi del lavoro. Il patronato ha sede in Roma ed esplica la sua attività in tutto il territorio del Regno e delle Colonie. È persona giuridica a termini dell’art. 12 del Decreto Luog. 12.08.1917 n. 1450. Come tale nei limiti consentiti dal suo patrimonio e per le finalità previste dalle leggi, dai regolamenti e dal presente statuto, esso può possedere, obbligarsi e stare in giudizio. In particolare il Patronato ha il compito:
1 di assistere i lavoratori in applicazione delle norme legislative per l’assicurazione contro gli infortuni nell’industria, nell’agricoltura e nelle altre branche di attività produttive e di servizi;
2 di assistere i lavoratori in applicazione delle norme legislative per l’assicurazione contro le malattie professionali;
3 di assistere i lavoratori in applicazione delle norme legislative per l’assicurazione invalidità, vecchiaia e morte;
4 di assistere i lavoratori in applicazione di speciali norme legislative che erogano i trattamenti di quiescenza e di previdenza;
5 di assistere i lavoratori in applicazione delle norme legislative per l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria;
6 di assistere le operaie e le impiegate in applicazione delle norme legislative per l’assicurazione e la protezione della maternità;
7 di assistere i lavoratori in applicazione delle norme legislative per l’assicurazione contro la tubercolosi;
8 di assistere i lavoratori in applicazione delle norme legislative per la lotta contro la malaria;
9 di assistere i lavoratori in applicazione delle norme legislative vigenti per l’assicurazione contro le malattie in genere e gli iscritti alle Casse mutue di malattia nelle controversie sul diritto alle prestazioni;
10 di assistere i lavoratori in tute le vertenze relative alla esecuzione dei contratti, individuali o collettivi, di assicurazione libera contro gli infortuni e la morte e nelle azioni per responsabilità civile per sinistri avvenuti in occasione di lavoro;
11 di raccogliere e di indirizzare al Ministero degli affari esteri le pratiche relative ai diritti acquisiti dai lavoratori durante la loro permanenza all’estero, in forza dei contratti di lavoro e delle leggi sociali colà vigenti;
12 di assistere, con l’autorizzazione del Ministero delle Corporazioni, tutti i lavoratori in applicazione delle altre leggi previdenziali e protettive del lavoro non specificate nei comma precedenti;
13 di raccogliere dati ed attuare studi in tema di applicazione e perfezionamento di tutte le leggi sociali;
14 di collaborare nella divulgazione fra i lavoratori di mezzi di prevenzione contro i rischi del lavoro;
15 di provvedere alle visite mediche preventive e periodiche dei lavoratori in applicazione delle norme legislative sull’igiene e sull’avviamento al lavoro.
Il Patronato, nell’ambito delle leggi e dei regolamenti sopracennati, presta la sua assistenza a tutti i lavoratori nelle questioni sopra indicate. Le sue prestazioni in qualunque forma e sede sono gratuite. Possono essere poste a carico degli assistiti le sole spese per la produzione della documentazione necessaria a giustificare le loro richieste» (retrocopertina al n. 11 del 1940).

Travagli F., Assistenza sociale e Patronato Nazionale, 12, 1927, p. 551:

«Non avrei dato soverchia importanza ad una critica alquanto acerba comparsa sui numeri 7-8, 1927 della Rivista. Critica riguardante un mio articolo “Patronato Nazionale in rapporto alla profilassi sociale” se gli avvenimenti svoltisi in questi ultimi mesi fra cui, principalissimi, il Congresso degli Uffici Legali del Patronato Nazionale tenutosi a Bologna il 5 ottobre u.s. e l’interrogazione dell’on. Gay alla Camera dei Deputati, non fossero venuti a confermare tanto autorevolmente ciò che fu previsto da me non solo nel mio ultimo studio quanto in tutti i miei lavori precedenti. Da più di cinque anni, prima sotto la diretta guida del nostro Direttore Generale, poi quale consulente medico del Patronato Nazionale di Genova, ho sempre strenuamente combattuto il cosiddetto parassitismo a danno degli infortunati. L’azione potentemente moralizzatrice del Buffa, che ebbe proprio qui a Genova il suo primo svolgimento, le battaglie asperrime da Lui subito combattute con slancio magnifico di fascista e di sindacalista purissimo. videro il sottoscritto (quale medico, cultore fervente dei problemi sociali che la democrazia demagogica aveva trascurato e negletto) in linea per la lotta della quale oggi il Patronato Nazionale raccoglie i frutti più eletti, e se lo sfruttamento degli operai infortunati fu da me (e non da me solo, ma da altri ben più del sotto-scritto autorevoli) definito per parassitismo, non posso — oggi — che confermare e proclamare con tutta la mia energia tale definizione. A meno che non si voglia definire con parola anche più cruda il numero enorme di «reati, di truffe nelle indennità, di creazioni di infortuni, di autolesioni, di sfruttamenti dell’infortunato con altissime percentuali ed inganni sulla valutazione del danno ed infine la sottile opera disgregatrice che viene compiuta con l’istillare nella mente dell’operaio stesso una illimitata fiducia sul patrocinio, con pretese talvolta esagerate ed assurde di danni non indennizzabili». Mi fermo ancora sulla parola: parassitismo. Vuole dirmi l’egregio «a.c.» se l’opera in genere dei patrocinatori privati, specialmente nei grandi centri industriali, può essere altrimenti definita? Quando individui di passato oscuro, di poca o scarsa coltura, di coscienza… elastica, assistiti purtroppo da professionisti che potranno anche lavorare in buona fede, ma con gli occhi bendati, si creano paladini presso le Società o gli Istituti di Assicurazione di operai infortunati o sorprendono la loro ingenuità (leggi: ignoranza) trattenendo sulla somma liquidata dell’infortunio persino il 50%? Può definirsi altrimenti che parassitismo il fatto che vengono sovente accettate quali prime liquidazioni le temporanee, inibendo all’infortunato il diritto alla revisione per erroneità e tendendo in tal modo a favorire il giuoco di qualche Istituto Assicuratore? E ancora… ma perché rimestare nuovamente il fango che si è accumulato in questi ultimi anni su tante questioni svoltesi fra patrocinatori privati, istituti assicuratori ed infortunati? Non intendo, con quando asserisco, coinvolgere nell’accusa di parassitismo la totalità dei patrocinatori privati, sia singoli, sia raccolti in Istituti. Ma non posso escludere che anche negli Istituti o nei singoli più seri ed onesti, il lucro non sia la principale molla che li animi nel tutelare gli interessi dell’infortunato. Infatti il sorgere ed il vittorioso affermarsi del Patronato Nazionale ha dato ai nervi a parecchia gente… dai grossi calibri ai minimi, dai grandi Istituti ai piccoli speculatori che si accontentano delle… briciole! Il principio invece sostenuto sin dal 1922 dal Buffa (e consacrato dalla Carta del lavoro) è basato essenzialmente sul patrocinio gratuito dell’operaio infortunato, vera audace innovazione pratica nel campo della previdenza ed assistenza sociale. Eminentemente etico ed umano — osserva a tale proposito il Brunetta — il concetto informatore di tale principio. Chè altrimenti si andrebbe contro lo stesso spirito informatore della legge sugli infortuni del lavoro, quello cioè di assicurare all’operaio colpito da infortunio la possibilità di vita nel periodo di inabilità temporanea, dargli il modo di completare i propri proventi nel caso di inabilità permanente, garantire alla famiglia un discreto peculio nella eventualità della morte. L’affermarsi del Patronato Nazionale (e vedremo più oltre quanto esso interessi ora la pubblica opinione) che presieduto dall’on. Rossoni può definirsi come purissima emanazione sindacale, rientra automaticamente nell’art. 28 della Carta del Lavoro che prevede: «la devoluzione alle associazioni sindacali legalmente riconosciute della difesa dei lavoratori anche per le procedure amministrative e giudiziarie relative agli infortuni sul lavoro ed alle assicurazioni sociali». Giustamente il Roberti asserisce in una sua interessante relazione sulla « Funzione delle Associazioni Sindacali e la legge infortuni » che [‘assistenza sindacale non si esaurisce nel creare o nel perfezionare il rapporto di lavoro, ma 01 estende a tutta la vita del lavoro, a tutti i rischi ai quali il lavoratore va incontro in conseguenza del lavoro. Tanto più pronta e gelosa tale assistenza quanto più il lavoratore è in condizione di inferiorità ed ha bisogno di difesa. Ora — continua ad interpretare il Roberti assai limpidamente — già la legislazione italiana si era messa su questa strada sottraendo con la legge del 1917 ai patrocinatori privati la rappresentanza e la difesa degli infortuni agricoli; essa è stata poi affidata esclusivamente al Patronato Nazionale. Dato questo stato di fatto, non ho certo io commesso tali errori nel mio studio sul Patronato Nazionale. Dato questo stato di fatto, non ho certo io commesso tali errori nel mio studio sul Patronato Nazionale in rapporto con la profilassi sociale, da meritarmi tutti gli inorriditi sic! e tutti gli abbondantissimi punti esclamativi dell’egregio «a.c.» della Rivista Critica d’Infortunistica. Comunque, (ed anche in questo non posso che sottoscrivere a quanto ha asserito, con ben più profonda competenza legale della mia il Roberti), non si tratta di abolire, per gli infortuni industriali, il patrocinio privato; si tratta di trasferire la scelta dei patrocinatori degli infortunati alla Organizzazione sindacale. Qui non è questione di libertà menomate e di controversie private; nelle controversie del lavoro (le cui garanzie e di esse l’applicazione delle disposizioni inerenti sono controllate dallo Stato) il lavoratore deve essere tutelato dalle proprie associazioni sindacali di categoria; e per esse — come è in fine ora ufficialmente riconosciuto — al Patronato Nazionale che è l’organo tecnico della Confederazione dei Sindacati Fascisti e che ha in tutta Italia predisposta una organizzazione perfettamente corrispondente allo scopo con un personale veramente selezionato ed eletto sia dal lato amministrativo che da quello medico e legale. Che questo sia ormai penetrato anche nella coscienza dei lavoratori e del pubblico in genere, lo dimostra il fatto che liberamente — spontaneamente — in molti centri industriali gli operai infortunati corrono alla tutela del Patronato Nazionale; in molte città ormai la mala pianta del patrocinio privato si è esaurita e spenta del tutto, per la mancanza della linfa più vitale: il denaro degli infortunati! Ma ormai non soltanto gli organi della pubblica opinione — la stampa politica in genere — si interessano del Patronato Nazionale; non solo le riviste legali hanno delle rubriche le quali seguono con viva attenzione (tanto più viva quanto più esse sono più o meno celatamente avverse) tutto quello che si svolge nel Patronato stesso; ma riviste tecniche sanitarie ne fanno oggetto del loro studio. Era del 27 settembre un interessante articolo del «Medico Italiano»; è del 28 novembre la riproduzione di esso ed il commento sulla “Sezione pratica” del Policlinico, la rivista più diffusa del ceto sanitario d’Italia. Ci piace, quale conclusione di questo nostro articolo, riportare di detto studio i due più interessanti periodi: «Se noi guardiamo alle cifre esposte per il ramo: assistenza dell’operaio infortunato sul lavoro, nella relazione al Consiglio Direttivo Nazionale del Direttore Generale comm. Aldo Buffa, comprendiamo facilmente quale imponente lavoro è stato compiuto e quale proporzione può assumere tale opera per l’avvenire: nel 1926 furono eseguite per gli infortunati delle industrie 18.847 visite chirurgiche; 462 neuropatologiche; 16.413 di controllo; 207 otorinolaringoiatriche; 2523 oculistiche; 688 mediche; 1373 radiografiche. E non contiamo le 8464 pratiche esperite per gli infortuni agricoli! Questo lavoro dà sempre più la sensazione che il Patronato Nazionale vuol raggiungere quella perfezione nelle indagini e nei responsi alla quale nulla debba e possa obbiettare la Società Assicuratrice e che il Patronato è centro d’effettivo elevamento nella pratica infortunistica. Di fronte a queste constatazioni di organi obbiettivi e sereni, al di fuori ed al di sopra di ogni carattere laudativo, di fronte a questa sicura ascensione del Patronato Nazionale verso la più perfetta ed universale costituzione, io credo che ogni altro commento debba essere superfluo. Potranno le mie vedute essere tacciate di teoriche e nebulose; ma la realtà dei fatti le consacra quali positive e realizzatrici, per eccellenza! De hoc satis! Sarà mia cura, in un altro articolo, controbattere la questione della procura che tanto ha disturbato l’egregio a. c. Per ora mi conforta la constatazione che non invano mi sono accanita contro gli inconvenienti del cosiddetto Parassitismo a danno degli infortunati. Ed è per me questo un grande legittimo conforto».

La conferenza internazionale del servizio sociale, 1927, 12, p. 606:

La Conferenza Internazionale del « Servizio Sociale » che da più di mezzo secolo si riunisce ogni anno negli Stati Uniti e tratta la materia dell’insegnamento e perfezionamento dei metodi di assistenza, è sorta anche in Europa col progetto della convocazione di una Conferenza analoga, che invita a parteciparvi gli Enti e i privati di tutto il mondo. Si tratta di una istituzione che mira a combattere le sventure che affliggono i meno fortunati del consorzio umano, a realizzare la conquista di migliori condizioni di convivenza. Il Comitato di organizzazione della Conferenza Internazionale del Servizio Sociale si è riunito recentemente a Parigi presso la Lega delle Società della Croce Rossa, nominando un apposito ufficio che ha l’incarico di cercare le adesioni e i fondi necessari per l’organizzazione della Conferenza e di provvedere per la costituzione di Comitati Nazionali.
La Conferenza del Servizio Sociale si comporrà di 5 sezioni, ciascuna incaricata di studiare un gruppo di problemi:
1) organizzazione generale del servizio sociale;
2) insegnamento del servizio sociale;
3) metodi del servizio sociale nei casi individuali (bambini, famiglia, ecc.);
4) famiglia e industria (insegnamento domestico, prevenzione contro la disoccupazione, assistenza ai disoccupati);
5) il servizio sociale e l’igiene sociale.
In Italia, sotto la direzione del prof. Corrado Gini, Presidente dell’Istituto Centrale di Statistica, si è costituito il Comitato Nazionale, distinto in 5 gruppi che corrispondono alle 5 sezioni della Conferenza. L’Opera Nazionale Dopolavoro ha deciso di cooperare col Comitato Nazionale e aderire alla Conferenza che si riunirà a Parigi nel 1928, presentando all’uopo una propria relazione: «La Conferenza Internazionale del Servizio Sociale e l’Opera Nazionale Dopolavoro ».

