Correzione fraterna o plagio mentale?

Negli ultimi anni papa Francesco ha iniziato una campagna di discernimento nell’ambito del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita: dai Neocatecumentali al Rinnovamento nello Spirito, dai Focolarini a Comunione e Liberazione l’elenco è lungo e riguarda abusi di varia natura che si sono verificati all’interno di tali movimenti. Una prima “correzione” riguarda gli incarichi di governo che non possono durare tutta la vita ma devono dare la possibilità di un sereno ricambio generazionale. Inoltre la delega dei compiti deve essere caratterizzata dallo spirito di servizio e non dalla smania di protagonismo. Papa Francesco denuncia la “slealtà” di chi, dietro il pretesto del proprio ruolo o ministero, persegue altri scopi reconditi molto spesso di natura finanziaria (La scure di papa Francesco sui movimenti ecclesiali, “Il Mattino”, 16 settembre 2021). Il 15 novembre 2021 si è dimesso Julian Carron da CL dopo sedici anni di presidenza. Il 31 gennaio 2021 è stata la volta di Maria Voce leader del MF per tredici anni. Il 24 marzo 2023 è stata la volta di Salvatore Martinez dopo ben ventisei anni di mandato nell’ArnS.

Formalmente le istituzioni ecclesiastiche non hanno alcuna responsabilità e giurisdizione sugli incontri delle associazioni di fedeli ed, eccetto una genuina ospitalità, possono solo unirsi moralmente alla preghiera. Ne consegue che chi subisce pseudo-correzioni o palesi abusi si ritrova da solo in un labirinto di norme e pressioni psicologiche che possono solo indurre ancora più in confusione. Le questioni riportate sono interne ai movimenti e quindi la vittima deve rivolgersi ai capi di turno e attenersi alle loro decisioni. L’eventuale responsabile poi fa notare l’errore di competenza che non riguarda la Chiesa intesa come ente autonomo rispetto ai movimenti laicali. Anche laddove c’è una parrocchia o una struttura interna alla Diocesi come ente responsabile del fabbricato entro cui avvengono gli incontri dei movimenti, in realtà è solo una parte del fabbricato che ospita le diverse realtà giuridiche e sociali. Queste poche note servono già a capire di quanto i regolamenti delle associazioni di fedeli servano ad aggravare i problemi piuttosto che a risolverli.

Per tali motivi ho deciso di iniziare un’analisi comparata del modo in cui è regolata la correzione fraterna nelle associazioni di fedeli. Una prima parte riguarda gli eventi storici che fanno da sfondo al tema trattato e i diversi elementi utili che consentono di analizzare il problema. Per tali motivi mi sono avvalso dell’apporto delle scienze umane per approfondire alcune tematiche di rilevanza giuridica e teologica. Nella seconda parte tratterò della correzione fraterna e dei nessi con lo spazio sacro e profano. Infine nell’ultima parte dell’articolo cercherò di tirare le somme di quanto scritto (conclusioni). Nel trattare ogni singolo argomento ho cercato di assumere il più possibile un punto di vista neutrale e quanto mai oggettivo nella speranza di presentare i temi suddetti nella maniera più chiara possibile. Il lettore potrà apprezzare nella bibliografia quanto meglio sono riuscito a raccogliere in termini di aggiornamenti e di reperimento delle fonti. La mia speranza è che si possa arrivare un domani ad una risoluzione pacifica dei conflitti e ad un atteso e autentico rinnovamento della Chiesa nello Spirito santo.

L’episodio in sé, correzione o abuso che sia, è un qualcosa che si può verificare in molti gruppi di persone. Stiamo parlando di una comunità di fratelli e sorelle che si incontrano e si scontrano ed è “normale” che ci siano dibattiti e discussioni anche accese. Per tali motivi ci sono dei diritti e dei doveri che dovrebbero tenere uniti e ordinati il gruppo secondo uno spirito cristiano: “i responsabili competenti si preoccuperanno di favorire in ogni modo l’aggregazione dei singoli fedeli e il loro accompagnamento” (Regolamento ArnS 2.5.1, p. 10). Chiunque appartenga ad un’associazione di fedeli è tenuto ad osservare le disposizioni del regolamento e ad attenersi ai limiti che impone il proprio ruolo. Senza questi limiti vi sarebbe il rischio di tradire il carisma del fondatore e di favorire la disgregazione piuttosto che “l’aggregazione dei singoli fedeli” ma sopratutto vi sarebbe il rischio di produrre dei veri e propri abusi in assenza delle “competenze” adeguate.

La correzione fraterna è stata a lungo studiata nell’ambito della teologia (pastorale, morale e dogmatica) anche se sono piuttosto scarse le ricerche scientifiche anche per la difficoltà di misurare il fenomeno secondo gli strumenti conosciuti se non quando emerge la delusione e la rabbia per l’abuso subito. Il consiglio direttivo della prima comunità, modellato sulla base delle assemblee giudaiche degli anziani, aveva un ruolo decisivo nella direzione morale della comunità, quindi secondo i teologi, tale disciplina avrebbe preso forma dalla profezia e dal presbiterato. Nei secoli successivi la correzione fraterna fu considerata una “pratica elitaria” ad esclusivo appannaggio dei monasteri e dei conventi che che sfruttavano le debolezze di quel fratello o di quella sorella per fare carriera nella gerarchia ecclesiastica e che si risolveva in una pratica inquisitoria che nulla aveva di cristiano (cfr. Rm 14). Il rischio era che dalla “correzione” si passasse alla “corruzione” con tutti gli abusi e i limiti che ne sono derivati (la regola di san Benedetto prescriveva la punizione corporale per i corrigendi). Nei secoli successivi a correzione fraterna in un certo senso è caduta nell’oblio, oscurata e confusa da una non ben definita benevolenza.

Nella lettera ai Romani (Rm 8,15) San Paolo rievoca l’effusione dello Spirito per dimostrare che siamo tutti figli di un medesimo Dio Padre. Ma si può essere fratelli senza essere cristiani? L’art. 3. della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisce che tutti sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Ma che significa essere fratelli? E sopratutto cosa si intende per “correzione fraterna” (Regolamento ArnS 3.1.2, p. 18) e come distinguerla dall’abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.), dall’abuso di autorità morale (can. 1389) o dall’abuso di coscienza (cann. 213-214)? Per rispondere a tali domande cercherò di trovare un criterio che potrebbe essere quello dell’oggetto della correzione. Si può considerare la “correzione fraterna” quale materia dei laici? Cosa ci insegna la Bibbia?