Labriola T., A proposito di assistenza sociale (appunti critici e note illustrative), 1928, 1, pp. 13-15:

Il « fascismo» viene salutato solennemente quale esplicazione della concezione Nietzschiana della vita; viene maledetto bestialmente quale “sgoverno di un Tamerlano qualunque”. In verità, diciamo, il fascismo è italiana concezione di vita (e quindi di formazione e distribuzione della ricchezza); è tanto originale da non potere essere da noi colpito se non nel carattere di realtà in movimento. H nostro fascismo è italiana concezione del « dare il disuguale ai disuguali », superata in quanto delle forme sociali nuove o sono nate o sono per nascere, oppure attuate nel dettame veramente vissuto del « dare a ciascuno secondo il bisogno ». Gli è che realmente questo nostro fascismo è semprevivo, è « il verde albero della vita » contrapposto alle foglie secche della fredda erudizione (lo stile arido).
Specie nel periodo di formazione del nazionalismo è stato più volte ripetuto da valorosi maestri esser necessario per gli Italiani fondarsi su la concezione della volontà di potenza (Willéns-macht). Questa volontà di potenza, così arida ed angolosa come fu formulata, parve al tempo della formulazione affermazione di vitalità. Eppure, considerata ora in cui funziona la organizzazione del lavoro e fiorisce la assistenza, cioè adesso che il fascismo è concretezza, sembra ed è poco vitale. È ancora rivestita di alcune forme, almeno forme, di straniera dottrina. Ora nel rin-novellarsi perenne del fascismo, è ancora questo magnifico fatto dell’essere sempre più italiano (e così si spiega la levata di scudi a Ginevra magnificamente affrontata dal nostro Rossoni!).
Ci voleva l’Italia novella per dare realtà all’astratto, cioè per fare ciò che non sia astratto.
Ci sono esaltatori e ci sono critici di fascismo. Tanto esaltatori quanto critici ignorano quasi il carattere costruttivo del fascismo : in fondo vedono in esso la grande linea di Roma contro Mosca; ma poi, poi, lì si fermano e questo carattere assistenziale se vedono, cioè quando non trascurano non concepiscono mai collegato alla vera e profonda essenza del movimento. Gli è che la mentalità intellettualistica, propria alla borghesia moderna, ha contrapposto esteriormente i due termini della vita che sono « violenza » e « pietà ». Questo, per così dire « esteriorizzare » i due termini è causa di pacifismo rugiadoso d’un lato o di una indifferenza (una specie di “je m’en fiche”) rispetto al problema di « dare a ciascuno secondo il bisogno ». Fu il grido di guerra del socialismo, preteso distruttore delle basi stesse della economia borghese e della etica corrispettiva, questo « dare secondo il bisogno ».
Ora la assistenza è un punto vitale del fascismo. In essa il fascismo vede un momento del proprio essere, essere in cui lo slancio creatore è nel proletario che lavora, cioè sottopone la estranea natura — (attività creatrice nei moti proletari!) — ed insieme nella spirituale attività di chi dà secondo il bisogno.
Ritegno che il tramite tra il mondo antico ed il mondo moderno sia stato nella carità. Non è vero, o, no, che la compassione, a mo’ dello Schopenhauer, è soltanto in concezione pessimistica della vita. Ma se noi vediamo tutti i giorni questo terreo fascismo, questo espansivo fascismo, questo e-saltatore della prolificazione, creale colonie marine ed ospizi, dare sovvenzione per disoccupati, per figli di carcerati, ecc., cioè vediamo, coi nostri occhi, ogni giorno esercitare quella compassione che non si discelle dall’animo neppure in guerra dove violenza e pietà formano anzi i due momenti dello stesso svolgimento!
Chiunque ha studiato la storia del Cristianesimo o del Cattolicesimo, sa precisamente che l’ingresso della carità (precorsa del resto in certo senso e limitatamente dalla « pietas ») dà una nota caratteristica alla società nuova, e sa ancora come l’introduzione del lavoro tra le qualità morali (San Benedetto) è il passaggio forse più caratteristico ed interessante dalla romanità alla italianità. Seguendo la storia si sa ancora che se infausto fu lo agitarsi dei « ciompi » battuti in definitiva, pure la città è inconcepibile nel Medio-Evo avanzato e nella prima Rinascenza senza il lavoro elevato a coscienza.
La dignità del lavoro è penetrata negli animi e ne forma lievito efficiente. Per noi fascisti, tale dignità è il centro della concezione dei rapporti economici, dato che abbiamo ripudiato il così detto « economicismo ». E per noi ancora la assistenza, pure concepita a mo’ dei comunisti, entra nelle visuali di un sistema economico in cui s’ha da produrre sì, ma da produrre quasi in bene ordinata famiglia dove ciascuno lavora per tutti in fine comune.
A questo punto un lettore, poniamo uno di quei tali intellettuali che funzionano da zanzare, può saltar su a dire: « ma la si decida o per la attività creatrice o per la assistenza » ! O lettore non tirare in ballo la così detta logica con i suoi “aut aut” che non mi commuovi punto! Non ti arrampicare alla mentalità greca o alla mentalità tedesca! Non le disprezzo queste mentalità! Tutt’altro ! Ma ti raccomando di pensare con la testa tua. Ora, così pensando, vedrai che non è errato che io, assertrice della attività creatrice nei moti proletari, sostenga ancora la assistenza come è creata dal governo, tutto impregnato di vivace fascismo. Io non ti insulto, o lettore, chiamando la tua mentalità o greca o tedesca. Semplicemente ti classifico. Tu fai o lettore, come facevo io, ai miei diciotto anni, inesperta della vita, che tutto intendevo classificare. E credevo di possedere la verità. Ma così non penso in piena maturità. Penso all’unisono con la più giovine Italia, questa che sa aumentare il suo patrimonio gettando nella grande via della storia ogni sorta di tesoro, ogni genere di accorgimento: tutta, infine, la sua riposta sapienza.
Ecco che viene l’Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e della Infanzia, nata col proposito di condurre a perfetta vita il futuro italiano, ria quando è ancora «speranza di vita» fino alla gioventù conclamata; ecco l’Opera Nazionale Balilla, ecco colonie marine e montana ecco, infine ma non in ultimo, il Patronato Nazionale della C.N.S.F. (Confederazione Nazionale Sindacati Fascisti) che, nei limiti del realizzabile, tutela l’operaio negli infortuni viene incontro ai disoccupati con soccorsi, cerca lavoro, con una attività veramente encomiabile. Insomma si provvede a bisogni dello spirito e del corpo in continuità organica, tanto da giovare ai casi più gravi non solo, ma da dare la sensazione di uno Stato vigile.
Ma ecco che sorgono dubbi. Non accade forse che quella fonte viva della carità, che, per diverse ragioni viene esaltata da Maria Fernanda Masi e da Santo De Santis, venga disseccata dalla assistenza di Stato o in qualsiasi modo pubblica? E non accadrà forse che da noi come in Russia la famiglia si disgreghi? (i). Non siamo forse alle porte del socialismo?
Senza dubbio negli ordinamenti forti c’è un pericolo; è del legalismo che produce come un meccanizzarsi. Spetta quindi a quanti son in Italia solleciti del bene comune, vivificare ogni giorno, ogni ora starei per dire, ogni minuto, col divino afflato della carità, questa quotidiana assistenza di Stato, affinché non sia estranea alla coscienza di assistenti e di assistiti. E, quanto al comunismo, vale porre argine già fin da ora ad alcuni errori dei singoli individui i quali ritengono che la assistenza possa prendere il posto della responsabilità individuale. È un compito immenso che il fascismo ha in questa rinnovellata Italia. È di ordinare, sì, ma ordinare però su « basi spirituali » cioè introducendo dovunque lo spirito vivo.
E ciò, operando veramente — dico veramente — in questo modo, cioè pescando incessantemente nelle fonti pure dello spirito vivo, che il carattere nazionale della assistenza fascista, pur vivere distinto rispetto alla assistenza comunistica, per la quale ultima si spegne la ragione spirituale dell’assistere.
Son troppo matura di anni perché il mio pensiero possa abbandonarsi a folle corsa quasi di cavallo indomito in steppa immensa. E per cui io procedo grave e lenta; non mi esatto. Dio salvi dall’errore del così detto «revisionismo’» che fu di moda; ma al ripensamento ci tengo. questo, sì. Ora, ripensando questo problema dell’assistere, si deve andare cauti affinché non si ingenerino i mali del comunismo là dove vanno evitati. Così nella assistenza ad infanti e fanciulli s’ha da andare cautissimi, perché non divenga inutile la prima delle comunanze, questa che è centro del dovere congiunto alla dolce pietà, la famiglia dico. E s’ha da rendere responsabili donne ed uomini della nascita dei figli, affinché essi il concorso di Stato concepiscano nell’ordine in cui deve essere, non in luogo della famiglia ma anzi ad integrazione della naturale comunanza. E figli illegittimi non vanno esposti o abbandonati ad uno stato mitologico come accade in Russia; vanno attribuiti a quelli che li generarono, con diritti di potestà, se i generanti li meritano, a carico e senza diritti se questi sono non meritevoli.
Altre osservazioni farò in altra occasione perché non si ingeneri da noi una concezione che sta agli antipodi del vero fascismo, dottrina del rinascere nello spirito, e che non venga ritenuto paese di cuccagna la nostra Italia. Per ora ritengo sufficiente l’accenno.
Intanto vale porre in rilievo che il fascismo in atto ha superato alcune posizioni mentali ritenute insuperabili dai dottrinari; così non troviamo estranea quella volontà di potenza che fu tanto decantata alcuni decenni fa dai sostenitori del principio tedesco di autorità, la attività creatrice delle masse proletarie, e la assistenza a tutti quelli che non sono creatori in atto di valori economici.
Il « sindacato » che se è vitale fa parte precisamente della decantata «attività creatrice» sembra a me sia il tramite tra la potenza in idea e la potenza in atto. Questa potenza in atto non va concepita empiricamente o frammentariamente.
C’è tendenza alla concezione frammentaria; come altra tendenza c’è alla concezione puramente teorica.
Se critiche ho fatte qui, se in altra occasione farò, ciò non significa — almeno ritengo! — considerare il fascismo «ab extra». La capacità costruttiva del fascismo c’è ed io affermo questa attitudine quando mi è data occasione propizia per franca affermazione. Qui ho inteso delucidare qualche aspetto ed indicare qualche eventuale pericolo.
Siccome il fascismo si attua continuamente, così quelli che son chiamati alla attuazione potranno correggere man mano i difetti che si presentano caso per caso.
Resta fermo che il fascismo ha scelto per il sempreverde albero della vita contro le foglie morte della scienza fredda ed astratta.
Le antitesi degli astrattisti, il fascismo le sa vincere appieno. Su la via regia si è posto il fascismo italianissimo.

Paloscia L.M., Spirito, forme e sviluppi dell’assistenza sociale fascista, 6-7, 1933, pp. 346-355:

Le iniziative e le manifestazioni in genere dell’assistenza sociale sono sempre profondamente permeate dal pensiero politico dominante, sintesi della maturità etica ed economica dei popoli.
Prima del cristianesimo, l’assistenza sociale venne prevalentemente intesa come atto di liberalità, occasionale ed episodica, a favore dei ceti coatti alla schiavitù ed al lavoro, atti di liberalità che sovente furono piuttosto espressioni di prestigio o di vanità che spontanei impulsi di generosità.
I principi innovatori del cristianesimo posero a fondamento dell’assistenza sociale il sentimento di carità, in nome del quale ebbero impulso le iniziative private, sia individuali che collettive.
Nei regimi democratici e liberali furono introdotte alcune istituzioni pubbliche di beneficenza, comunemente denominate opere pie, sottoposte alla vigilanza e al controllo dello Stato, intese a completare con una forma giuridica l’esercizio della carità, funzione che acquisì presso vari autori il titolo di carità legale.
Dette istituzioni, infatti, erano dovute all’iniziativa privata e lo Stato interveniva esclusivamente per promuovere lo sviluppo e sorvegliare l’andamento amministrativo.
Fuori della diretta vigilanza dello Stato erano, invece, i vari comitati di soccorso, mantenuti con oblazioni di soci e di terzi, aventi scopi vari, più spesso temporanei ed occasionali, i quali fiorirono prevalentemente, infatti, in epoche di pubblica calamità, terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni, epidemie; ed, inoltre, alcune fondazioni anch’esse rivolte a scopi di beneficenza, istituite con elargizioni o con lasciti testamentari.
Nei rispetti dei comitati e delle fondazioni, lo Stato si limitava a riserbarsi l’autorizzazione delle pubbliche sottoscrizioni e il diritto di vigilare, affinché non si commettesse abuso della pubblica fiducia.
Tipica espressione delle opere pie propriamente dette è stata ed è la Congregazione di Carità costituita per legge in ogni comune, con il mandato precipuo di «legale rappresentante degl’interessi dei poveri» e la capacità di rimuovere i provvedimenti amministrativi, giudiziari e di tutela degli orfani e minorenni abbandonati, dei ciechi e dei sordomuti inabbienti, assumendone temporaneamente la cura nei casi di urgenza.
Vanno inoltre ricordate l’obbligo della amministrazione provinciale di mantenere i mentecatti; l’assistenza farmaceutica, ostetrica e sanitaria alle famiglie povere da parte delle amministrazioni comunali; il mantenimento degli inabili da parte dei ricoveri di mendicità con le proprie rendite ed eventualmente con i contributi dei comuni e dello Stato.
Siamo manifestamente nel campo della pubblica beneficenza, ossia del complesso d’iniziative e di provvedimenti i quali soccorrono prevalentemente situazioni individuali di necessità, per cui si ha, in altri termini, da una parte il pauperismo, dall’altra la filantropia, suffragata o meno dal consentimento e dall’intervento dei pubblici poteri.
Il nuovo spirito assistenziale
Quando al concetto di filantropia sostituiamo il principio dell’interesse della giustizia sociale, superiamo il confine della carità e della beneficenza ed entriamo con spirito nuovo nel campo dell’assistenza sociale.
Scopo della beneficenza è il soccorso in funzione di una necessità individuale, scopo dell’assistenza sociale è la concessione di un soccorso o, con termine più adeguato, di una prestazione assistenziale, in funzione di una utilità diretta o indiretta dello Stato. In altri termini, il soccorso data da una fondazione di beneficenza ad una madre o ad un fanciullo si esaurisce nell’atto stesso in cui viene erogato; invece il complesso organico delle istituzioni create dal Fascismo per la protezione della maternità e dell’infanzia non si esaurisce dal Fascismo per la protezione della maternità e dell’infanzia non si esaurisce nel fatto e nel momento della estrinsecazione, ma assolve ad un’alta funzione nazionale, consistente nello sviluppo e nel perfezionamento della razza.
Per rendere ancora più chiaro il nostro pensiero, diremo che lo Stato è al di qua e al di là dell’individuo assistito, sicché l’atto assistenziale parte dallo Stato e torna allo Stato, poiché si risolve non solo nel beneficio dell’individuo, ma anche nell’interesse superiore dello Stato medesimo.
Come dicevamo in principio, quando si parla di assistenza sociale siamo sempre in territorio politico e nel Regime Fascista che ha preso per motto “Tutto nello Stato, nulla al di fuori e al di sopra dello Stato” è intuitivo quale dovesse essere il nuovo indirizzo delle attività assistenziali, assurte nel breve spazio di un decennio ad un complesso, michelangiolesco, di ordinamenti e di istituzioni, tutte permeate dallo spirito che promana dall’assenza attiva ed operante dello Stato.
A maggior chiarimento, ricorderemo che i provvedimenti legislativi adottati nel passato a favore delle classi meno abbienti, rappresentavano conquiste politiche e sociali da parte delle categorie interessate, nel mentre, nel Regime Fascista, in applicazione del principio fondamentale della parità giuridica di tutte le categorie, sancito dalla Carta del Lavoro, le leggi assistenziali e previdenziali non rappresentano né una conquista da parte dei meno abbienti, né un sistema di manette, come anche da taluno fu scritto mercè le quali la plutocrazia e le classi capitalistiche in genere limitano le possibilità di una rivoluzione sociale.
Nel nostro Regime, i problemi dell’assistenza sociale assurgono ad obiettivi propri dello Stato, che se ne propone il proseguimento cd il perfezionamento, sicché le varie istituzioni, create in armonia con tale principio, rappresentano opportuni decentramenti in organi di diritto pubblico, parastatali, di vere e proprie funzioni dello Stato.
Per differenziare i caratteri che assumono tali attività nello Stato Fascista da quelli che rivestono in altre forme di Stato, quale il sovietico, accentratore, per diverso aspetto, di ogni funzione sociale, ricorderemo che nel mentre lo Stato bolscevico ha un esclusivo contenuto economico per cui è fatalmente destinato ad essere superato, lo Stato Fascista ha un essenziale contenuto etico, sicché nel primo gli individui vengono considerati come esclusive unità biologiche, nel secondo, invece, all’individuo è conferito il riconoscimento pieno e completo della sua personalità morale, sicché lo Stato Fascista non lo isola, ma ne armonizza la vita privata ed il complesso familiare con la vita pubblica ed il consorzio nazionale.
Quando parliamo di vita pubblica dell’individuo, intendiamo anche parlare dei suoi rapporti di lavoro, i quali, per effetto dell’ordinamento corporativo, vengono assoggettati ad una disciplina nazionale che lo accompagna dall’atto del collocamento, che si verifica per il tramite di un pubblico ufficio, al trattamento economico e giuridico regolamentato dai principi generali della Carta del Lavoro e delle norme particolari dei contratti collettivi dei quali ultimi ormai, nella contesa delle varie scuole giuridiche, è risultato affermato il carattere squisitamente pubblicistico, per il potere rappresentativo degli organi dai quali sono stipulati, per le molta inerenti alla pubblicazione, per la vigilanza sulla loro applicazione, esercitata da organi dello Stato.
In egual modo l’assistenza sociale viene definitivamente sottratta alla concezione pietistica e paternalistica dei cessati regimi e, una volta nell’orbita dello Stato, si attua sotto 1’aspetto politico e giuridico della solidarietà nazionale. La Carta del Lavoro, infatti, solennemente promulgata dal Gran consiglio Fascista nella storica notte dal 20 al 21 aprile 1927, nella sua dichiarazione prima statuisce: «La Nazione Italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori a quegli degl’individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato Fascista ».
Assistenza fisica e spirituale
Passando dal principio alle forme dell’assistenza sociale, riteniamo di porre innanzi tutto in rilievo gli istituti rivolti ad assicurare la continuità e lo sviluppo della potenza nazionale, poiché indubbiamente il numero e la forza secondo l’alto ammonimento di Benito Mussolini, nella nota prefazione al libro di Riccardo Korherr: “Regresso delle nascite, morte dei popoli”.
Per essere popolo forte bisogna essere innanzi tutto un grande popolo, capace di stimolare la produzione e di presiedere per estrinseca forza di espansione tutti gli sbocchi possibili, essendo ormai provato che la concentrazione nella natalità e la conseguente declinazione degli indici demografici producono, fra l’altro, limitazioni di consumo e conseguente squilibrio con l’attività produttiva.
Scrive il Duce: «Una Nazione esiste non soltanto come stona o come territorio, ma come masse umane che si riproducono di generazione m generazione »; e ancora: « Se un uomo non sente la gioia e 1’orgoglio di essere continuato come individuo come famiglia e come popolo; se un uomo non sente, per contro, la tristezza e la onta di morire come individuo, come famiglia e come popolo, niente possono le leggi, anche, e vorrei dire sopratutto, se draconiane ».
Attuazione nel campo assistenziale dei principi che suffragano la politica demografica mussolina è l’Opera Nazionale per la Materia e Infanzia, costituita con la legge 10 dicembre 1925, n. 2277, la quale si propone di esplicare attraverso comitati provinciali e comunali alti compiti, quali sono l’assistenza e la protezione delle gestanti e delle madri bisognose e abbandonate, dei bambini lattanti e divezzi sino al quinto anno, appartenenti a famiglie bisognose, dei fanciulli fisicamente e psichicamente anormali, e dei minori materialmente e moralmente abbandonati, traviati e delinquenti, fino all’età di anni 18 compiuti.
A queste finalità dirette, l’Onmi associa il compito di integrare le opere rivolte a tali scopi eventualmente già esistenti e di favorire la diffusione delle norme e dei metodi scientifici e di igiene prenatale e infantile nelle famiglie e negli istituti, anche mediante la creazione di ambulatori per la sorveglianza e la cura delle donne gestanti, specialmente in riguardo della sifilide. È tenuta, inoltre, a coordinare e vigilare tutte le istituzioni pubbliche e private per l’assistenza e la protezione della maternità e infanzia, con la facoltà di provocare delle competenti autorità governative adeguati provvedimenti e fondare, ove sia necessario, case di maternità, brefotrofi, asili nidi, baliatici ed altre istituzioni similari. A corollario di questa profonda azione, stanno le rigorose sanzioni del nuovo codice penale fascista, per la repressione dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, contro la integrità e la sanità della stirpe c il matrimonio, lo Stato, l’assistenza e la morale familiare.
Accanto a quest’opera intesa a non far più maledire la maternità alla quale si ridona dal Fascismo la suggestiva poesia dei divini sorrisi infantili e delle tenere carezze materne, sorge, possente di ampio giovanile respiro 1’Opera Nazionale Balilla, la cui funzione integra e completa, in qualche caso anche rettifica, l’azione educatrice, fisica e morale, della famiglia e della scuola.
Il Palopoli, dell’Università di Ferrara e della Scuola di applicazione giuridico-criminale della R. Università di Roma, commenta con le seguenti considerazioni la efficacia educativa di questa organizzazione: «Nessuno Stato ha avuto né ha mia organizzazione giovanile così perfetta, così disciplinata, così corrispondente agli scopi che sono a un tempo pratici e ideali. Il fanciullo italiano passa, senza soluzioni di continuità, dalle file dei Balilla a quelle degli Avanguardisti, da quelle degli Avanguardisti a quelle dell’Esercito e del Partito: il ciclo evolutivo ed educativo si compie così, .senza alcuna coercizione, ma per una logica successione nella quale il sentimento del dovere, l’amore alla patria e alle istituzioni, la robustezza dell’animo e del corpo si intensificano e si perfezionano».
Nell’Opera Balilla si forgia infatti il nuovo costume politico dell’Italia di domani, il che ci consente di guardare con fede e con profonda certezza al divenire della nostra Nazione.
Rivolta invece al miglioramento delle condizioni igieniche e morali dei lavoratori è l’Opera Nazionale Dopolavoro, la cui organizzazione centrale e periferica è direttamente avocata agli organi del Partito.
Quest’opera non si limita a distogliere i lavoratori dal degradante passatempo della bettola, ma assurge ad alte e profonde finalità, che sono state descritte con palpitante e vigoroso stile in una recente personale pubblicazione del Segretario del Partito.
Scrive, infatti, S.E. Starace: «Andare verso il popolo, per educarlo per elevarlo, per renderlo fisicamente e moralmente migliore, per fargli amare la sua terra, il suo paese, la sua famiglia e la sua casa; per infondergli il desiderio di conoscere il vero volto della Patria percorrendone le strade e sostando con occhi nuovi davanti alle sue infinite bellezze, avvicinandolo ai monti e ai mari, baluardi possenti, diversi e sicuri, dei limiti della sua terra, per farlo esperto al nuoto e alle scalate, alle necessità eventuali del suo domani guerriero! Per sciogliergli, nelle gioiose ed ingenue competizioni sportive, i muscoli e l’apatia, per ricondurlo alle tradizioni gloriose e dolci della sua gente, sieno espresse dalla policromia di un costume e dall’armonia d’una canzone, o da un corteo processionale che si snodi salmodiarne, da un sagrato vigilato da garrule campane, o da un ingenuo ballo campagnolo, sull’aia tersa e pavesata. Per apprendergli e fargli amare la musica, il canto, il teatro, la pittura, la scultura, la poesia, tutte le arti delle quali l’Italia ebbe in ogni tempo il primato e i cui gonfaloni furono dalla sua gente sciolti c fatti garrire in tutti i cieli del mondo. Per renderlo perfetto nel mestiere ed insegnargli che le vie della conquista si aprono con la fatica non con le pretese assurde e le inutili parole. Per assisterlo, infine, amorosamente e in ogni passo nella vita, assicurando a lui e alla sua famiglia quel benessere morale ed economico al quale la nuova e completa comprensione dei propri doveri dà al popolo italiano, rinnovato dal Fascismo, realmente e per la prima volta diritto ».
Accanto alle tre grandi Opere Nazionali, che diremo fondamentali, sorgono ogni giorno, per la operosità costruttiva del Regime, numerose nuove istituzioni, tra, le quali va ricordata, con giustificata fierezza, l’Opera Nazionale per gli Orfani di Guerra che coordina e soprattutto perfeziona le precedenti istituzioni rivolte all’assistenza dei figli dei caduti in guerra, geloso retaggio della nostra vittoria e della nostra gloria.
Previsti dall’art. 149 del nuovo Codice Penale, sono stati costituiti presso tutti i Tribunali del Regno, i Consigli di Patronato per i liberati dal carcere, cui è conferita la duplice attribuzione di prestare assistenza ai liberata dal carcere, agevolandoli, se occorre, nel trovare stabile lavoro, e di prestare assistenza alle famiglie di coloro che sono detenuti con ogni forma di soccorso ed, eccezionalmente, anche con sussidi in denaro.
Maggiore efficacia avranno tali istituti allorché nella loro orbita sorgeranno gli « assistenziari » e cioè stabilimenti di lavoro per i liberati dal carcere, i quali, per ovvie ragioni, incontrano, specie nei primi tempi, particolari difficoltà e resistenza nel collocamento sia presso le opere pubbliche che private. I primi grandi assistenziari sono sorti a Palermo e a Napoli, ma sono già in progetto quelli di Bari e di Roma, destinati non solo a fornire lavoro e guadagno agli ex detenuti, ma a favorirne l’istruzione professionale e la riabilitazione sociale, a conferma di tutto lo spinto della legislazione penale fascista, informato ai moderni principi del processo evolutivo ed educativo della personalità umana.
Legislazione del lavoro e previdenza sociale
Un particolare, imponente settore è quello della previdenza, che dalla dichiarazione XXVI della Carta del Lavoro è definita « un alta manifestatone del principio di collaborazione».
Preciseremo tale concetto con la illustrazione datane dal Barenghi, il quale chiarisce che la «previdenza sociale: parte dall’idea di salvaguardia a favore della collettività, da un danno sicuro, economico o fisico, conseguente a un evento certo, possibile, richiama quindi sovente l’idea di assicurazione (basato appunto sul principio del rischio) e tutte le attività che ad essa si riconnettono».
All’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale, che è succeduto alla Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali, è affidata la gestione delle forme previdenziali, a base mutualistica, ossia costituite dal contributo assicurativo paritetico ed obbligatorio dei datori di lavoro e dei lavoratori. Detto Ente amministra, pertanto, la concessione di assegni vitalizi per in. validità e vecchiaia, opportunamente aumentati dal Governo Fascista assegni di morte, assegni e sussidi per la maternità, sussidi per la disoccupazione involontaria, e le prestazioni contemplate dalla recente legge sull’assicurazione obbligatorio contro la tubercolosi, la quale, rauca al mondo per il suo vasto campo di applicazione, si estende non soltanto agli 8 milioni di assicurati, ma, provvidamente, ai loro famigliari, per un complesso di oltre 20 milioni di persone, per cui si è reso necessario disporre impianti di ospedali e sanatori per almeno 18 mila letti, con la previsione di una spesa di oltre 500 milioni. I cittadini inabbienti e non assicurati trovano a loro volta assistenza e tutela da parte dei benemeriti Consorzi provinciali antitubercolari, la cui azione si è già rivelata altamente efficace e benefica.
In applicazione della dichiarazione XXVII della Carta del Lavoro, lo Stato Fascista si propone il perfezionamento delle forme assicurative preesistenti e l’attuazione di nuove provvidenze; l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, già in atto, e quella in corso di promulgazione, attendendosene il solo regolamento, sulle malattie professionali, costituiscono, infatti, come la dichiarazione su ricordata avverte, l’avviamento all’assicurazione generale contro tutte le malattie. A tale scopo sono state già realizzate istituzioni a base corporativa e vanno ricordate l’assicurazione contro le malattie della gente del mare e dell’aria e la Cassa Nazionale Malattie per gli addetti al Commercio che è veramente un mirabile esempio di organizzazione in proposito.
Negli altri campi del lavoro, e cioè nei settori dell’industria e dell’agricoltura, sono state realizzate, per iniziativa delle rispettive Associazioni sindacati di categoria, numerose ed importanti Casse mutue malattie sicché al 31 dicembre 1932 si contavano 11 Mutue con 140 mila iscritti per i lavoratori agricoli, nonché 1474 Mutue aziendali, 114 interaziendali, 287 professionali e 4 nazionali di categoria (stampa, gas, orchestrali, artisti lirici) per l’industria.
L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in dipendenza dei recenti provvedimenti legislativi, che furono preceduti da esaurienti studi ed ampi dibattiti in seno al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, sulla traccia di una documentata ed aggiornata relazione ministeriale, è stata a data ad Istituto unico e, precisamente, alla Cassa Nazionale Infortuni, trasformata in Istituto Nazionale Fascista per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni degli operai sul lavoro.
Ma soprattutto importanti nel campo infortunistico è l’evoluzione del diritto assicurativo, sicché l’evento dannoso, violento, che subisce il lavoratore – il cui risarcimento nella prima fase della organizzazione industriale moderna venne regolato dai principi generali di diritto e sul quasi delitto, di cui all’art. 1151 del Codice Civile, essendo nato all’accertamento di una responsabilità sia pure lieve da parte del datore di lavoro, – passò in un secondo tempo sul terreno della responsabilità contrattuale e quindi nella fase giuridica attuale di «rischio professionale» costituendosi, al principio fondamentale della colpa, quello dell’occasione di lavoro, con l’onere dell’assicurazione a totale carico dei datori di lavoro, in corrispettivo del risarcimento non integrale, corno nei casi di responsabilità civile, ma forfettario che l’operaio infortunato riceve, in base ad apposite tabelle.
Nella riforma in corso di attuazione, in applicazione della dichiarazione della Carta del Lavoro che avvisa il perfezionamento della legge infortuni, verranno introdotte alcune modifiche radicali all’attuale si sterna tecnico-economico della legge, la quale, oltre ad avere un più largo campo di applicazione prevede l’assicurazione di diritto anche per gli infortuni industriali, come già avviene per gli infortuni nell’agricoltura, col perfezionamento del pagamento della indennità in rendita, anziché in capitale, per meglio e più razionalmente assolvere alla funzione riparatrice che l’indennizzo deve avere, nonché la gratuita prestazione delle cure chirurgiche e fisioterapiche.
La dichiarazione XXVIII della Carta del Lavoro ha assegnato alle Associazioni sindacali la tutela dei loro rappresentati nella pratiche amministrative e giudiziarie relative alla assicurazione infortuni e alle assicurazioni sociali ed in attuazione di tale principio è sorto il Patronato Nazionale per l’assistenza sociale, ente parastatale, a mezzo del quale le Confederazioni Nazionali dei lavoratori, in unione ai rappresentanti del Partito e del Ministero delle Corporazioni, con unità d’indirizzo giuridico e medico-legale, assolvono a vaste complesse funzioni.
L’attrezzatura tecnica del Patronato Nazionale ha raggiunto in pochi anni un perfezionamento pienamente adeguato al raggiungimento dei suoi scopi, mercè un personale specializzato ed ima completa organizzazione centrale e periferica di ambulatori medici, gabinetti radiologici e uffici legali, i quali non soltanto assicurano ai lavoratori un tutela obiettiva e scientifica, ma conseguono il fine più alto della moralizzazione di un campo infestato dalle più insidiose forme di mistificazione e di speculazione, come attestano innumeri processi che hanno gettato una sinistra luce sopra alcuni sistemi di patrocinio, rivolti ad organizzare illeciti e pericolosi abusi.
Il Patronato Nazionale, che nei primi sei anni di attività ha assistito 1 milione e 100 mila operai, facendo loro liquidare 800 milioni di indennità, presta inoltre la sua amorevole assistenza ai connazionali rimpatriati ottenere loro, per il tramite del Ministero degli Affari Esteri, il riconoscimento dei diritti acquisiti nel campo delle assicurazioni sociali e delle vertenze di lavoro, durante la permanenza all’estero, rapporto alla legislazione sociale vigente negli altri Stati ed agli accordi internazionali in tale materia.
Meritano, inoltre, di essere ricordati altri due Istituti che prodigano l’attività nel settore infortunistico e cioè, il benemerito istituto per l’Assistenza ai Grandi Invalidi del lavoro che fornisce gratuitamente ai minorati per infortuni multiformi prestazioni, fra le quali, principalmente, apparecchi di protesi, cure, ricoveri e sussidi, e l’istituto La Vigile, emanazione della Confederazione Nazionale dell’industria, ohe può provvedere alle prestazioni sanitarie, agli operai infortunati, in nome e per conto di ditte industriali ed eventualmente di associazioni ed enti.
Numeroso ed imponente è il gruppo dei sistemi previdenziali per il personale statale e per le opere assistenziali create a favore di tale vasta categoria di funzionari ed agenti, a cui il nuovo ordine fascista ha assegnata una più rigorosa disciplina, ma nel contempo un più alto prestigi» ed una completa assistenza.
Meritano particolare menzione, fra le molte opere ed istituti rivolti a tale scopo, l’Opera di Previdenza Sociale per la M.V.S.N., istituita nel 1929; gli ”Istituti di previdenza e mutualità fra i magistrati italiani e tra i funzionari delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie; l’Opera di previdenza per il personale delle ferrovie e l’Istituto Nazionale di previdenza e credito delle Comunicazioni; gli Istituti di mutualità e previdenza fra il personale telegrafico, telefonico e postale e per i titolari degli uffici secondari, ricevitori postali ed agenti rurali; l’Istituto Nazionale per gli orfani degl’impiegati civili; l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza per gli addetti alle aziende industriali dello Stato, ed i loro orfani, e infine, recente realizzazione a favore di una categoria di liberi professionisti, l’Ente di previdenza fra gli avvocati e procuratori, istituito con la legge del 1 aprile 1933.
Regime di popolo
Il quadro dell’attività assistenziale del Regime si completa con l’opera benemerita dei Fasci Femminili e con quella imponente, profonda e vasta dell’Ente Opere Assistenziali, creato nel suo seno dal Partito il quale, integrando l’avvenuta azione sociale svolta dal Ministro dei Lavori Pubblici, mercè una considerevole mole di lavori, ha assicurato al nostro popolo inverni tranquilli, nonostante le gravi perturbazioni internazionali provocate da una crisi economica dovuta non a fattori transitori, ma a crisi di sistemi politici ed economici, per cui la soluzione di essa è soprattutto nello svecchiamento dell’Europa liberale e democratica e nella generale attuazione dei principi corporativi dello Stato Fascista.
Il Regime, investendo in pieno tutti gli aspetti della politica sociale, ha apprestato, inoltre, un vasto piano di bonifica, inteso a liberare vasti territori dal flagello malarico, il che, in uno agli altri scopi che la bonifica si propone, consentirà una proficua opera di colonizzazione interna, intimamente connessa col problema demografico ed emigratorio, poiché apre un nuovo sbocco alle nostre masse rurali in altri tempi costrette a concedersi come merce umana ai proprietari delle grandi fattorie d’oltre oceano.
La bonifica, infine, per il suo aspetto igienico-sanitario, va associata all’imponente gruppo di provvedimenti di biologia « di medicina sociale, quali la lotta antitubercolare, la profilassi antimalarica, il regolamento generale per l’igiene del lavoro, le leggi particolari per la protezione del lavoro delle donne e dei fanciulli, le assicurazioni contro le malattie, gli studi per la riforma ospedaliera, provvedimenti i quali dicono al nostro popolo come il Governo Fasciata al sentimento umiliante della pietà abbia sostituito quello altamente civile del dovere sociale.
Nel secondo decennale della Rivoluzione, gli studi già in corso per la semplificazione ed il coordinamento della legislazione sociale e degli Istituti sorti a tali scopi varranno a perfezionare il lavoro compiuto, permettendo di presentare un panorama di ordinamenti sociali che daranno la esatta «ira del profondo interesse del Regime Fascista per il popolo che lavora. Per concludere queste brevi considerazioni con un’alta constatazione ricorderemo che al secondo Congresso di studi corporativi, tenutosi in Ferrara un illustre ospite volle ricordare che Emanuele Kant, fedele e puntuale nella tradizionale passeggiata, una sola volta sola nella vita cambiò itinerario: quel giorno era scoppiata la Rivoluzione Francese. Se fosse stato ancora vivo — concluse S.E. Manoilescu – il grande filosofo avrebbe cambiato per la seconda volta il suo itinerario, siamo infatti alla Rivoluzione Fascista.
Questi autorevoli e costanti riconoscimenti stanno a significare che i principi e le forme della politica sociale fascista incidono gli stessi solchi universali e incancellabili del diritto e della giurisprudenza romana.