Innanzitutto la “dimensione pneumatica” (spirituale) così come emersa durante l’assemblea plenaria di Ottawa (28 aprile 1975) che insisteva sulla necessità di esercitare il discernimento sulle manifestazioni carismatiche dello Spirito santo, rianimare i cristiani secondo una vita comunitaria personalizzante, l’autonomia dell’esperienza spirituale, la responsabilità dei laici accanto a quella della gerarchia (LG 9). La teologia è una vocazione suscitata dallo Spirito santo (Istruzione “Donum Veritatis” sulla vocazione ecclesiale del teologo 24 maggio 1990 n. 6; EV 12, 256) mediante la quale si acquisisce un’intelligenza sempre più profonda della parola di Dio. Scopo della teologia non è di ostentare la verità assoluta ma porsi domande di senso e la domanda che mi sono posto prima di scrivere questo articolo è stata “perché gli altri non si sono accorti di nulla?”. Lo “spirito” rinvia a sua volta all’idea che esista uno spazio interiore rispetto a quello esteriore, qualcosa che sta dentro e fuori di sé e che è fonte di senso religioso. Ne consegue che lo spirito è delimitato da porzioni specifiche di sacro e profano. La teologia è sinonimo di movimento, inteso come capacità di interpretare le costruzioni materiali, temporali e sociali che condizionano l’esperienza umana.

Nel VT la correzione fraterna compete ai profeti per punire il popolo dalle sue inadempienze. In tal senso Ezechiele appare come una “sentinella” (Ez 3, 16-17) con il compito di individuare la condotta malvagia degli empi ed avvisarli dell’imminente punizione divina. Gli stessi profeti furono soggetti a prove e punizioni e risultavano invisi alle autorità, ad es. Isaia fu condannato a morte da Manasse, re di Giuda, perché aveva cercato di trattare gli affari del suo regno con la diplomazia piuttosto che con la strategia militare. Il libro del Levitico estende la correzione non solo ai profeti ma a tutti gli ebrei, sia religiosi che laici, nella speranza di evitare vendette fratricide e guerre a oltranza tra i popoli. Il predicato “amerai il tuo prossimo come te stesso” letteralmente significa “amerai lo straniero residente” (Lv 19, 17-18) che non può essere inteso in senso sentimentale ma politico e teologico. Il complesso sistema giudiziario ebraico contemplava la legge del taglione e lo stesso Jahvè appare come Dio vendicatore (Sal 94,1) salvo poi attribuire vari macarismi ai giusti che si fanno correggere.

Scrive san Paolo: “Se qualcuno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo spirito, correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso per non cadere anche tu in tentazione” (Gal 6,1) e ancora “Vi esortiamo fratelli: correggete gli indisciplinati” (1Ts 5,12-14) laddove il termine “noutheteite” (correggete) indica un competenza esclusiva dei responsabili e dove “ataktous” significa letteralmente “coloro che deviano dalla norma”. Ciò significa che la colpa deve essere legata a qualche forma di norma comportamentale, anche non codificata ma che risponda ad un dato di realtà non determinato dal soggetto. Per intenderci, l’adultero devia dalla retta condotta matrimoniale ma il cantore non può deviare dalla musica napoletana o dal canzoniere per il semplice fatto che né la musica né il canzoniere sono “norme” in sé ma si basano su delle note musicali che non hanno nulla a che vedere con la morale. In un altro episodio del suo epistolario Paolo corregge san Pietro per la sua concezione troppo restrittiva della comunità di Antiochia (Gal 2,11-16) che fa da sfondo ad un conflitto tra gruppi di etnia diversa.

La correzione fraterna ha dei risvolti morali? Nella prima lettera ai Corinzi (1Cor 5,1-6,20) san Paolo reagisce di fronte a diversi casi di gravi disordini morali di cui uno punito con la scomunica (1Cor 5,5). Più propriamente la parola “porneia” nella “Bibbia dei LXX” (una versione tradotta in greco) significa prostituzione oppure idolatria o anche lussuria o licenziosità. Nei Vangeli sembra più avvicinarsi al significato di incesto (Mt 5,32.19,9) il cui divieto è attestato sia nel mondo romano (cfr. Gaio, Istitutiones) che in quello giudaico (Lv 18,8.20,11; Dt 23,1.27,20) dove è persino punito con la lapidazione. Poiché far parte della Chiesa significa parteciparne ai sacramenti e poiché chi si è macchiato di peccati gravi non può accostarsene, san Paolo esige che la comunità eserciti delle pressioni con un atto esplicito verso il soggetto incriminato il quale viene privato dei sacramenti (scomunica) e quindi della salvezza (extra ecclesiam nulla salus); è una pena medicinale per una colpa morale, non per motivi di “ordine pubblico”. Nella lettera ai romani (Rm 7,8) il peccato appare come una realtà personale (ipostatica) che si identifica con l’egoismo umano, riprendendo alcuni temi sapienziali.

Nella lettera ai Corinzi san Paolo cita un giovane che aveva avuto una relazione con la convivente del padre. Si badi bene che qui il danno è prima di tutto contro la santità della donna offesa e poi di tutta la comunità di cui lei fa parte. Non sappiamo però se la donna fosse cristiana ed anzi probabilmente non lo era tuttavia san Paolo afferma che si tratta di un caso “pubblico” e, quindi, meritevole dell’attenzione di tutta la comunità ma che probabilmente non ha sortito gli effetti sperati. Si tratta, cioè, delle informazioni pervenute dalla delegazione composta da Stefana, Fortunato e Acaico che gli hanno presentato il caso in questione. Mentre i corinzi pensavano che lo spirito potesse negare l’attenzione verso il corpo (platonicamente inteso come prigione dell’anima), san Paolo afferma che è proprio il corpo a doverlo contenere. Allo stesso tempo i corinzi non possono più sentirsi padroni di sé stessi ma proprietà di Dio che ha operato un’azione di riscatto dalla schiavitù del peccato alla libertà della Chiesa. La metafora delle “membra del corpo di Cristo” (Chiesa), per il quale la morale di un solo credente condiziona quella dei restanti membri della comunità, consente a san Paolo di argomentare le sue posizioni ed imporre il proprio punto di vista. Si può parlare di una nuova morale paolina ovvero di una morale giudaica riformata? Rispetto al giudaismo, infatti, la gloria di Dio non è più manifesta tramite il Tempio ma dal corpo di Cristo.