Corso di specializzazione in tecnica delle previdenza e assistenza sociale, 8-9-10, 1933, pp. 467-468:

Ad iniziativa del Centro di cultura e propaganda corporativa di Genova è stato tenuto, nei mesi di maggio e giugno del c.a., in quella città un “Corso di specializzazione in tecnica della previdenza e assistenza sociale», con lo scopo di perfezionare la cultura professionale e di fornire nozioni specifiche ai dirigenti e funzionari sindacali, ai dirigenti e funzionari degli Istituti di mutualità e previdenza, ai funzionari e impiegati delle aziende industriali, commerciali ed agricole, addetti ai servizi di assicurazioni sociali, ai laureati e studenti della R. Università e Istituti superiori.
Durante tale corso sono stati impartiti i seguenti insegnamenti:
1° Tecnica delle assicurazioni;
2° La previdenza e l’assistenza nell’aspetto economico, politico e sociale;
3° La legislazione italiana dell’assistenza e previdenza sociale;
4° Elementi di medicina del lavoro.
Le lezioni hanno avuto un carattere eminentemente pratico e sono state integrate da esercitazioni pratiche (visite ai principali Istituti di assicurazione sociale, ecc.), e da conferenze e lezioni su argomenti singoli di speciale importanza. Il Centro di cultura e propaganda corporativa di Genova, in considerazione dei lusinghieri risultati conseguiti, si propone dì ripetere nel prossimo anno 1933-34 tale Corso, perfezionandolo e aumentando il numero delle lezioni.

Uffici di assistenza della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, 1935, 9-10, pp. 473-475:

La Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Industria pubblica mensilmente un interessante « Notiziario » intorno alla complessa attività confederale ed alla vita sindacale e corporativa.
La prima parte è dedicata agli scritti e discorsi riguardanti i Problemi del lavoro e della produzione; la seconda reca notizie di carattere economico; la terza raccoglie tutti i provvedimenti legislativi interni riflettenti la disciplina giuridica dell’economia. Segue poi a quarta parte in cui è sistematicamente registrata la legislazione sociale dell’estero, insieme all’attività dell’Organizzazione internazionale del lavoro; la quinta parte raccoglie quella parte di giurisprudenza del lavoro che più direttamente si riferisce alla vita industriale. Altri cinque capitoli sono dedicati all’attività ed alle disposizioni confederali, ai dati statistici relativi al tesseramento, alle vertenze individuali e collettive ed alla stipulazione dei contratti di lavoro, a notizie di carattere vario ed alle segnalazioni bibliografiche.
L’utilità di una tale pubblicazione è rilevante e non si circoscrive nell’ambito, tuttavia assai vasto, delle Federazioni Nazionali e delle Unioni provinciali, ma si estende a quanti, Enti o persone, si occupano della vita sindacale e corporativa del Regime.
In uno degli ultimi fascicoli, sotto la rubrica dell’Attività Confederale, apprendiamo notizie del più alto interesse in materia di assistenza a favore dei lavoratori dell’industria. Le riassumiamo, sicuri ai far cosa gradita ed utile ai lettori della nostra rivista.
Con circolare del Giugno 1934 la Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’industria invitava tutte le Unioni ad istituire presso le loro sedi un ufficio di assistenza sociale, specialmente dedicato al benessere morale e materiale delle maestranze, attraverso un interessamento che si rivolge a tutte le necessità del lavoratore, come uomo, padre e cittadino.
Questo primo provvedimento voleva sanzionare e tradurre in pratica attuazione il principio affermato dalla Carta del Lavoro in materia di assistenza.
Con il sorgere ed il consolidarsi dell’iniziativa sindacale, anche nel campo sociale, tutti gli operai a qualunque azienda essi appartengano, possono agevolmente usufruirne, ed il sindacato si avvicina, tramiti gli uffici di assistenza sociale, all’operaio ed alla sua famiglia « per tessere, come ha scritto il Duce, la trama della simpatia con fili invisibili, ma potenti, che legano gli spiriti e li rendono migliori ».
La Casa del sindacato diventa pertanto anche la casa di tutte le assistenze agli operai, che debbono trovare negli uffici di assistenza sociale sindacali chi li accoglie fraternamente, chi li ascolta con interesse e con benevolenza, chi opera e provvede per loro con amore e sollecitudine.
Questi Uffici, cui la Confederazione provvede a dare di mano in mano una attrezzatura tecnica tutta particolare, assegnando agli uffici stessi persone preparate ed idonee — le assistenti sociali — debbono nettamente differenziarsi nelle finalità e nel metodo dagli uffici caritativi e con scopi puramente filantropici.
Il servizio sociale non deve mirare a dare soccorsi sporadici e temporanei per riparare materialmente ad uno stato di disagio, ma deve rimettere gli individui nelle migliori condizioni fisiche e morali, attraverso una serie di interventi.
Stabilite, attraverso la diagnosi sociale, le circostanze che determinano una data richiesta e che rappresentano le cause dell’alterazione a vita normale dell’individuo, si procede alla risoluzione del sin-go o caso di assistenza, avendo di mira il benessere del singolo non considerato a sè stante, ma ai fini del supremo benessere generale e dando all’azione riparatrice, sia contemporaneamente, sia nella continuità del tempo, un triplice aspetto assistenziale, sociale, educativo.
Con questa impostazione teorica e pratica, sorgono e si sviluppano gli uffici di assistenza sociale presso i Sindacati, affidati alla tecnicità delle «Assistenti sociali ».
La scelta delle Assistenti deve essere accurata e selezionata fra elementi idonei per inclinazione naturale ed appositamente preparati. Per favorire tale preparazione la Confederazione ha istituito alcune borse per giovani donne fasciste che frequentano la Scuola Superiore Fascista di Assistenza Sociale, istituita in Roma dal Partito Nazionale Fascista.
Gli uffici periferici funzionanti alla fine del mese di aprile, con il concorso delle assistenti specializzate, erano sette: Roma, Milano, Torino, Genova, Napoli, Firenze e Terni.
Per dare uniformità di direttive a tutti gli Uffici istituiti ed istituendi, la Confederazione ha creato l’Ufficio Centrale di Assistenza, che ha il compito di provvedere il personale specializzato, assegnarlo alle varie sedi, dirigerne, guidarne e controllarne l’attività, mediante continui, ininterrotti rapporti.
È compito, inoltre, dell’Ufficio Centrale quello di potenziare l’azione degli Uffici periferici, sia continuando e perfezionando la preparazione tecnica delle Assistenti, sia funzionando come centro di consultazione e di propulsione per nuove iniziative e per lo sviluppo delle varie attività.
Notevole è la collaborazione che l’Ufficio Centrale di assistenza dà alla risoluzione dei singoli casi proposti dalle sedi periferiche e che richiedono uno svolgimento negli Uffici aventi sede a Roma (Ministeri) Corte dei Conti, Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale, Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, Patronato Nazionale per l’Assistenza Sociale, Opera Nazionale per la Maternità e l’infanzia etc.
Il quadro delle prestazioni, per il periodo che intercorre tra il mese di ottobre 1934 e il mese di aprile c. a., è il seguente: Corrispondenza: 6468 – documenti: 2229 – visite mediche: 645 – buoni alimentari: 1939 – visite in ambulanza medico-sociale: 1119 – prestazioni sanitarie 645 – medicinali: 863 – visite domiciliari: 683 – viaggi a riduzione: 16 – distribuzione libri: 1411 – sopralluoghi negli uffici: 1950 – ricoveri: 252 in istituti dipendenti dalle Assicurazioni Sociali, 72 in altri luoghi di cura ; invii in colonie montane.
Da queste cifre sono escluse le prestazioni riguardanti 1 assistenza agli operai infortunati, e quelle riferentesi all’applicazione delle leggi sociali per le malattie professionali, la disoccupazione, 1’invalidità e la vecchiaia, la tubercolosi, per le quali le Confederazioni Fasciste dei Lavoratori dell’industria, dell’Agricoltura, del Commercio, del Credito ed Assicurazione si valgono esclusivamente del loro organo tecnico specializzato: Il Patronato Nazionale per l’Assistenza Sociale, le cui sedi Provinciali, secondo le vigenti norme statutarie, sono stabilite presso le Unioni provinciali delle Confederazioni stesse.

Solidarietà fascista, 1935, 9-10, p. 505:

Con l’autorizzazione ed il concorso dell’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale la Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Industria ha istituito un servizio sociale presso i seguenti sanatori: Roma Roma (Forlanini), Milano (Vialba), Arezzo (G. Garbasso), Galliera Veneta, Napoli (G. Armanni). L’istituzione di questo servizio da parte dell’organizzazione sindacale ha lo scopo di cementare con interessamento umano e fraterno i vincoli che uniscono l’operaio e la sua famiglia al sindacato. Gli ammalati più degli altri hanno bisogno di assistenza morale e materiale e mediante l’istituzione del servizio sociale essi, oltre alle cure fisiche, hanno un sollievo morale, che è completamento necessario e presupposto indispensabile al recupero della salute. Data la loro utilità, tali servizi andranno rapidamente aumentando, con evidente beneficio della massa lavoratrice. Questa notizia merita di essere sottolineata. L’iniziativa della Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Industria per gli operai degenti nei sanatori, porta l’impronta inconfondibile della nobile fraterna solidarietà del lavoro, elevato dalla Rivoluzione delle Camicie Nere alla più alta dignità politica e morale. La decisione della massima organizzazione operaia dell’industria, attestare un fatto di somma importanza: e cioè che infinite sono state le possibilità del Sindacato, quando non lo si consideri da un punto di vista meramente economico o giuridico ma come, ha detto il Duce, una seconda famiglia dell’opera.

Recensione a CFLI, Guida per le assistenti sociali, 1939, 1, pp. 105-106:

«La scuola superiore di assistenza sociale del Partito Fascista – scrive l’on. Cianetti – è una scuola di missionarie. Missionarie, però, che debbono essere ferrate nella conoscenza pratica dei provvedimenti e delle leggi del Regime, che formano un’imponente raccolta nella quale solo un esperto può dirigersi con assoluta sicurezza. Se si pensa al cammino percorso dalle primissime forme assistenziali organizzate da alcuni Municipi tra il 1892 e il 1894; e dai Segretariati del popolo, meschini strumenti di speculazione politica, che trascinarono la loro vita inutile fino al 1922; al complesso dell’assistenza fascista, si può misurare che cosa sia un Regime che può dirsi il creatore della solidarietà nazionale. Ma questa solidarietà ha bisogno di un metodo rigoroso e di una attrezzatura sempre più profonda e sistematica. Da qui, anche nel campo particolare dei servizi sociali, la necessità di scuole, di libri, di guide» (Recensione a CFLI, Guida per le assistenti sociali, 1939, 1, pp. 105-106, p. 105).

L’assistenza del partito ai lavoratori dell’Impero, 1939, 3, pp. 301-302:

L’istituto fascista per gli infortuni sul lavoro ha svolto nel corso di 4 anni la seguente attività: infortuni denunziati e trattati 56.121, indennità pagate a tutto il 1937 L. 37.967.250,60 e prestazioni sanitarie 68.664. ha inoltre fatto sorgere un ospedale grandioso in Asmara, che si aggiunge a quello di Addis Abeba. Il Patronato nazionale ha trattato 12.184 pratiche seguite da liquidazione, per la complessiva somma di L. 8.660.304. Il fondo malattia presenta le seguenti cifre: casi di malattia assistiti 161.765, giornate indennizzate 2.013.020, sussidi pagati L. 26.451.508, indennità agli eredi L. 8.000.000 (L’assistenza del partito ai lavoratori dell’Impero, 1939, 3, pp. 301-302, p. 301).