Nella preghiera sacerdotale Gesù rivela il suo disegno missionario affinché tutti siano una sola cosa (Gv 17,21) e ciò è ancora più attuale in un’epoca in cui c’è sempre più interdipendenza. La Chiesa non è solo l’unione di tutti i cristiani ma è una realtà mondiale che interagisce sia sul piano spirituale che politico. Di fronte alle lacerazioni ed alle divisioni del mondo, perciò, la risposta della Chiesa deve essere il dialogo. La Chiesa primitiva, tuttavia, aveva una visione apocalittica che oggi è quasi del tutto scomparsa. Ecco perché nei Vangeli la correzione assume toni penitenziali. Nella Chiesa primitiva si faceva leva sull’unità e di conseguenza sulla responsabilità personale. Alla base c’è l’idea di un giudizio imminente e quindi la paura di contaminare la purezza dell’anima e del corpo in vista della trasfigurazione futura. Qualcosa di molto simile alla teologia giudaica considerando che i primi cristiani erano ebrei della diaspora e quindi tradivano le categorie mentali dei loro avi.

Dice Gesù: “Se il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neanche costoro, dillo all’assemblea; se poi non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano” (Mt 18,15-17).

Il vangelo secondo Matteo, che ruota attorno a cinque grandi discorsi del maestro, riprende le consuetudini giudaiche dell’halakà che imponevano precise direttive per garantire una lineare e ordinata condotta di vita. Nel giudaismo infatti l’assemblea dei fedeli si percepisce come “santa” e quindi separata dal resto del mondo considerato impuro. Inoltre nel giudaismo sussisteva una forte discrasia tra sacro e profano. Anche l’evangelista Luca sembra essersi ispirato alla letteratura giudaica in particolare il Testamento di Gad un testo apocrifico del II a.C. e il precetto deuteronomistico del processo civile (Dt 19,15; 17,6; Nm 30,35). Il cristianesimo quindi eredita dal giudaismo non solo questa visione profetica ma anche la dimensione comunitaria della correzione e della penitenza. La comunità matteana, tuttavia, non è composta da “puri” o da “separati” ma da persone comuni che vivono in un “campo” in cui crescono insieme grano e zizzania (Mt 13,24-30).

La presenza di testimoni si rendeva necessaria in assenza di prove documentarie. Ad una valutazione più attenta tuttavia il predicato di scomunica (Mt 18,17) non si concilia con il giudizio di Gesù sugli emarginati della società giudaica. Se da una parte i pagani e i pubblicani erano considerati alla stregua di un’aberrazione sociale e morale, d’altra parte Gesù si definiva amico dei pubblicani e dei peccatori (Lc 15,1; 5,30). Come si può interpretare questa anomalia? In realtà Matteo richiama la comunità ai suoi doveri pastorali ma non riconduce alla stessa comunità alcun potere discriminante. Infatti non dice “sia per la comunità come un pagano” ma “sia per te”. Si ammette implicitamente la possibilità che due persone possano frequentarsi in una stessa comunità religiosa ma senza parlarsi né guardarsi? Forse si allude alla possibilità di effettuare una nuova procedura e quindi riattivare il ciclo (io-tu-noi) all’infinito? In realtà Matteo sembra porsi il problema su due piani distinti: una correzione “a tempo” da effettuarsi pubblicamente per mezzo di ministri ed un perdono “illimitato” che riguarda i rapporti privati tra fratelli. Nel primo caso lo scopo è di guadagnare il fratello, nel secondo è di ottenere la salvezza.

Il Vangelo secondo Matteo (Mt 7,5), inoltre, consente di focalizzare l’attenzione sulla distinzione tra funzione probatoria (laica) e quella pedagogica (religiosa). Infatti, poiché il laico non gode dello “jus corrigendi” che spetta solo ai pastori dotati di magistero, la sua funzione è esclusivamente probatoria cioè finalizzata a dimostrare qualcosa. Il vangelo sancisce tre modi per correggere gli altri:

a) intervenire di persona in funzione probatoria per accertarsi delle intenzioni dell’altro e per chiedersi il perché del gesto commesso onde invitare il soggetto deviante alla riconciliazione coi fratelli danneggiati dalla sua condotta; si tratta di un metodo relazionale perché considera il punto di vista dell’altro;
b) intervenire insieme ad uno o più testimoni sempre in chiave probatoria per poi riferire ai sacerdoti; conserva la relazionalità del metodo precedente ed in più aggiunge il valore del testimone in funzione di terzi.
c) intervenire insieme ad un sacerdote, magari portando l’episodio all’attenzione della comunità, in funzione pedagogica ma non punitiva. Tale metodo, in uso presso le prime comunità cristiane, presuppone il pentimento del peccatore il quale confessa pubblicamente e consapevolmente il proprio male. I tre metodi, comunque, non sono alternativi quanto piuttosto forme di una progressione ai fini del ravvedimento del soggetto interessato.

Si può parlare di una specificità della correzione fraterna all’interno delle associazioni di fedeli? Lo Statuto CL affida la correzione al Presidente “con spirito di fraterna carità” e “solo in caso di pertinace comportamento e di incorreggibilità” si può procedere all’espulsione (Statuto CL art. 6). Anche i fedeli della Prelatura devono esercitare la correzione fraterna per aiutarsi vicendevolmente” (Statuto OD). Il Regolamento ArnS inserisce il “criterio della correzione fraterna” nel capitolo dedicato alla pastorale. Quindi si presume che questo potere sia ad appannaggio di coloro che fanno parte del gruppo pastorale. Il Regolamento ArnS inoltre prevede la “Dissociazione” del singolo membro in caso di “gravi irregolarità” che può essere proposta dalla Pastorale di servizio (Statuto ArnS art. 5 co. 2) mentre la decisione spetta all’Organo competente superiore a meno che non si tratti di un soggetto con responsabilità pastorali allorché la competenza è del Consiglio Nazionale di Servizio (Regolamento cap. 2.11, p. 16). Contro la dichiarazione di dissociazione l’interessato può fare ricorso entro 60 giorni sia al Nazionale che al Regionale. La “dissociazione” non può essere considerata una forma di correzione fraterna in quanto manca dell’ipotesi di resipiscenza (pentimento e riammissione).

Scrive san Paolo: “Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo spirito correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione” (Gal 6,1).

Questo passo introduce al concetto di “colpa” che è trattata da san Paolo dal punto di vista morale come nel casodell’incestuoso (1Cor 5,5), perché all’epoca l’incesto era a tutti gli effetti una colpa sebbene tutte le culture in qualche modo stigmatizzano questo fenomeno. La norja cioè deve essere culturalmente percepita come tale. Bisogna però aggiungere che san Paolo insiste molto nella separazione tra sacro e profano, ad es. quando afferma che bisogna distinguere la cena in cui si fa memoria di Cristo da un comune pasto (1Cor 11,20-21). San Paolo, che si definisce ebreo e fariseo, eredita le categorie mentali giudaiche che conferivano una separazione netta tra spazio sacro e profano. Gli evangelisti invece sembrano invertire le parti: Gesù si manifesta come l’accoglienza totale del Padre (Gv 10,30) e guarisce i peccatori di sabato.

Che cos’è l’accoglienza? Nel linguaggio comune è spesso confusa con l’ospitalità mentre in greco e in ebraico emerge rispettivamente il significato di “prendere” (lambano) o “raccogliere” (qabal). Bisogna premettere che né il Regolamento né lo Statuto dell’ArnS ne fanno cenno. Nella liturgia cattolica il servizio degli Addetti all’accoglienza è un ministero che si occupa principalmente di accompagnare gli anziani, i disabili e altre persone non autosufficienti (OGMR 105d). Secondo alcuni l’accoglienza è interpretata come uno spazio dove ognuno si “libera” delle proprie preoccupazioni derivanti dal mondo quotidiano e predispone il corpo e l’intelletto ad accogliere lo spirito santo che è in procinto di effondere e che dovrebbe ispirare l’animo umano alla preghiera. In tal senso coincide con la socializzazione.

Secondo altri l’accoglienza è uno spazio sacro che esprime in sé la presenza dello spirito santo e quindi viene a configurarsi come un “tutt’uno” rispetto alla preghiera senza soluzioni di discontinuità. Ammesso e non concesso che ciò sia vero a questo punto sorge la domanda spontanea: quando inizia l’accoglienza? Infatti la preghiera vera e propria ha un inizio preciso che coincide nel momento in cui il cantore effettua il “segno” della croce e intona il canto. Forse che l’accoglienza inizia quando il partecipante supera la soglia che conferisce l’accesso ai locali della preghiera? Forse inizia già dalla strada pubblica di accesso? O forse da casa propria? O forse è insito nella nostra infanzia? O forse già prima di nascere? Queste ipotesi assurde servono a dimostrare che non si può definire l’inizio di qualcosa senza un criterio.

Se è difficile stabilire quando inizia la fase di accoglienza, allora diventa quasi impossibile prevederne la fine. È la cd. “tecnica del ritardo” molto utilizzata nell’ambito dello spettacolo per sfruttare il consenso sociale: «Nel mondo dello spettacolo è molto diffuso il “fashion later”, per cui il vero vip dovrebbe farsi desiderare e quindi diventa inevitabile presentarsi in ritardo agli appuntamenti. C’è chi considera il fashion later composto in un tempo accettabile, qualcosa di naturale, connaturato al contesto, quindi prevedibile e per certi versi anche non deprecato. Anzi fa parte del rituale tra personaggi conosciuti e pubblico. Quasi una licenza che viene concessa a chi ha successo, per mostrarsi agli altri e quindi farsi desiderare nel momento in cui agli eventi si arriva in tempi che non sono standardizzati. Il ritardo comunque può essere percepito come presunzione di superiorità rispetto a regole di vivere comune e quindi educazione relazionale. È la forma meno accettata e quindi deplorata, proprio perché rivela un tratto del carattere e quindi dell’indole negativa di chi mette in atto questo tipo di comportamento» (Bertolini F., Sentimenti. Si può vivere senza provare sentimenti?, Amazon, UK, 2022, cap. 52).

Gli apostoli di fronte alla pessima accoglienza dei samaritani (Lc 9,51-56) invocano l’aiuto divino (cfr. 2Re 1,10-14) ma la collera non si coniuga nei modi stabiliti da Gesù. In questo caso la “colpa” è data dalla mancata accoglienza perché nella mentalità dell’epoca l’ospitalità era – ed è tuttora – un valore fondante della vita semitica. Ci sono altri episodi che possono essere più o meno ricondotti all’accoglienza ed alla correzione fraterna: la morte di Anania e Saffira (At 5,1-11), l’ammonizione paolina (1Cor 5,9-15), l’obbedienza paolina (2Tes 3,14-15), la sofferenza vicaria (Eb 12,7-11), la correzione pubblica (1Tm 5,20) e quella privata (Mt 18,15), la preghiera correttiva (1Gv 5,16-17), la correzione reciproca (Didachè 1,15).

Clemente romano (m. 99 d.C.) esorta i cristiani a soffrire per gli altri e a intercedere per i peccatori. Clemente Alessandrino (150 – 215) distingue tra remissione e correzione: solo Dio può rimettere i peccati mentre la correzione è affidata ai pastori che la esercitano tramite il consiglio spirituale. Nei primi secoli dell’era cristiana inizia a diffondersi nella Chiesa la prassi di affidare ai penitenti un maestro o una guida spirituale che lo corregga e lo sorregga. La Didascalia Apostolica attribuisce al vescovo la facoltà di rimproverare e guarire i propri fedeli anche con misure drastiche. Ambrogio di Milano (339 – 397) corregge l’imperatore Teodosio perché aveva condannato più di 7000 persone durante una sedizione. Brigida di Svezia e Caterina da Siena correggono il papato avignonese colpevole di aver abbandonato la sede di Pietro.

Agostino di Ippona (354-430) in “La dignità dello stato vedovile” (De bono viduitatis, I, 2) distingue tra esortazione e dottrina: la dottrina è come possiamo conoscere ciò che si debba fare, l’esortazione è come siamo disposti a compiere ciò che abbiamo conosciuto come dovere. Ci troviamo nell’ambito di un’esperienza di fede che si adatta al contesto in cui il credente vive e prega. Quindi a prescindere da ciò che dice la legge (o ciò che “non” dice) ci sarà sempre un discernimento tra la dottrina e l’esperienza. In altre parole l’esortazione è sempre legata ad una realtà concreta che modifica il modo d’intendere l’esperienza. E questa realtà concreta è il discernimento.