La rivista cessò le pubblicazioni nel luglio 1943 per poi essere di nuovo assunta dalla CGIL nel 1947. Nel 2003 cambiò il titolo in “La rivista delle politiche sociali”. In realtà il PNAS era già stato sciolto dal Duce nel 1942 (DM 29 ottobre 1942) e le sue funzioni trasferite al sindacato unitario prima della sua scissione nel 1950. Dal divorzio tra CGIL e CISL, che presero strade differenti in ragione del proprio orientamento ideologico, nacquero una serie di enti di patronato ciascuna con una propria redazione ed un proprio organo di stampa: “Assistenza sociale: rivista bimestrale dell’Istituto Nazionale Confederale di Assistenza” (1947-2003) promosso dalla CGIL; “Notiziario INAS: mensile dell’Istituto nazionale assistenza sociale” (1966-1970) diventato poi “Il patronato dei lavoratori” (1971-1995) promosso dalla CISL; “Lavoro italiano” (1948-1985) poi “Lavoro e società” (1986-1993) promosso dalla UIL; “La tutela del lavoro: rivista bimestrale dell’Ente Nazionale di assistenza sociale” (1964-1997.2002-2013) promosso dalla CISNAL-UGL; “Sicurezza sociale: dottrina-giurisprudenza-informazioni” (1952-1987) già “Informazioni sociali: rivista mensile del lavoro” (1922-1937) poi “Quaderni di azione sociale” (1954-1998) promosso dalle ACLI; “Notiziario” (1945-1955) promosso dall’ONARMO (Opera nazionale assistenza religiosa e morale agli operai).

Premessa ai 40 anni di storia, battaglie, dibattiti, proposte della Rivista dell’Inca-Cgil, Federico Pietrantonio, Ediesse, Roma, 1987, pp. XVII-XVIII:

Il nuovo numero de « L ‘Assistenza Sociale» esce nel gennaio del 1947 con una copertina ed una veste tipografica non ricche ma nell’insieme abbastanza dignitose: il direttore Aladino Bibolotti, primo presidente dell’Inca, tiene a precisare nella «presentazione» che la Rivista «nasce come già nacque l’Inca (11 gennaio 1945), senza mezzi e tra mille difficoltà ».
Il titolo di per sé non è del tutto originale (anzi!..); considerata la sua significazione rigidamente « assistenziale», esso appare oltretutto troppo stretto e riduttivo rispetto all’ampiezza degli obiettivi programmatici che la Rivista si pone sin dal primo numero: il rapido superamento del sistema mutuo-previdenziale vigente alla fine del conflitto mondiale ed il raggiungimento di un adeguato sistema di sicurezza sociale per tutti i cittadini.
Questa linea è quella che scaturisce dalla risoluzione finale del I Convegno nazionale Inca del maggio 1947 (la risoluzione fu pubblicata dalla Rivista nel suo numero VI anno I). Questa prima presa di posizione, valida ancora oggi in rapporto al suo obiettivo finale, è stata oggetto, nel corso di quest’ultimo quarantennio, di un dibattito che ha visto «L’Assistenza Sociale» continuamente impegnata in un grande sforzo di presenza, di elaborazione e di proposta.
Abbiamo ricostruito la portata di questo impegno, rivisitando le annate della Rivista, gli articoli e gli scritti in essa contenuti; rincontrando con piacere molti degli autori (ma molti sono quelli che ci hanno lasciato), dal cattedratico al dirigente sindacale, dal medico all’operatore di patronato, dal legale al delegato della sicurezza sociale; e rivivendo il clima politico-sociale di un quarantennio spesso drammatico poche volte esaltante.
La ricostruzione storica dell’impegno della Rivista dell’Inca in direzione delle conquiste sociali nell’ultimo quarantennio, è contenuta nella prima parte di questa pubblicazione. Distribuito per ciascun decennio e nei suoi termini essenziali, questo impegno può essere così sintetizzato:
1947 – 1956. Nei primi tre anni della sua vita, due sono gli obiettivi principali della Rivista: la battaglia per la realizzazione della riforma previdenziale dopo l’affossamento delle 88 mozioni della Commissione D’Aragona («ma la promessa riforma non parte mai, viene sempre palleggiata da un ministro all’altro»); e l’opera di socializzazione del «sapere previdenziale» verso i lavoratori e gli operatori di patronato della periferia (tra l’altro, vengono pubblicati i primi inserti monografici della Rivista, le « Segnalazioni », ed i primi estratti di saggi in materia medico-legale).
All’inizio degli anni ’50, in forza anche dei presupposti politico-economici che sorreggevano il Piano del Lavoro lanciato dalla Cgil, la Rivista opera la grande svolta nella lotta antinfortunistica: « il capitale umano è la maggior ricchezza del Paese». Da qui la denuncia della politica del “super sfruttamento” nelle fabbriche (maggiore produttività, evasioni contributive selvagge, prolungamento degli orari di lavoro) e la battaglia sociale per attenuare le cause della «grande miseria » degli italiani (più case, ospedali, scuole, asili, lavoro).
Dopo la Conferenza Inca di Milano sugli infortuni (più che alle cause soggettive, l’incremento degli infortuni è legato alle modalità che regolano l’organizzazione del lavoro nelle aziende), la Rivista apre un grosso dibattito anche in direzione dei problemi previdenziali dell’agricoltura: l’occasione è data dalla normativa riguardante l’estensione ai coltivatori diretti, mezzadri e coloni della tutela di malattia, e dalle molteplici leggi di modifica della disciplina sugli elenchi anagrafici dei braccianti agricoli. La discussione mette in rilievo questa contraddizione di fondo: malgrado le variazioni intervenute nella condizione contadina (ma anche operaia, specie nelle grandi fabbriche, ove tra l’altro sorgono le prime casse mutue autonome) il sistema previdenziale non riesce ancora a adeguare la sua normativa, per il superamento delle congenite differenziazioni e discriminazioni nei trattamenti, e la sua struttura operativa parcellizzata burocraticamente in decine e decine di organi erogatori. Perfino le procedure per la liquidazione delle prestazioni sono fonti di ostacoli e di complicazioni per gli assistiti: « semplificare», strilla il titolo dell’articolo di apertura di un lungo dibattito, aperto dalla Rivista a metà degli anni ’50, per lo snellimento delle fasi procedurali amministrative.
1957 – 1966. — All’inizio del suo secondo decennio, la Rivista fornisce per la prima volta interessanti e cospicue analisi sul sistema di finanziamento della previdenza: l’approfondimento di questo aspetto è dettato anche dal fatto che la Cgil prende finalmente decisa posizione sullo sfascio del sistema mutualistico (intanto, per salvare qualcosa, l’Inam si impegna anche ad inventare una sua « piccola rif orma », ampiamente strombazzata), varando un primo progetto per la realizzazione di un organico Servizio sanitario nazionale. Il dibattito aperto dalla Rivista si accende specialmente in direzione degli aspetti della prevenzione: mentre si denunciano i limiti, le inadeguatezze e la inutile frammentarietà della recentissima regolamentazione antinfortunistica, si propone la istituzione nella fabbrica di un reale Servizio di medicina del lavoro al posto del medico di fabbrica, sempre più legato alle politiche del padronato. Attraverso inchieste, indagini, dibattiti ed interventi che si protrarranno lungo tutti gli anni ’60, la Rivista giunge a definire una nuova dimensione del rischio professionale, che, viene affermato, ha le sue connessioni anche nei confronti dei rapporti sociali di produzione (Convegno Inca sul rischio, 1964). La tematica degli infortuni sul lavoro forma oggetto di dibattito anche per quanto riguarda gli aspetti della tutela: la normativa del Testo unico del 1965 ha acquisito purtroppo soltanto pochissime delle molteplici proposte di modifica che l’Inca aveva prospettato nel corso del quindicennio precedente. L’altro grosso argomento discusso nel periodo in esame — e per il quale non poche sono state le proposte avanzate dalla Rivista — è quello relativo all’estensione dell’assicurazione di malattia ai lavoratori autonomi (nel 1954 ai coltivatori diretti, nel 1956 agli artigiani e nel 1961 ai commercianti: tentativi ancora incongrui e contraddittori per porre riparo, alla meglio, a situazioni sociali oramai insostenibili ed esplosive).
Non manca, naturalmente, l’approfondimento a più voci, su quasi tutti i numeri delle varie annate, di quelle situazioni che alimentano il contenzioso « organico» della politica dell’Inca nei confronti degli istituti assicuratori: il perpetuarsi degli indirizzi fiscali ed il protrarsi dei ritardi riscontrabili al momento del riconoscimento dei diritti sociali dei lavoratori.
1967 – 1976. — Con i numeri degli ultimi anni ’60, la Rivista accentua il suo impegno nell’approfondimento dei temi che sono alla base della riforma previdenziale e pensionistica, un argomento che è ormai in cima alla piattaforma rivendicativa del movimento operaio da moltissimi anni. Le grandi lotte a livello nazionale condotte nel 1968 e nel 1969 portano finalmente alla realizzazione di una grande conquista sociale: la pensione non più legata ad ancoraggi rigidamente assicurativi ma a presupposti di ampia solidarietà tra i lavoratori ed i cittadini meno abbienti. All’attuazione di questo principio, e di altri ancora, molto ha contribuito la battaglia ventennale portata avanti da « L ’Assistenza Sociale».
Nel dibattito della Rivista le problematiche connesse alla riforma pensionistica sono strettamente unite a quelle riguardanti la difesa della salute e in particolare, alla prevenzione dei rischi professionali su quest’ultima direzione svolge un ruolo di dibattito e di proposta del tutto originale il supplemento del la Rivista, «Rassegna di medicina dei lavoratori»-nata con il numero VI, 1967 de «L’A.S», «Rassegna» costruisce infatti, fino alla metà degli anni ’70 e in parallelo con la Rivista, la linea strategica della Cgil nella lotta contro i rischi nei luoghi di lavoro e per la realizzazione della riforma sanitaria.
“Nel 1975 viene presentato il Manuale enciclopedico dell’Inca: una summa, articolata in tre tomi, dei contenuti, delle esperienze e della cultura storica tesaurizzati nella Rivista nel corso di un trentennio di attività.
1977 – 1986. — Con il 1978, alcuni dei temi sociali su cui la Rivista aveva molto insistito negli anni precedenti, trovano finalmente sbocco sul piano legislativo: vengono varate, tra le altre, la legge n. 180 sulla medicina psichiatrica e la legge n. 833 di riforma sanitaria, fortemente voluta da tutte le forze progressiste. De jure condendo, viene presentato l’annoso progetto di riforma previdenziale, si introduce il dibattito sul costo de! lavoro, inizia una discussione seria al momento de! varo delle leggi finanziarie annuali (Premessa ai 40 anni di storia, battaglie, dibattiti, proposte della Rivista dell’Inca-Cgil, Federico Pietrantonio, Ediesse, Roma, 1987, pp. XVII-XVIII).

Per una moderna organizzazione dell’assistenza sociale, 1969, 2, pp. 129-130:

“Superamento del criterio di povertà per l’accesso ai servizi di assistenza, possibilità di scelta da parte dell’assistito fra più servizi per i bisogni comuni, adozione di un criterio di uguaglianza delle prestazioni per bisogni uguali, accentuazione del carattere preventivo dell’assistenza sociale. Questi i maggiori punti del riordinamento dell’organizzazione dell’assistenza sociale previsto dalla programmazione nazionale e che dovrebbero trovare parallela applicazione assieme alla riforma dell’assistenza sanitaria e della previdenza sociale.
G.C. Vicinelli, in un articolo apparso su « Solidarietà umana » sottolinea come proprio l’accentuazione del carattere preventivo dell’assistenza sociale presenti un carattere di particolare importanza, riassumendo e completando, in pratica, tutte le altre indicazioni. Un’opera ed un impegno di prevenzione di qualsivoglia stato di bisogno, presuppongono, infatti, proprio l’offerta di servizi dai livelli standardizzati per tutto il territorio nazionale tra i quali, almeno per i bisogni più estesi, sia possibile da parte dell’assistito esercitare una qualche possibilità di scelta e postula, soprattutto, il superamento del criterio sino ad oggi discriminante, quello della povertà, per l’acquisizione del diritto all’assistenza.
Nella pratica concreta la prevenzione dal bisogno vuol dire la presa di coscienza che la soluzione di ogni caso assistenziale sta fondamentalmente nella eliminazione delle circostanze che possono determinare o hanno determinato le condizioni di necessità e non tanto, invece, nell’intendimento di lenire gli effetti immediati della stessa condizione. Vuol dire considerare da prevenire non solamente bisogni di natura puramente economica, ma ogni altro stato di necessità, da quello sanitario a quello sociale.
Con ciò il diritto del cittadino all’assistenza perde ogni caratteristica di semplice diritto privato individuale per acquistare invece quello di un diritto pubblico, quale è appunto concepito in un sistema di sicurezza sociale.
Nella società moderna la prevenzione sociale è impegno assistenziale di primaria importanza, rappresentando la fondamentale provvidenza capace di assicurare il diritto soggettivo a determinate prestazioni.
Il diritto, infatti, alle prestazioni della sicurezza sociale e all’assistenza sociale non spetta, ad esempio, solo ai cittadini in età avanzata o colpiti da invalidità al lavoro, ai minori abbandonati o a coloro che sono momentaneamente in disoccupazione o in malattia, bisognosi di interventi di base o specializzati, in quanto poveri, ma anche a quegli anziani, a quegli invalidi, a quei ragazzi, a quei malati o disoccupati che poveri non sono ma che egualmente, per la loro oggettiva condizione, possono aver necessità di un qualche aiuto duraturo o temporaneo di ordine anche diverso da quello puramente economico (quale un consiglio, un aiuto all’inserimento nella produzione, un’assistenza fa-miliare, e via dicendo). Obiettivo di tali interventi deve essere quello di far sì che l’assistenza in genere dei singoli casi abbia sempre uno scopo profilattico: ogni prestazione deve quindi tendere non solo alla possibile soluzione dei problemi e delle necessità più urgenti, ma contemporaneamente, e forse soprattutto, al miglioramento della persona o del nucleo assistito. Portare quindi all’individuo o al gruppo l’aiuto specifico necessario, ma porre anche ciascuno in grado di valutare la propria condizione, condurlo ad aderire con interesse e coscienza alla soluzione specifica del proprio caso. L’intervento di profilassi sociale si realizza quindi con indirizzi e metodi profondamente differenti da quello dell’assistenza e beneficenza tradizionale. Mentre queste ultime attendevano che il candidato alle prestazioni bussasse alla porta del servizio alla moderna organizzazione d’ assistenza sociale deve essere in grado di mostrarsi attivamente e per propria iniziativa, di raggiungere i casi attraverso un’articolazione delle sue strutture, di eseguire depistage tra larghe masse di cittadini, da far sorgere da ogni caso identificato come bisognoso per una qualche ragione, un’occasione concreta per una riabilitazione sociale complessa e permanente. La articolazione deve essere pertanto diretta a prender contatto con i più larghi strati di popolazione, garantendo un decentramento territoriale (le unità socio-ambienta-li locali) ed una presenza attiva nelle varie comunità (scuole, aziende, ospedali, ecc.). Queste linee di prospettiva non rappresentano però – avverte l’Autore – solo un problema tecnico, ma molto di più: presuppongono una precisa scelta politica. Come in-fatti sino a ieri fu una esplicita scelta e non una coincidenza o un caso che in Italia l’organizzazione assistenziale si basasse sul requisito della povertà, sulla limitazione delle prestazioni all’intervento economico spesso a carattere caritativo, sul trattamento del caso singolo e non del nucleo, per unire gli effetti di uno stato di bisogno e non per modificarne le cause, così oggi deve essere una altrettanto cosciente scelta quella di far di ogni intervento assistenziale un impegno di prevenzione. E deve essere una scelta politica non certo solo assistenziale e tecnica, poiché ovviare alle situazioni che possono essere occasioni di bisogno significa operare in una nuova idea di società con il preciso intento di modificarne certi atteggiamenti politici, sociali ed economici”.