Tommaso d’Aquino (1225-1274) distingue tra correzione giuridica e fraterna per indicare il ruolo esercitato rispettivamente dal superiore gerarchico e dal fratello di comunità. Più precisamente la ritroviamo nel capitolo dedicato alla carità: “La persona è in relazione verticale con Dio e orizzontale con i suoi simili” (ST II II 1. 33 a. 1-8). Ciò significa che ci sarà un giudizio nell’aldilà che riguarda l’anima e un dialogo nella vita presente che riguarda il ruolo e le relazioni dell’uomo in società. Se la ragione persegue la felicità, allora l’anima persegue la beatitudine. La volontà, a sua volta, da sola non basta per seguire l’ideale della beatitudine ma occorre che vi sia una buona volontà e, affinché la volontà sia buona, occorre che l’uomo conosca il bene e viva in società: «il discernimento si compie per via razionale, nel senso preciso del termine, ossia con un ragionamento. La premessa universalissima della ragion pratica è che si deve fare il bene ed evitare il male» (Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, Bari, 1999, p. 118).

Tutto ciò suggerisce l’idea che sussista qualcosa definito come un “bene” e qualcosa di “male” in riferimento all’uso che se ne fa. La coscienza non accede alla conoscenza del bene e del male (sinderesi) se non tramite l’esperienza sensibile ovvero emotiva (le emozioni che muovono al volere). Tommaso tuttavia corregge la tesi stoica secondo la quale le passioni sarebbero in contraddizione rispetto alla ragione e dunque sarebbero sempre da evitare, ad es. l’ira è cattiva in riferimento al danno prodotto verso colui che che ha offeso la propria donna ma l’ira di per sé esprime anche degli aspetti buoni, quasi “cavallereschi”. Quali sono dunque i criteri per giudicare la moralità di un atto? Oggetto, fine e circostanze. L’oggetto è l’idea dell’atto, ad es. rubare per mangiare. Il fine è l’intenzione del soggetto nel singolo atto, ad es. la sopravvivenza. Le circostanze sono le condizioni che consentono al soggetto di esprimere un’intenzione morale, ad es. l’essere poveri o ricchi. Già Abelardo aveva evidenziato il valore delle intenzioni, ad es. rubare per mangiare può essere una buona azione se l’intenzione che anima il furto è buona. Tommaso invece dice che l’intenzione buona del soggetto non ha il potere di conferire qualità buona ad un atto cattivo, ad es. rubare non diventa lecito per il fatto che chi lo fa risponde ad un istinto di sopravvivenza. In questi casi il furto non è solo illecito ma è anche immorale perché carente della libertà di scegliere ovvero delle circostanze che indurrebbero il soggetto a preferire la propria morte per inedia.

Nella sua prospettiva sul libero arbitrio, tuttavia, Tommaso afferma che nell’uomo è presente anche una volontà al male che chiama “nolizione” (ST I-II, q.8 a.1) che riguarda l’idea di peccare per cattiva volontà e ciò avviene perché la natura umana è debole, in quanto partecipa all’essere, ma non è l’Essere. L’uomo, perciò, non sceglie sempre il bene e, di conseguenza, non sceglie sempre il male. In altre parole l’uomo non può evitare di compiere il male e, di conseguenza, non può non fare il bene. L’uomo, quindi, fa il male alla stregua del bene ma le valuta in maniera diversa. Valutare moralmente un’azione, perciò, significa esaminare se può contribuire a realizzare un bene inferiore (sicurezza economica o beneficio particolare) senza negarne uno superiore (giustizia sociale o bene comune). La coscienza in altre parole non è infallibile ma è il frutto di un ragionamento in campo pratico.

Alfonso Maria de Liguori (1696-1787) è considerato il precursore del Rinnovamento carismatico in relazione al fenomeno delle “cappelle serotine” dove la preghiera e il canto erano recitati da laici e religiosi in dialetto napoletano. Tale pratica era conosciuta da due secoli con il nome di “apostolato d’ambiente” (Rey-Mermet T., Il santo del secolo dei lumi, Città Nuova, Roma, 1983, p. 229) all’occasione rivisitato in chiave partenopea. Sono gli stessi anni della scuola classica viennese (Haydn, Beethoven e Mozart) che interpreta mirabilmente sia la musica sacra che profana. Il bisogno di utilizzare la lingua dialettale non nasce solo per fini missionari ma dalla necessità di arrivare al cuore dei fedeli:

“La musica è sopratutto il trionfo dei napoletani. Sembra che in questo paese le corte dei timpani siano più sensibili, più armoniche, più sonore che in tutto il resto d’Europa; la nazione è un canto solo; il gesto, l’inflessione della voce, la prosodia delle sillabe, la stessa conversazione, tutto rivela e respira l’armonia e la musica. Così Napoli, sorgente della musica italiana, è culla di grandi compositori e di opere eccellenti” (Rey-Mermet T., op. cit., pp. 107-108).

E ancora:

“Così facendo il missionario dei lazzari insegna i fondamenti del cristianesimo, li rende protagonisti dei cerimoniali liturgici e perpetua l’uso consolidato del canto popolare come forme “speciale” di catechismo” (Sparagna A., Canzoncine che raccontano Dio, “Vatican news”, 1 agosto 2020).

Durante l’Avvento e le feste dei santi il canto si esprimeva principalmente in modalità solista mentre con la Quaresima iniziò a prevalere il canto corale. Sant’Alfonso aveva studiato alla scuola di Gaetano Grieco (1650-1728), lo stesso maestro di Scarlatti e Pergolesi, e si era perfezionato presso l’oratorio dei Gerolomini. Altri brani concorrono a dare fama all’autore: “Tu scendi dalle stelle”, “Fermarono i cieli”, “Quanne nascette ninno”, “O fieri flagelli”, “Duetto fra l’anima e Gesù Cristo”, “Gesù Cristo peccerillo” fino al punto da dare vita ad un genere musicale del tutto nuovo che in alcune aree dell’arco alpino viene tuttora definito “Chiarastella”.

A tal proposito sono indicative le prime parole del brano “Quanne nascette ninno” (1754) riferite a Gesù:

“Quanno nascette Ninno a Betlemme
Era nott’e parea miezo juorno.
Maje le Stelle – lustre e belle
Se vedetteno accosì
E a cchiù lucente
Jett’a chiammà il Magge all’Uriente”.

Nella musica napoletana c’è un senso religioso costante. Del resto i gruppi religiosi hanno tradizionalmente associato il loro credo alla promozione della propria identità etnica: in primo luogo fornire una rappresentazione dell’identità collettiva marcandone le differenza con gli altri e in secondo luogo delimitare simbolicamente un territorio che costituisce lo spazio vitale del gruppo umano di riferimento. Avendo a che fare con il patrimonio simbolico che gelosamente ogni gruppo umano conserva, si comprende di come il principio etnico si sposa con la religione che d’altro canto ha sempre svolto il ruolo di sacralizzare la memoria collettiva e conferire un fondamento trascendente all’identità culturale di un popolo organizzandone i comportamenti in base ai riti, ai miti e alle feste. Ciò non toglie che il rapporto tra “ethnos” ed “ethos” sia ambivalente, ad es. i salmi che nascono come composizioni liriche molto spesso non sono cantati né salmodiati (OGMR 102).

I canti del canzoniere “Dio della mia lode” hanno dei riferimenti etnici? Si tratta di più di 500 brani molti dei quali tradotti dall’inglese, altri in latino (Confitemini domino, Magnificat, Miserere, Misericordias Domini, O Christe Domine Jesù, Ostende nobis, Stabat Mater, Te Deum, Ubi Caritas, Veni sancte Spiritus), in ebraico (Evenu Shalom, Qol rinnah wishuah, Talità kum), in greco (Kyrie), in spagnolo (Alabarè, Caminando voy, En el cielo se oye, En la iglesia, Los que esperan en Jesus, Mi mano està llena, Vive Jesus el Senor) dove i riferimenti etnici sono quasi tutti riconducibili al mondo biblico. In “Alabarè” c’è un riferimento all’Italia che “si salverà” (n. 9). In “Alzati e risplendi” (n. 25) sta scritto “verranno da Efa, da Saba e Kedar” rispettivamente dai clan della tribù di Madian, l’Arabia e il Sinai. In “Com’è bello” appaiono l’Ermon e Sion che sono delle montagne della Palestina. In “Come Davide” (n. 67) sta scritto “Teru’ah” che era il grido di battaglia degli ebrei. “Maranathà” (nn. 174-176) è un’espressione aramaica che significa “Signore vieni” (1Cor 16,22). Sarebbe un errore affermare che i termini come “Alleluia, Amen e Osanna” sono espressioni italiane; in realtà sono espressioni semitiche ormai entrate nel lessico comune italiano. Non esiste canto al mondo che non abbia almeno un riferimento “etnico” perché il linguaggio stesso è un elemento culturale che nasce da un popolo con proprie tradizioni e costumi. Se dunque è possibile pregare e cantare in italiano e spagnolo perché non è possibile fare lo stesso in napoletano che “r-accoglie” tutte le suddette lingue?

Un altro esempio di canzoniere “etnico” è “Resuscitò” del CN dove Kiko Arguello tradisce la cultura andalusa che enfatizza il canto solista (chitarra) e una varietà di strumenti di accompagnamento di area mediterranea (flauto, violino, banjo, percussioni, etc.). Kiko è citato come l’unico autore del canzoniere sebbene molti brani sono sfacciatamente copiati da altri compositori (Filippucci, Carlebach). A differenza del canzoniere dell’ArnS, lo scopo del Resuscitò non è quello di divulgare dei canti ma di trasmettere la tradizione orale ricevuta (Introduzione al Resuscitò, Edizioni Fondazione Famiglia di Nazareth, Roma, 2017, p. XV). La costituzione dogmatica “Sacrosanctum concilium”, pur riconoscendo il canto gregoriano come tradizione privilegiata della Chiesa, non esclude altri generi musicali: “si promuova con impegno il canto religioso popolare in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme stabilite dalle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli” (SC 6, 118).

Nella Bibbia il primo figlio nato al mondo (Abele) viene ucciso da suo fratello (Caino). Il Figlio dell’uomo (in questo titolo attribuito a Gesù c’è l’idea di un Dio che condivide la sorte dei suoi figli afflitti dal dolore) invece si presenta come un maestro dolce che non impone nulla ai discepoli ma si umilia nel lavare i loro piedi (Gv 13,14). Nella cultura ebraica i piedi costituivano la parte infima del corpo da cui bisognava purificarsi continuamente. I discepoli si arrabbiano di fronte ai bambini che si avvicinano al maestro ma Gesù risponde con un messaggio dall’alto contenuto morale: per entrare nel Regno bisogna diventare come bambini e accontentarsi delle ultime posizioni (Lc 18,16-17). Quella di Gesù tuttavia non è una dottrina in senso stretto che si può apprendere tramite dei precetti (Mt 16, 5-12) ma è una regola morale di vita cristiana che si realizza per tramite della fede con la quale Cristo inabita nel cuore del credente che diventa membro del suo Corpo e quindi della Chiesa (1Cor 12,13.27). Già Paolo aveva riconosciuto il ruolo pedagogico della Legge mosaica (legge vetusta) come propedeutica per la grazia (legge nuova): l’amore e la vita non possono essere pensati nella forma del precetto perché ciò che essi domandano esula dalle forze umane che quindi risultano un dono di Dio.

In altre parole la legge appare quasi un ostacolo che non si deve superare, quasi un “peso” da cui ci si deve liberare, perciò la scuola di Francoforte nel 1936 ha dimostrato che chi vive la legge come un limite finirà per opprimere gli altri e chi vive in contesti oppressivi, appena potrà, opprimerà la vita degli altri. Che cos’è la vita nuova? È “la ricerca della santità attraverso l’obbedienza alla Parola di Dio” (Regolamento ArnS 1.1.1, p. 5). L’obbedienza (ob-oedire = ascoltare) qui è intesa non come virtù morale ma come dovere giuridico verso gli atti di governo e di magistero. Niente a che vedere con il codice d’onore dei samurai (Bushido) dove la vittima è “sottomessa” al proprio Signore sebbene la “sottomissione” risponde a precise strategie politiche ed economiche. Diversamente il codice di diritto canonico recita:

“I fedeli, consapevoli della propria responsabilità, sono tenuti ad osservare con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori, in quanto rappresentano Cristo, dichiarano come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa” (can 212).