La riforma dell’assistenza pubblica in Italia, 1969, 4, pp. 482-484:

“Nei giorni 21 e 22 giugno si è tenuto a Salerno 18° Congresso nazionale degli enti comunali di assistenza (ECA) e degli altri enti pubblici assistenziali indetto dall’Associazione nazionale fra gli enti di assistenza (ANEA) sul tema « La riforma dell’assistenza pubblica in Italia ». Erano presenti parlamentari di tutti i partiti, i rappresentanti degli enti comunali di assistenza, i dirigenti di numerose organizzazioni similari, studiosi ed esperti della materia.
Sono circa due milioni e mezzo gli italiani che avrebbero diritto all’assistenza pubblica: disoccupati, poveri, disadattati fisici e psichici, individui e nuclei famigliari senza un reddito fisso o con reddito inferiore al minimo vitale. Secondo 1’articolo 38 della Costituzione è garantito il diritto all’assistenza pubblica per tutti ? Inabili al lavoro o sprovvisti d’ mezzi di sussistenza. In tal senso con il varo nell’aprile scorso della pensione sociale di 12.000 lire al mese a favore degli ultrasessantacinquenni non abbienti, si è avviata una prima parziale misura nella direzione di un sistema di sicurezza sociale per tutti i cittadini.
Il Presidente dell’ANEA, senatore Nicola Signorello, nell’indicare nella relazione introduttiva lo obiettivo della piena ed integrale sicurezza sociale per tutti, ha cercato di individuare i metodi di attuazione e gli strumenti operativi per il raggiungimento di tale obiettivo. L’oratore ha proposto che venga elaborata una apposita legge-cornice che articoli l’assistenza pubblica, nell’autonomia della beneficenza e delle istituzioni private sulla unità assistenziale locale. Già la riforma ospedaliera ha introdotto il concetto dell’unità sanitaria di base; l’unità assistenziale dovrebbe sostituire gli attuali enti comunali e tutte le altre forme di assistenza economica svolte dalla attuale miriade degli enti pubblici, evitando così le sovrapposizioni e le insufficienze oggi lamentate. L’unità socio-assistenziale di base dovrebbe collegarsi al Consiglio comunale per i necessari controlli e disporre di personale altamente qualificato, consorziare i servizi laddove la minima entità territoriale o le condizioni economiche e sociali omogenee lo consiglino e far capo infine ad un organismo regionale che abbia finalità di propulsione e di coordinamento. Attraverso questa nuova struttura più aderente alla realtà locale sarebbe garantita una tempestiva e agile possibilità d’intervento ed una capacità di indagine e di anagrafe assistenziale che costituiscono il presupposto logico dell’assistenza intesa non come sporadico palliativo ma come servizio globale di sicurezza sociale.
Nel corso del dibattito sono intervenuti alcuni presidenti degli ECA di tutta Italia e vari studiosi del settore, i quali, concordando con l’ipotesi di assetto orizzontale prospettata dal relatore, hanno individuato un tipo di collegamento che, pur lasciando inalterata l’autonomia funzionale dell’ente di base, dovrebbe consentire ai Consigli comunali la possibilità di un controllo esplicito sui programmi e sui bilanci dell’assistenza pubblica.
Dal canto suo il segretario generale dell’ANEA, Aldo Aniasi, ha affermato che gli attuali 29 miliardi di cui gli ECA possono disporre sono chiaramente insufficienti (tale cifra si traduce infatti in un sussidio medio di 11 mila lire annuali) ma laddove non si riconsideri il problema dal punto di vista globale, cercando di porre ordine nel mondo della assistenza:, un incremento anche notevole dei finanziamento non riuscirebbe a risolvere la situazione. Nel quadro di una riorganizzazione re, ha detto ancora Aniasi, gli ECA —trasformati in enti di assistenza sociale — potrebbero svolgere un ruolo di primaria importanza purché sia dato agli enti un nuovo assetto territoriale e ne sia salvaguardata la necessaria autonomia pur nel necessario coordinamento con gli enti pubblici.
L’On. Carassi ha auspicato che venga portato avanti con successo e senza ulteriori ritardi il discorso sulla riforma dell’assistenza in Italia, riforma che — secondo il parlamentare — dovrà fondarsi su tre elementi fondamentali: il ruolo delle Regioni nel settore della assistenza, il coordinamento tra compiti sanitari e assistenziali, il diritto all’assistenza. L’On. Angelo Jacazzi, richiamandosi ai recenti casi che hanno dolorosamente messo in rilievo le carenze gravissime del settore dell’assistenza pubblica, ha sottolineato 1 importanza dell’indagine conoscitiva promossa dal Parlamento al fine di esplorare fino in fondo il mondo della miseria e della sotto occupazione, per individuarne le cause e per aggredirle con tempestivi ed efficaci strumenti legislativi.
Il Sen. Signorello, nella sua replica ha sottolineato la pressoché unanime convergenza del congresso sui temi principali della sua relazione. Dopo aver precisato che esistono le condizioni politiche per dare agli ECA un più ampio potere, l’oratore ha affermato che si tratta però di spezzare la costruzione verticale oggi esistente per sostituirla con un sistema orizzontale in cui si colloca il nuovo rapporto fra ECA e Comune: tale rapporto implica un effettivo potere di controllo del Comune sugli ECA senza peraltro alcuna rinuncia all’autonomia funzionale da parte degli ECA medesimi.
« Non rinunciamo — ha concluso Signorello — a proseguire la nostra lotta per ottenere dal Governo maggiori stanziamenti per l’assistenza ma contemporaneamente e con maggior forza puntiamo ora tutte le nostre energie per la battaglia della riforma integrale dell’assistenza, battaglia di libertà e di civiltà, e che deve essere combattuta nel concerto e nella solidarietà di tutte le forze politiche, sociali, sindacali e culturali.
A conclusione dei lavori, il congresso ha eletto all’unanimità il sen. Nicola Signorello presidente dell’Associazione e il sindaco di Milano, Aldo Aniasi, segretario generale. Inoltre ha nominato il nuovo Consiglio nazionale. All’unanimità è stata approvata la seguente mozione conclusiva: « L’8° Congresso degli enti comunali di assistenza, tenutosi a Salerno nei giorni 21 e 22 giugno 1969, sulla base della relazione del presidente, senatore Signorello, che ha illustrato la situazione dell’ordinamento assistenziale nel Paese e formulato proposte sugli indirizzi da seguire per una radicale riforma degli ECA, tenendo conto degli interessanti contributi che i vari oratori hanno offerto all’approfondimento dei temi illustrati, dà mandato agli organi dell’associazione di proseguire nell’azione per giungere al più presto possibile alla elaborazione di un piano articolato per la riforma delle strutture dell’assistenza pubblica che serva di base per una proposta di legge da presentare al Parlamento ed al Paese ».
“Con l’inizio degli anni ’70 i lavoratori realizzano due altre grandi conquiste: lo Statuto dei lavoratori, nel 1970, e la riforma del processo del lavoro e della previdenza, nel 1973. Alcuni dei contenuti normativi di questi provvedimenti sono chiaramente ispirati a determinati risultati del dibattito promosso dalla Rivista, sulle due materie, a partire dall’inizio degli anni ’60; e poiché dopo la loro entrata in vigore, alcune delle nuove disposizioni tardano a trovare pratica attuazione (si pensi, in particolare, agli articoli 5, 9 e 12 dello Statuto), «L’A.S. » è costretta a proseguire tale dibattito alla luce di un contenzioso, non solo di origine padronale, ostinatamente fiscale e duro.
Nel corso del decennio considerato, l’impegno della rivista è rivolto anche verso altre direzioni. Articoli e dibattiti approfondiscono, tra l’altro: il tema permanente dell’emigrazione e della tutela degli emigrati; gli effetti della modifica dell’organizzazione del lavoro in fabbrica sulla condizione operaia; il limiti persistenti nell’ambito della tutela infortunistica (malgrado gli impegni assunti dai vari governi, ad esempio, gli infortuni in itinere rimangono privi della preannunciata regolamentazione); i molteplici canali attraverso i quali si concretizzano le evasioni contributive; il quadro desolante che deriva dal mancato avvio della riforma assistenziale; eccetera. Fitto è il dibattito (e non mancano le polemiche al riguardo) anche su quello che è il ruolo del patronato. Mentre si moltiplicano le esperienze dei tre patronati unitari, la Rivista chiarisce, numero per numero, quella che deve essere la funzione dell’Inca, espressione diretta del sindacato” (Premessa ai 40 anni di storia, battaglie, dibattiti, proposte della Rivista dell’Inca-Cgil, Federico Pietrantonio, Ediesse, Roma, 1987, p. XVIII).

La fungaia degli enti assistenziali, 1971, 3, p. 102:

La situazione degli enti assistenziali in Italia è divenuta talmente paradossale da poter accreditare come realisticamente fondato il paradosso in base al quale la efficacia e l’efficienza della assistenza nel nostro Paese sono inversamente proporzionali al numero degli enti che tale assistenza erogano.
La situazione in questo campo è tale che alcuni degli elementi non secondari che stanno alla base di recenti clamorosi scandali so-ho proprio da ricercarsi nella fungaia intricata degli istituti, molti dei quali sono morti o sopravvivono oggi unicamente per giustificare sé stessi.
I dati comunicati dal Presidente dell’ANEA (Associazione Nazionale Enti di Assistenza) alla speciale commissione parlamentare incaricata di condurre un’indagine conoscitiva sullo stato e sulle prospettive dell’assistenza pubblica in Italia sono allarmanti. In base a questi dati le istituzioni pubbliche di assistenza sono oltre 7.500, mentre più di 4.900 sono i centri assistenziali dipendenti da enti pubblici locali e cioè province comuni e Eca e 12.200 istituzioni di assistenza private di vario tipo. Le persone assistite nei 5.566 istituti di ricovero esistenti, dei quali 2930, più del 53% privati sono 369.291, con una media di 66 ricoverati per ogni istituto. Questi istituti si suddividono in 104 brefotrofi, nei quali si trovano 7.141 bambini, 881 orfanotrofi (con 48.863 ricoverati), 356 istituti nei quali sono ospitati 18.131 minori poveri o abbandonati e 216 sono invece gli istituti per anormali o minorati (con 23.625 ricoverati). Le persone indigenti ricoverate nei 1.808 ospizi sono 102.301 mentre gli istituti con altre categorie di ricoverati sono 353; in essi si trovano 18.813 persone. 1848 sono quelli che ospitano più categorie di ricoverati e nei quali sono assistite 150.417 persone.
Riguardo agli enti comunali il Presidente dell’ANEA, Sen. Signorello, ha dichiarato:
« Essi si sono trovati nella assurda necessità di non poter adempiere agli scopi istituzionali per l’assoluta insufficienza dei fondi. Dai più recenti dati statistici si evince che la spesa media annua per assistito è stata di 12.478 lire cioè praticamente 1.000 lire al mese».
Il presidente dell’Associazione Nazionale Enti di Assistenza, sen. Signorello, esaminando poi la situazione attuale dell’assistenza all’infanzia, alla maternità, ai minorati psichici e sensoriali e agli anziani indigenti ha rilevato in sede di commissione la « mancanza di coordinamento dei compiti e degli enti erogatori di assistenza. Gli enti nazionali si sono moltiplicati a dismisura e senza reale necessità. La pluralità degli enti operanti in uno stesso settore ha creato situazioni paradossali, dando vita al cosiddetto professionismo dell’assistenza per cui avviene che un cittadino riesce ad ottenere prestazioni dello stesso tipo da vari enti, mentre altri cittadini ne rimangono privi del tutto».
Il presidente della commissione parlamentare on. Franco Foschi, ha affermato che l’inchiesta sarà conclusa nel giro di sei mesi e che « servirà indubbiamente a mettere in rilievo la presenza o meno di alcuni elementi qualificanti nel campo dell’assistenza e darà modo in particolare di realizzare interventi nella dimensione familiare o individuale dei bisogni. Vogliamo in ultima analisi — ha proseguito l’on. Foschi — conoscere gli orientamenti di una riforma assistenziale e sociale. La nostra indagine rappresenta, poi, un avvio alla definizione del problema e anticipa un dibattito sulla legge quadro sull’assistenza anche se da essa non ci attendiamo certo che emergano elementi rivoluzionari ».
Dalla commissione di indagine è già stata programmata una serie di visite-campione negli istituti assistenziali per constatare la effettiva situazione dell’assistenza ed è stato compilato un apposito questionario, che verrà distribuito a 40 enti e associazioni assistenziali, attraverso il quale essa intende acquisire una più ampia documentazione sul problema”.

Molino G., Proposte e prospettive per la riforma dell’assistenza pubblica e dei servizi sociali, 1974, 1, pp. 11-18:

“Dopo anni di silenzio, interrotto soltanto da notizie su scandali riguardanti la gestione assistenziale o da inascoltate richieste della sinistra e delle forze sindacali di sciogliere l’ONMI e gli altri enti inutili, da qualche mese l’argomento della riforma dell’assistenza pubblica ed il riordino dei servizi sociali viene ripetutamente alla ribalta. Nel mese di dicembre una conferenza stampa indetta dal gruppo parlamentare del Partito comunista ha avuto largo eco. Vi sono state inoltre ripetute prese di posizione delle confederazioni sindacali e la stampa non specializzata ha largamente ripreso il discorso sulle riforme dell’assistenza.
Come mai si risveglia l’opinione pubblica su questo argomento che veniva trascurato o messo volutamente da parte dalle forze politiche, mentre altri argomenti quali la riforma sanitaria erano da tempo dibattuti? Non credo sia esagerato dire che ormai la misura è colma, e che ora è proprio la gente tutta che reclama, sono i potenziali utenti dei servizi sociali i quali si trovano di fronte a carenze tali che rendono difficile la vita dei lavoratori, delle persone anziane, degli handicappati, delle famiglie in genere che nella città e nelle campagne mancano dei servizi essenziali. Sono le famiglie in cui la madre lavora, che si trovano a disagio perché non ci sono a sufficienza asili nido, scuole materne, doposcuola, centri-gioco per l’infanzia, colonie estive. Le famiglie con parenti handicappati o minorati che non hanno altre alternative che mandarli in istituti che sono dei ghetti o tenerli in casa, senza possibilità di assistenza e con difficoltà per tutti i membri della famiglia. Sono gli anziani che di anno in anno aumentano di numero — siamo ormai passati dai 5 milioni di ultrasessantenni nel 1960 ai 6 milioni e mezzo attuali e si prevede di arrivare a superare i sette milioni nel 1980 — che, quando rimangono soli o con famiglia che non li può mantenere, hanno la prospettiva di una pensione insufficiente per vivere, oppure il ricovero in istituti poco attrezzati. Questo spiega l’alto numero di anziani ricoverati in ospedale durante l’inverno a rette che oscillano dalle 8 mila alle 35 mila giornaliere, ma molti si sono fatti ricoverare per mancanza di case idonee, di aiuti domiciliari, di pensione sufficiente.
I servizi che sono attualmente in funzione sono in gran parte ancora predisposti come opere di beneficenza per poveri, hanno capienza insufficiente, un livello di prestazioni mediocre, non sono equamente distribuiti sul territorio nazionale e sono amministrati con criteri discrezionali.
Questi inconvenienti non sono sorti tutti adesso, ma si sono accumulati in decenni di mancanza di volontà politica diretta quantomeno ad un riordino della confusione organizzativa. Infatti è dal primo dopoguerra — ricordiamo la proposta di Vigorelli — che si parla di riforma dell’assistenza pubblica, riforma che da parte governativa non è stata mai concretata in proposte legislative. Anzi dal dopoguerra ad oggi sono stati emanati una serie di provvedimenti legislativi che, pur portando un beneficio a singoli gruppi di persone in stato di bisogno, hanno aggravato il sistema nel suo assieme.
L’ordinamento attuale
Val la pena a questo punto di tentare una sintesi, di fare un quadro, sia pure a grandi linee, del nostro sistema assistenziale, perché spesso il cittadino non si rende conto dei motivi che gli rendono così difficile e macchinoso accedere alle prestazioni di cui ha necessità.
Il primo motivo da ricordare è l’esistenza di leggi del secolo scorso, ancora oggi in vigore. Si tratta della famosa legge Crispi del 1890 che regola la cosiddetta beneficenza legale attuata dalle Congregazioni di Carità per gli aiuti economici e dalle Opere Pie (ora denominate I.P.A.B.), istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) per l’assistenza specifica, che consiste prevalentemente in ricoveri. La logica di questo sistema affidava alle opere di beneficenza l’aiuto ai bisognosi; lo Stato era presente solo come regolatore e controllore. Nei primi decenni di questo secolo al sistema della beneficenza si aggiungevano gli enti locali: la Provincia per i malati di mente e gli handicappati recuperabili, il Comune per i malati poveri e gli inabili al lavoro. Dopo la prima guerra mondiale inizia l’intervento diretto dello Stato con la costituzione dei primi enti pubblici nazionali, i cui capostipiti sono l’ONOG, per gli orfani di guerra e l’ONMI per la maternità e l’infanzia, il Ministero dell’interno aggiunge alla potestà di controllo sulle Opere pie la possibilità di finanziamenti integrativi.
Intanto la Congregazione di Carità diventa ECA, si occupa dell’assistenza economica ai poveri e viene finanziata attraverso le Prefetture dai fondi del Ministero dell’interno.
Nel secondo dopoguerra, questo quadro organizzativo, che è ancora basato sul concetto della beneficenza legale, si amplia e si complica. Ha inizio la distinzione in categorie degli assistibili: prima i ciechi civili, poi i sordomuti, poi gli invalidi civili ottengono provvidenze particolari ed un ente per ogni categoria che amministra le provvidenze ottenute. La stessa esplosione di categorie possiamo notarla nel gruppo degli orfani. Molte associazioni di categoria riescono ad ottenere provvidenze speciali con il solito ente pubblico che le amministra. Possiamo ricordarne alcuni: l’ENAOLI per gli orfani dei lavoratori, l’ENAM per gli orfani degli insegnanti, l’ONAOMCE per gli orfani dei militari di carriera dell’esercito, l’ONAOMC per gli orfani dei carabinieri, e così via; il totale raggiunge la ventina.
Con l’avvento delle Regioni sembra che si avrà la grande occasione per il riordino e la riforma; due provvedimenti legislativi devono essere emanati: la legge quadro che in attuazione del dettato costituzionale fisserà le competenze regionali, i decreti delegati che provvederanno al trasferimento dei compiti statali alle Regioni.
Ma la contrastata nascita delle Regioni, con la conseguente azione politica intesa a limitarne le prerogative, blocca l’uscita della legge-quadro; vedono la luce solo i decreti delegati che trasferiscono alle Regioni le competenze sugli ECA e sulle IPAB (le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza). Tutto il rimanente quadro dell’assistenza pubblica rimane immutato.
In sintesi si presenta così:
Enti pubblici nazionali di assistenza sociale 28 Associazioni ed enti nazionali con compiti di assistenza
23 Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza 9.407 Enti comunali di assistenza 8.055 Centri di assistenza dipendenti enti pubblici 5.718
Totale 23.231
a cui debbono aggiungersi i Ministeri, le Regioni, le Province e i Comuni.
Carenze e irregolarità
Qual è il rendimento effettivo di una macchina così complessa? Una macchina che spende annualmente 1.094 milioni di lire secondo i dati raccolti dall’indagine conoscitiva sull’assistenza condotta dalla Camera dei Deputati nel 1971?
Operano, come abbiamo visto, una miriade di enti; i risultati invece sono estremamente esigui: le prestazioni sono frammentarie perché sono divise per singole categorie (gli inabili, i ciechi, gli orfani di guerra, gli orfani di maestri, ecc.); l’utente impazzisce nella ricerca dell’ente che ha la competenza di assisterlo e deve ricorrere alla mediazione di operatori sociali per riuscire a raggiungere la prestazione cui ha diritto.
Vi sono ancora alcuni tipi di bisogno per i quali l’assistenza è insufficiente; per esempio, non si trovano posti negli asili nido; inoltre le spese generali arrivano a livelli altissimi dato il numero di impiegati addetti agli uffici centrali, ai consigli di amministrazione, alle direzioni generali!
Infine vi è una mancanza di controllo democratico da parte della base e degli utenti.
Dalla relazione dell’On. Lodi, tenuta in occasione della conferenza stampa del gruppo parlamentare del PCI nel mese di dicembre del ’73, rileviamo alcuni interessanti dati che servono a dare un esemplificazione delle incongruenze esistenti.
Vi sono enti nati nel dopoguerra con scopi limitati nel tempo e che sono riusciti a trasformarsi in enti a carattere continuativo: ENAOLI, l’ENDSI, 1’AAI. L’ENDSI — Ente nazionale distribuzione soccorsi all’Italia — pur avendo da anni conclusi i suoi compiti, è ancora in vita, aumenta di anno in anno il proprio deficit a cui spera si faccia fronte con un contributo dello Stato.
L’AAI — Amministrazione per gli aiuti internazionali — nata anche essa per distribuire gli aiuti che venivano dall’estero, svolge un’attività che, ora, con l’avvento delle regioni, si mostra del tutto inutile. Questa amministrazione che, secondo quanto ha rilevato la Corte dei Conti, « ha un’autonomia talmente accentuata da non aver riscontro in nessun altra istituzione amministrativa dello Stato » gode di uno stanziamento di 6.000 milioni per le attività assistenziali, di cui 1.700 per l’assistenza ai profughi stranieri e del reddito di un patrimonio di 40 miliardi; importi che dovrebbero essere trasferiti alle Regioni, mentre il patrimonio dovrebbe essere trasferito al demanio statale.
L’ONMI — l’opera per la maternità e l’infanzia — di cui a lungo si è occupata la stampa e di cui le forze democratiche richiedono da tempo il trasferimento dei servizi agli enti locali, ha un grave deficit di bilancio, per il quale si tenta anche quest’anno di avere copertura sul bilancio dello Stato.
Mentre nel 1973 l’ONMI ha avuti tutti i 39 miliardi promessi ed altri 6 miliardi a ripiano del disavanzo, il Governo, impegnato da una legge (n. 1044 del 1971) a versare per il 1972 e 1973, 54 miliardi alle Regioni perché li erogassero ai Comuni per la costruzione di asili nido, ha emesso a tutt’oggi solo alcuni decreti parziali, ma non ha ancora versate alle Regioni una lira, nonostante la capacità, dimostrata dai Comuni e dalle Regioni, di saper rispondere con maggiore tempestività ed efficacia nella programmazione e nella costruzione di questi importanti servizi di quanto non abbia saputo fare l’ONMI in 50 anni di attività.
L’EMPF — ente per la protezione morale del fanciullo — è sorto nel 1945 per duplicare i compiti che deve svolgere l’ONMI, con un consiglio di amministrazione composto solo da « funzionari di anomala fisionomia giuridica ed amministrativa » secondo la definizione della Corte dei Conti; grazie alla composizione dei suoi organi non elettivi, l’ente è preferito agli Enti locali dal Ministero della P.I., che gli assegna 249 insegnanti comandati e la maggioranza dei fondi a disposizione del capitolo 1401 (L. 5.500 milioni) per fargli svolgere compiti di medicina scolastica che in base alla legge del 1962 debbono essere svolti invece dai comuni.
Le ragioni dell’immobilismo
È evidente perché non si è voluto varare la legge quadro e perché in questi ultimi 20 anni si è preferito lasciare passare leggine che accontentassero qualche categoria, piuttosto che procedere ad un riordino di tutto il sistema.
Gli interessi da toccare sono troppo importanti per il partito di maggioranza relativa. Essi riguardano: il finanziamento dell’assistenza privata, il sottogoverno attuato attraverso gli enti nazionali, il controllo della gestione delle IPAB, un facile controllo del potere attraverso la gestione centralizzata del Ministero dell’interno.
Come abbiamo visto, si tratta di una vasta fetta del potere pubblico; più di mille miliardi annui, migliaia di enti, con tutti i loro fondi ed il loro personale e si capisce come sia duro dover cedere un potere così vasto. Meno comprensibile è perché le forze democratiche abbiano tardato tanto a rendersi conto dell’importanza politica di questo settore.
Di tale ritardo ha cercato di fare un’analisi il Professor Giovanni Berlinguer il quale in un recente convegno sulla riforma dell’assistenza ha affermato che la ragione principale stia nel fatto che abbiamo pensato che la frontiera dell’assistenza fosse una trincea arretrata, una battaglia nella quale è possibile soltanto denunciare le altrui gravissime malfatte e contenere in una certa misura l’estensione del potere dell’avversario, molto ampio, capillare, pericoloso e fra i più odiosi, perché costruito sulla perpetuazione e sullo sfruttamento della miseria e del bisogno; ma che in fondo la frontiera dell’assistenza non fosse un terreno avanzato di lotta per una partita rivoluzionaria.
Secondo Berlinguer ci siamo illusi che per rompere il circolo vizioso dello sfruttamento, il sottosviluppo, l’assistenza generata dal sottosviluppo e organizzata per consentire lo sfruttamento, fosse sufficiente intervenire su un solo anello di questa infernale catena, e cioè sulle cause economiche-sociali. E, invece, bisogna agire anche sulle conseguenze: organizzare ed aiutare le vittime di questa situazione; significa anche frenare i meccanismi che l’hanno determinata, impedire lo stritolamento di nuove energie in questo congegno di cause e concause. In sostanza, cioè, significa trasformare la disgregazione esistente, da cui nasce la domanda assistenziale, in forma di aggregazione rivolta ad ottenere l’assistenza come un diritto.
« Fare questo — dice Berlinguer — significa colpire quel blocco di potere, politico ed economico, che è alla radice sia dello sfruttamento di chi lavora che dell’emarginazione di chi non può lavorare. Significa collegare la lotta per l’assistenza non solo a due grandi riforme (la sanità e la scuola) ma anche alla lotta per la democrazia: creare centri di aggregazione nelle città e nei quartieri disgregati, creare intorno agli asili, alle scuole, agli stessi istituti di ricovero, alle organizzazioni sanitarie e sociali nuove forme di vita democratica e di partecipazione popolare. Significa collegare la lotta per l’assistenza ad una nuova politica economica: sollecitare investimenti assistenziali, consumi collettivi per bisogni collettivi, impiego di personale qualificato, il che vuol dire anche liberare, attraverso la rete dei servizi sociali, mano d’opera, soprattutto femminile, che può essere impiegata in settori direttamente produttivi ».
Progetti di riforma
I progetti di legge quadro che sono di fronte Parlamento dovrebbero essere una risposta a u le esigenze della nostra società e dal loro esempio vedremo come le forze politiche affrontano i nodi a cui abbiamo accennato.
Quattro sono i progetti: quello del PSI, presentato il 30 maggio 1972 che riprendeva lo stesso progetto presentato dall’On. Zappa nella precedente legislatura, quello del PCI, presentato il 7 luglio dello stesso anno; quelli della DC e quello dell’ANEA (Associazione nazionale degli ECA) presentati ne febbraio del 1973.
Vediamo le proposte contenute nei progetti DC, PCI e PSI, tralasciando nell’esame particolareggiato il progetto ANEA, sia perché non rappresentativo di forze politiche, sia perché introducendo i « Centri di assistenza sociale » con autonomie patrimoniali e di gestione a cui vengono affidati i compiti capillari di assistenza, tende di fatto a far rivivere gli ECA con norme cambiate.
I progetti del PCI e del PSI sono simili nelle linee essenziali che si possono così riassumere:
Competenze ministeriali limitate all’indirizzo e coordinamento con la consulenza di un organo collegiale composto di rappresentanze delle Regioni.
Massima autonomia alle Regioni che hanno competenza legislativa di programmazione, i finanziamento e di controllo dei servizi sociali attuati dall’ente locale. La Regione inoltre ripartisce il territorio in comprensori comunali e intercomunali, fissa i livelli delle prestazioni, qualifica il personale. L’organizzazione vera e propria dei servizi è affidata ai Comuni e ai Consorzi dei Comuni, che formano le unità locali dei servizi sociali collegate con le unità sanitarie.
È prevista la partecipazione dei cittadini a tutti i livelli, nei momenti operativi e di controllo, non solo dell’unità locale, ma anche per i singoli servizi. Gli ECA e le IPAB sono sciolti; il loro personale e le loro attrezzature passano alle Regioni perché siano destinati alle unità locali. Anche gli enti pubblici nazionali, compresi nell’elenco allegato ai progetti, sono soppressi; per gli altri enti una Commissione parlamentare definirà quali possono rimanere, avendo solo fini associativi. Il patrimonio ed il personale degli enti nazionali sono trasferiti alle Regioni per essere destinati alle attività assistenza.
Fra i due progetti ci sono brevi differenze che: non riguardano i punti sostanziali che sono quelli da noi indicati. I progetti si caratterizzano per la limitazione dei compiti ministeriali, il conferimento dei massimi poteri alle Regioni, l’affidamento di tutti i compiti organizzativi ai Comuni ed ai loro Consorzi attraverso la delimitazione di aree territoriali denominate unita locali dei servizi.
La soppressione di tutte le organizzazioni settoriali, quali gli enti nazionali e le IPAB avviene ope legis, senza delega a commissioni parlamentari o di altro tipo, memori dell’esperienza della legge n. 1404 del 1956 per la soppressione degli enti inutili, che è servita soltanto ad istituire uno speciale ufficio liquidazione presso il ministero del Tesoro, che non risulta aver liquidato alcun ente.
I due progetti inoltre prevedono l’ammasso di tutti i fondi stanziati dai Ministeri e dagli enti pubblici perché siano ripartiti fra le Regioni e pur effettuane do l’unificazione delle varie forme di assegni economici, non richiedono ulteriori stanziamenti sul i lancio dello stato, non perché si riconosca che non occorre migliorare le prestazioni economiche, ma per evitare che il La Malfa di turno blocchi il progetto con la scusa della mancanza di copertura finanziaria. Sull’assistenza privata il progetto del PSI non si esprime in quanto ha il solo obiettivo organizzare l’assistenza pubblica, mentre il PCI si limita a regolare i rapporti fra assistenza privata ed enti pubblici stabilendo che, se del caso, i Comuni singoli od associati stipulino convenzioni con istituzioni private di assistenza capaci di erogare prestazioni conformi a quanto stabilito dalla normativa regionale, con esclusione di quelle che agiscono a scopo di lucro.
Il progetto della Democrazia Cristiana, presentato sia alla Camera che al Senato, riconosce nella sua azione che « si tratta di affrontare una situazione di crisi grave ed irrimediabile in quanto crisi di fondo ideale e strutturale del sistema assistenziale stesso », anche se ancora una volta vi si elude qualsiasi cenno autocritico alle responsabilità della DC che sono state in materia — e sono tuttora — tanto preminenti e pesanti.
Il progetto DC, pur rappresentando un progresso rispetto al precedente progetto della sen. Falcucci, lascia molti dubbi sulle intenzioni di procedere effettivamente ad una riforma, per il modo spesso vago con cui affronta alcuni dei temi più scottanti o per le formule volutamente macchinose con cui sono proposti gli scioglimenti dei carrozzoni che dovrebbero essere eliminaci.
Ecco come esso affronta le questioni principali. Innanzitutto il progetto prevede la costituzione di un Ministero della sicurezza sociale con competenze assistenziali, sanitarie e in materia di previdenza sociale. Il Ministero si costituirà dopo due anni dall’emanazione della legge; intanto funzionerà presso la Presidenza del Consiglio un comitato ministeriale col compito di unificare le competenze in materia di assistenza sociale e di amministrare le residue funzioni attribuite al potere centrale.
Ci sembra che voler incorporare anche la previdenza, oltre che la sanità e l’assistenza, in un unico dicastero sia un passo — pur allettante a prima vista — che introduca ulteriori difficoltà alla riforma, perché l’unificazione della previdenza non risulta sufficientemente preparata e rappresenta un notevole aggregato di interessi che non si possono spostare senza studi ed alleanze approfonditi.
Certo, rispetto al precedente progetto che difendeva il Ministero dell’interno, la DC fa una notevole affermazione di principio ma non sembra ancora decisa su quale soluzione puntare.
Il progetto è d’accordo sullo scioglimento degli enti nazionali, ma delega il governo ad emanare entro due anni uno o più decreti, sentito il parere di una Commissione parlamentare.
Si tratta di una delega molto generica, che rimanda nel tempo la decisione, mentre il personale ed i mezzi degli enti sono necessari subito agli enti locali per far funzionare il nuovo sistema. Effettuare la riforma in due tempi vuol dire mettere in crisi il funzionamento di tutti i servizi per un tempo imprevedibile.
Gli ECA sono soppressi; il loro patrimonio ed i loro finanziamenti sono trasferiti ai Comuni per essere destinate alle unità locali dei servizi sociali.
Le IPAB possono essere dichiarate estinte se i loro fini istituzionali o il livello dei loro servizi sociali non vengono riconosciuti idonei, secondo un piano adottato dalla Regione, sentiti i Comuni e gli enti interessati. Avverso tali provvedimenti è ammesso ricorso ai Tribunali amministrativi regionali ed al Consiglio di Stato da parte del legale rappresentante dell’istituzione o di chi vi abbia interesse.
Certo che con tale procedura non sarà facile smontare le IPAB, mentre il problema non è solo di eliminare quelle inutili ed inconsistenti, ma iar s\ che tutte le altre non agiscano in modo isolato, come attualmente fanno, e porle alla completa dipendenza delle unità locali.
Il progetto non si limita a garantire la libertà delle iniziative private, così come prescrive la Costituzione, ma stabilisce il diritto delle stesse ad essere riconosciute come « istituzioni private di utilità sociale » previo accertamento delle condizioni stabilite a norma della legge quadro. Poiché la legge non stabilisce le condizioni, non è chiaro in base a quali criteri le Regioni provvederanno ad emanare il decreto che dispone il riconoscimento delle istituzioni private, che ne facciano richiesta, nel registro delle istituzioni private di utilità pubblica. Comunque, dopo iscritte, dette istituzioni hanno diritto a partecipare alla programmazione ed all’attuazione dei programmi socio-assistenziali.
È proprio sintomatico che si sia dimenticato nella legge di precisare i requisiti in base ai quali le iniziative private — quindi qualunque privato o gruppo di privati che decide di svolgere attività assistenziali — ha diritto ad essere considerato di utilità sociale ed a programmare ed attuare i programmi socio-assistenziali alla pari con gli organismi pubblici retti da rappresentanti democraticamente eletti.
Due sono le considerazioni che si possono fare su siffatta impostazione: per difendere le attività derivanti dalla Chiesa, si permette a tutte le iniziative a carattere speculativo di partecipare a programmazione ed a finanziamenti pubblici.
La seconda considerazione concerne i finanziamenti; se le attività private agissero con mezzi propri, sarebbe conveniente per l’utilità pubblica che partecipassero ad un momento di coordinamento. Ma questo non avviene, le attività cosiddette private, sono quasi completamente finanziate da mezzi pubblici; chiamarle a programmare sarebbe come, nel caso di appalti per la costruzione di case popolari, chiamare i costruttori per decidere con il loro beneplacito dove e quando e a quale prezzo dare corso alle costruzioni!
Abbiamo detto all’inizio che i progetti sono stati presentati alle Camere, salvo quello della D.C. che è stato presentato anche al Senato. La Commissione interni della Camera ha dato incarico di relatore all’On. Maria Casalmagnago della D.C.; nel frattempo parlamentari democristiani hanno sollevato obiezioni di costituzionalità sui progetti, che di conseguenza sono stati messi all’ordine del giorno dalla Commissione affari costituzionali. L’azione ha tutto l’aspetto di una mossa dilatoria, che permette al partito di maggioranza relativo, sia di rendere più complesso l’iter del progetto, sia di fermarlo con pretesti di anticostituzionalità se si presentasse la prospettiva di soluzioni che non lo soddisfacessero pienamente. La relatrice ha cominciato l’esame dei progetti con la collaborazione di parlamentari del PCI e del PSI per vedere di arrivare ad un unico progetto da presentare alle Commissioni. Nel frattempo la Presidenza della Camera ha nominato una commissione formata da parlamentari di tutti i partiti, membri delle Commissioni interni ed affari costituzionali, che sotto la presidenza dell’On. Cariglia ha il compito di unificare i progetti, cercando, se possibile, soluzioni di compromesso su punti ove esistono divergenze.
Le prospettive
Dagli approcci informali che ci sono stati in questo ultimo periodo si ha l’impressione che PCI e PSI cerchino di spingere verso una conclusione; la DC, invece, a parole è disponibile, ma nei fatti non sembra abbia molta fretta di concludere; gli altri partiti infine non dimostrano alcun interesse alla questione,
I punti difficili sono già emersi. La DC mostra estremo interesse alla difesa dell’assistenza privata e delle IPAB, che sono i suoi centri di potere, mentre è disposta a sacrificare il Ministero dell’Interno, gli enti nazionali e gli ECA. Per l’assistenza privata, come abbiamo già detto, non si richiede solo che sia libera, ma deve essere riconosciuta di utilità sociale, partecipare alla programmazione e godere del finanziamento pubblico. Pretese abbastanza esorbitanti, tenuto conto che la benemerenza che vanta la assistenza privata, cioè di aver attuato quell’attività che i poteri pubblici non sono riusciti ad effettuare, è soltanto conseguenza di una volontà politica, che senza soluzione di continuità, dagli inizi del secolo ad oggi, ha volutamente limitata l’attività degli enti pubblici locali, per devolvere il denaro pubblico e finanziare le attività private. E tenuto conto che le proposte delle forze democratiche non mirano certo, come abbiamo visto, a sopprimere queste iniziative, ma lasciano liberi gli enti locali di stipulare convenzioni con quelle istituzioni che siano capaci di erogare prestazioni secondo gli standard fissati dalle Regioni, mi sembra che la pluralità delle iniziative sia più che sufficientemente rispettata!
* * *
Abbiamo indicato, sia pur succintamente, le ragioni della grave crisi del sistema assistenziale in atto, i motivi di urgenza che richiedono una sua radicale revisione, le proposte fatte dalle varie formazioni politiche e le difficoltà esistenti per arrivare ad una conclusione.
La battaglia da compiere riguarda due obiettivi: il primo, che la riforma non si insabbi come avvenuto per tante altre riforme di strutture che sono rimaste pure enunciazioni senza realizzazioni concrete; il secondo, riguarda i contenuti della legge quadro perché essa non si limiti ad aggiustare alcune delle incongruenze più gravi ed a eliminare qualche carrozzone inutile, ma sia veramente una risposta alle pressanti esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie.
È una battaglia che deve impegnare a fondo tutte le forze politiche e sindacali, come già esse stanno facendo per la riforma pensionistica e sanitaria. Per far questo occorre che tutti realizzino chiaramente l’importanza della riforma dell’assistenza che — come dice l’on. Signorile nella premessa alla sua proposta — « tende a trasformare in modo radicale una struttura che risale nelle sue linee fondamentali al secolo scorso; attribuisce preminenza alla funzione pubblica; garantisce il diritto dei cittadini ai servizi sociali; offre in definitiva un contributo alla edificazione di una società fatta non contro ma a misura di uomo ».