La norma è stata così interpretata dalla Redazione dei Quaderni di diritto ecclesiale (Codice di diritto canonico commentato, Ancora, Milano, 2022, pp. 235-236):

“Il fondamento è indicato con l’espressione ‘in quanto rappresentano Cristo’; l’ambito e il limite sono stabiliti nella precisazione che l’obbedienza è dovuta ai pastori, cioè i vescovi e non i presbiteri, in ciò che essi insegnano come maestri della fede e negli atti di governo che pongono. Si dice inoltre che è dovuta dai fedeli ‘consapevoli della propria responsabilità’: ciò significa che si è tenuti non solo a obbedire all’autorità competente e in quanto insegna e governa a norma del diritto ma anche che ogni fedele, nel vivere l’obbedienza, è responsabile verso l’unità e l’edificazione del corpo di Cristo, la testimonianza della fede e la condotta di una vita santa. Significa pure che, nelle concrete circostanze dell’esistenza, le scelte vanno compiute secondo i dettami di una coscienza illuminata, nella consapevolezza che delle proprie azioni si è responsabili di fronte a Dio: quest’obbedienza deve infatti essere cristiana, vissuta cioè non come ossequio agli uomini, ma a Dio. Il delitto di ostinata disobbedienza viene sanzionato (can. 1371).

E ancora:

“Ogniqualvolta il fedele vede l’opportunità e l’utilità o più ancora la necessità di esprimere il suo pensiero intorno a una questione che riguarda la vita della Chiesa, ha il diritto e il dovere di farlo; ha diritto cioè di trovare ascolto attento e serie considerazione presso coloro che presiedono nella Chiesa, ai quali spetta specialmente non di estinguere lo Spirito ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (LG 12b).

Da qui si evince che le associazioni dei fedeli “NON” rappresentano Cristo e pertanto non possono rivendicare alcuna obbedienza. La vita spirituale è un’esperienza di discernimento che può prevedere talvolta qualche forma di accompagnamento (1Cor 2,14) ma non di “sottomissione”. I laici possono esprimere delle opinioni, anche durante lo svolgimento della preghiera, ma senza turbamento della sensibilità morale e dell’innocenza altrui. La libertà umana tuttavia non gode del primato sulla verità (autonomia morale). In questo senso Dio non sarebbe l’autore della legge morale ma il creatore di colui che fa le leggi (autolegislazione umana). Ciò non significa che l’uomo si regola da sé ma che effettua una sintesi tra autonomia e teonomia: se il dovere è l’obbedienza a Dio (teonomia), allora il diritto è obbedienza agli uomini (autonomia)?

Vengono così a configurarsi una fondazione teonoma della libertà ed una autonoma del mondo. Non solo il mondo però ma anche l’uomo è stato affidato alla propria cura e responsabilità (libero arbitrio) perché cercasse il suo creatore e giungesse alla perfezione (giustificazione). Questo è il motivo per cui san Paolo litiga con Pietro ad Antiochia: la legge naturale altro non è che la luce dell’intelletto infuso in noi da Dio, al momento della creazione, e grazie alla quale l’uomo riceve il discernimento. “Obbedienza a Dio” (Regolamento ArnS 1.1.1, p. 5) non è eteronomia come se la vita umana dipendesse da forze esterne a lui ma è una teonomia perché la libera obbedienza dell’uomo alla legge divina implica la partecipazione a qualcosa che già è insito in lui, nella sua natura (coscienza).

“Per quanto possa esistere un dovere alla formazione, l’accompagnamento spirituale non può mai costituire un dovere giuridico perché è impossibile che l’interiorità di una persona possa appartenere ad un’altra. Si può chiedere un incontro per uno scambio di impressioni o per trasmettere alcuni orientamenti ma non si potrà mai arrivare ad obbligare a rivelare la propria coscienza altrui senza la libera rivelazione (…) la fiducia non si impone ma nasce e cresce in maniera spontanea nel rapporto umano” (Accompagnare, discernere, integrare: profili e prospettive giuridico-ecclesiali, Glossa, Milano, 2019, pp. 46-47).

Il n. 42 della “Caritas in veritate” (IV capitolo) papa Benedetto XVI afferma: «la solidarietà universale, che è un fatto, è anche un dovere» nel momento in cui qualcuno volontariamente fa qualcosa per un altro; è un fatto che ricorda che all’interno del genere umano c’è una dimensione di uguaglianza. La solidarietà consiste nel riconoscere l’uguaglianza che, in virtù dell’essere “in solidum”, è un bisogno reciproco (dovere), è qualcosa che si riflette nell’agire concreto ed è un ausilio all’ordinamento giuridico della Chiesa perché si adatta ai diversi contesti in cui agisce. Non può esistere una pastorale se il pastore non è accompagnato (o pregato) dai fedeli. Non può esistere una correzione se il correttore non è corretto dai corrigendi. Non può esistere un canto se il cantore non è cantato dai cantanti. E così via. Questo stesso testo non potrebbe esistere se chi scrive non è letto da altri. In altre parole bisogna dare la priorità alle connessioni esistenti perché il cristianesimo non può ridursi ad un “catalogo di divieti” (O’Malley S.P., Cercasi amici e lavapiedi, Paoline, Cinisello Balsamo, 2021, p. 144).

Conclusioni

Al giorno d’oggi le cronache dei giornali presentano gli abusi nella Chiesa cattolica come a vicende dai tratti oscuri ed allo stesso tempo grotteschi. Chi vive e serve la Chiesa è convinto che al centro vi sia la persona umana al servizio del Vangelo e dell’amore di Cristo ma se non ha mai affrontato un simile argomento, allora non può capire la gravità del problema che raccogliere in sé un coagulo di fede, sgomento e rammarico. Oggi invece ci ritroviamo questi valori “spodestati” da un Regolamento, uno Statuto e delle prassi obsolete di sedicenti associazioni di fedeli (cann. 215; 298-329) che non hanno nulla a che vedere con le condizioni minime della convivenza civile e basterebbe questa parola per creare più imbarazzo che altro. Per tali motivi ho deciso di effettuare un discernimento all’interno di tali movimenti e della modalità attraverso le quali la correzione fraterna è regolamentata.