Le strutture assistenziali e sanitarie nella Repubblica Popolare Cinese. Conclusioni di un viaggio di una delegazione promossa dalla Giunta regionale Emilia-Romagna, 1975, 6, pp. 81-82:

“Una delegazione promossa dalla Giunta regionale dell’Emilia-Romagna con la collaborazione dell’Associazione Italia-Cina e dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese, ha effettuato un viaggio in Cina dal 5 al 22 ottobre 1975.
La delegazione era guidata dall’Assessore regionale alla sanità e igiene ed era composta da consiglieri regionali, amministratori di Enti locali e di ospedali, appartenenti a tutte le forze politiche democratiche, da rappresentanti delle facoltà di medicina delle università emiliane, da medici ospedalieri e da esperti. Scopo del viaggio, predisposto ed organizzato dalla agenzia cinese «Luxinqshei», era quello di approfondire la conoscenza delle strutture assistenziali e sanitarie in rapporto alla organizzazione economico-sociale della Repubblica Popolare Cinese.
Nel corso del viaggio, durante il quale è stato possibile apprezzare compiutamente la solerzia e la cortesia dei funzionari della «Luxinqshei», sono state toccate le città di Pechino, Nanchino, Soochow, Shanghai e Canton. .
Gli incontri avuti a vari livelli coi politici, amministrativi e tecnici della Repubblica Popolare Cinese hanno consentito di approfondire la conoscenza del grado di protezione della salute giunto nelle comuni agricole, nelle fabbriche e quartieri cittadini e di studiare l’organizzazione ed il funzionamento delle strutture sanitarie (ospedali, stazioni sanitarie e ambulatori), delle istituzioni formative del personale sanitario (facoltà di medicina, nonché delle strutture assistenziali relative all’infanzia e di quelle scolastiche più generali (asili nido, scuole materne, elementari, medie e professionali). Sugli aspetti generali del funzionamento del servizio sanitario cinese, della formazione del personale sanitario e della ricerca scientifica, si sono avuti incontri di particolare rilievo: a Pechino, con . ?età dedica cinese rappresentata dal suo segretario, dal vicesegretario e da un membro dell’Accademia delle Scienze per la medicina, direttrice dell’Istituto di Patologia di Pechino; a Shanghai, con medicina n. 2 della città rappresentata dal Presidente del comitato rivoluzionario, dal responsabile del gruppo per la rivoluzione dell’insegnamento, da tre responsabili dei gruppi dell’insegnamento della medicina di base e da una rappresentanza studentesca.
Gli aspetti generali dell’amministrazione locale sono stati conosciuti nel corso dell’incontro con il Comitato rivoluzionario della municipalità di Nanchino e nella parte generale delle conversazioni tenute con i Comitati rivoluzionari di tutti i centri toccati (comuni agricole, fabbriche, scuole, ospedali).
In particolare queste tematiche generali sono state approfondite nel corso degli incontri svoltisi a Pechino nella comune agricola di Kuantukang e nell’ospedale municipale dell’Amicizia, a Nanchino in una scuola materna ed elementare, in una fabbrica petrolchimica e nell’ospedale provinciale di medicina tradizionale, a Soochow nel setificio numero uno, nella fabbrica tessile «Oriente Rosso» e nel centro studi per l’addestramento professionale per il ricamo, a Shanghai in un nuovo quartiere residenziale operaio costruito dopo la liberazione, nel Palazzo dei ragazzi in una fabbrica di apparecchiature elettriche che impiega mano d’opera prevalentemente composta da ciechi sordomuti e handicappati fisici e in un centro siderurgico, infine a Canton in un altra comune agricola e nella fiera internazionale d’autunno.
La visita compiuta a numerose strutture centrali che periferiche e il dialogo approfondito con i responsabili diretti delle strutture stesse e con singoli cittadini cinesi, compresi interi nuclei familiari, hanno consentito di constatare alcuni aspetti salienti della politica sanitaria e assistenziale attuale della RPC. In primo luogo, i sicuri successi conseguiti nella lotta contro fenomeni di patologia sociale quali le malattie infettive e la patologia da malnutrizione e, più in generale, nel campo dell’igiene pubblica e ambientale. Questi successi, che nel loro insieme definiscono un livello sanitario estremamente avanzato in un paese in via di sviluppo sono stati conseguiti dopo la liberazione, grazie ad una forte partecipazione delle masse popolari e alla realizzazione di un legame molto stretto tra tecnici del settore, quadri politici, cittadini. Grazie a questo legame il sistema sanitario è reso capillare, in grado di giungere ovunque, teso sempre più a periferizzarsi per cogliere i problemi nel luogo e nella condizione in cui si verificano, ponendo l’accento sulla prevenzione e sui bisogni, tradizionalmente trascurati, delle zone rurali.
In secondo luogo, particolare interesse riveste la fusione tra la medicina cinese tradizionale (agopuntura, fitoterapia, ecc.) e la medicina di tipo occidentale, integrate sia a livello dell’insegnamento universitario, sia nella pratica dei grandi ospedali come degli ambulatori di fabbrica e di campagna. Questa integrazione appare costituire — oltre ad un tema di ricerca scientifica — anche un valido mezzo di diffusione dell’assistenza medica tra le masse popolari, che alla medicina tradizionale accordano ancora la loro preferenza, e di rafforzamento della linea dell’autogestione della difesa della salute.
È stato possibile constatare l’impegno profuso nel campo della formazione del personale medico e paramedico, sia dal punto di vista quantitativo — aumento notevolissimo dei quadri — sia da quello qualitativo. Va ricordata la creazione dei «medici scalzi» per le campagne e dei «medici rossi» per le fabbriche, figure originali, diverse dal medico laureato e dall’infermiere professionale, che esplicano le loro funzioni tecniche rimanendo impegnati nel lavoro produttivo tra i contadini e gli operai, tra i quali possono intervenire capillarmente ai fini della profilassi, dell’intervento terapeutico tempestivo di primo livello e della promozione dell’educazione sanitaria Di notevole interesse è apparsa anche la radicale trasformazione, sia pure in fase ancora del tutto sperimentale, del corso di studio universitario di medicina realizzata dopo la rivoluzione culturale. Questo corso si presenta oggi, abbreviato da 6 a 3 anni, con l’eliminazione degli insegnamenti ripetitivi, la fusione di più materie nella visione dell’unitarietà dell’organismo umano, e una maggiore intensità di attività didattica durante ciascun anno; inoltre, il corso è fondato sulla strettissima integrazione fra teoria e pratica, realizzata con l’interscambio continuo tra il centro universitario, la campagna e la fabbrica.
La delegazione non ha avuto la possibilità di approfondire nel corso del pur intenso programma i problemi della psichiatria né con visite a strutture psichiatriche, né con colloqui con operatori psichiatrici. Alle domande specificamente formulate è stato risposto che il problema è considerato marginale nell’ambito del quadro epidemiologico generale e che i malati più gravi vengono inviati negli ospedali psichiatrici che costituiscono una rete assistenziale a sé stante.
Alla luce delle informazioni raccolte e delle visite compiute, pur con le carenze conoscitive anche sopra evidenziate, la delegazione ha valutato che, riguardato nel suo insieme, il sistema sanitario della Repubblica Popolare Cinese si presenta costituito da una rete di strutture estremamente articolate, ben congegnate, funzionalmente coordinate sia in senso verticale che orizzontale. Tutto il meccanismo, anche per la scarsezza delle risorse disponibili, appare giustamente orientato sull’essenziale, sia per la scelta delle malattie più diffuse su cui concentrare gli sforzi di prevenzione, di cura e di ricerca scientifica, sia per la scelta dei mezzi terapeutici.
Va infine sottolineato che ovunque la delegazione e stata accolta con grande cordialità e spirito di amicizia, che testimoniano i buoni rapporti esistenti fra i due popoli e i due paesi.
A Pechino la delegazione ha avuto inoltre un cordiale incontro con l’Ambasciatore italiano dott. Francisci presso la sede dell’Ambasciata.

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