Da teologo sono più che mai convinto del primato del discernimento nello spirito. La teologia non avrebbe senso senza la possibilità di mettere in pratica quanto si insegna. I movimenti carismatici, del resto, nascono come esperienza di fede nello spirito. E fare esperienza significa anche fare discernimento. Certo si può sbagliare ma, come giustamente insegna Sant’Agostino, lo si può capire solo a partire dagli effetti dell’esperienza e mai dalle cause della dottrina. Un’esperienza può nascere come correzione fraterna e finire come opinione. Viceversa, un’esperienza può nascere come opinione e finire come correzione. Possiamo discettare per ore e ore sul sacro o sul profano, su quella norma o sul quel principio ma non serve a nulla se non c’è la carità. Però torniamo al punto di partenza perché anche la carità ha bisogno di competenze (conoscenze + abilità).

Sono sinceramente convinto che, nella maggior parte dei casi, la correzione fraterna non sia nelle intenzioni originali di chi la compie. L’etichetta “correzione fraterna” subentra in un secondo momento dalla narrazione dei responsabili che però molto spesso sono assenti o non hanno visto né sentito nulla. Il silenzio nei confronti della vittima è qualcosa di abominevole, è qualcosa di omertoso, e l’omertà è mafiosa. Ma mentre i mafiosi si riconoscono per ciò che sono in realtà, cioè dei criminali, i vigliacchi si nascondono dietro la maschera del cittadino normale. La correzione acquista contorni confusi come una giustificazione plausibile ed un modo per metterci “una pietra sopra”. Ma non è stato sempre così. La tradizione cristiana è stata una costante di tutti gli ordinamenti giuridici moderni e, che lo si voglia accettare o meno, si basa sui valori dell’armonia, dell’amicizia e dell’accoglienza. Sono sinceramente convinto che nella maggior parte dei casi la “correzione” c’entri ben poco e tutto si riduce ad una mancanza di discernimento.

La preghiera ha i suoi momenti che la delimitano e non la confondono con lo spazio profano che può favorirla ma non confonderla. Nella storia della Chiesa il tentativo di confondere sacro e profano ha causato i momenti più drammatici della società con lo scoppio di guerre e violenze perché inevitabilmente lo spostamento dell’equilibrio dall’una o dall’altra parte rivela dei fini reconditi. C’è stata una correzione fraterna che si è realizzata con Gesù Cristo e gli apostoli e ci sono infinite “pseudo-correzioni” che nulla hanno in comune con l’archetipo ma che rasentano l’utopia di un regno materiale come un modo per mascherare il consenso. Quella che si chiama “correzione” in realtà indica un’attività dello spirito che avviene nell’intimo del credente mentre l’aggettivo “fraterna” sta nella modalità della relazione che non toglie nulla al destinatario ma che lo accoglie nel contesto. La promozione fraterna è quella svolta con le dovute competenze e non certamente quella di chi sfrutta i contributi finanziari per la compravendita delle case. In tal senso si può parlare di accoglienza e non più di correzione, si può parlare di intenzione e non più di dottrina.

Un conto è ciò che è scritto ed un altro conto è ciò che si dice o che si fa su ciò che è scritto che varia da persona persona, da luogo a luogo ma sopratutto che varia in base all’esperienza. Nessuno può nascondersi dietro un “errore di competenza” perché nessuno può rimanere indifferente alla violenza. La pastorale può continuare a pascolare ma con il dovuto discernimento e con la dovuta responsabilità di un ruolo super partes che non aderisce a partigianerie o consorterie di sorta. La musica può continuare a cantare ma non certo minacciare né improvvisare improbabili ruoli pastorali. La pedagogia può continuare a insegnare e non “controllare” la coscienza delle persone. In tal senso non esiste la “sottomissione” nelle associazioni di fedeli e il ruolo del gruppo pastorale non è avulso dalla vigilanza e dall’accompagnamento dei fedeli ma sopratutto non è esente da critiche che sono legittime in uno stato di diritto.

L’esperienza di ogni uomo presenta delle evidenza morali e san Tommaso dice che alcune cose ci sembrano buone, altre cattive e la ragione mette in atto la volontà per conseguire il buon fine. Ma la fede cristiana cambia il modo di interpretare tali evidenze, ad es. una persona che viene maltrattata è vista come una vittima che va difesa. Il Vangelo, tuttavia, consente anche di riconoscere che l’aggressore è come un fratello e pertanto va perdonato. In tale cornice cessa la questione pastorale e si apre quella culturale. Non si tratta più di conciliare i caratteri, di esercitare la correzione, o l’eventuale sottomissione, ma si tratta di riconoscere il contributo che la teologia può dare alla preghiera e al rinnovamento. Da qui si spiega la reazione (tardiva?) di alcuni regolamenti delle associazioni di fedeli che non erano stati aggiornati? I motivi sono vari e dipendono molto dalla narrazione che passa attraverso la cultura dominante e ciò che trasmettono i mass-media. È da escludere tuttavia l’ipotesi di alcuni che accusano le associazioni di fedeli di sabotare gli effetti del Concilio Vaticano II (Urquhart G., Le armate del papa, Ponte alle grazie, Firenze, 1995, p. 506).

Tutti i Vangeli possono essere letti come un incontro tra Gesù e chi lo annuncia mentre l’epistolario paolino opera un discernimento nella vita spirituale delle comunità dei fedeli. L’accompagnamento si presenta come il compito affidato ad ogni cristiano nell’individuare il personale cammino di comunione con Cristo nella Chiesa. “Accompagnare” significa permettere allo Spirito di emergere perché la “risposta” è dentro le persone, non nelle norme o nelle autorità, per cui bisogna che ciascuno la cerchi dentro di sé. L’accompagnatore può aiutare la persona nella ricerca che però rimane un’attività intima. La dignità e la trascendenza della persona umana derivano da una fonte naturale (autocoscienza e autodominio) e sovrannaturale (immagine e somiglianza di Dio). Nel diritto naturale vi sono dei valori inalienabili fondati nel cuore dell’uomo che ne prende coscienza nel corso della storia. Ciò significa che l’uomo ha dei diritti a prescindere dai suoi rapporti con la società. È la persona umana, non la società, a fondare i diritti; ne consegue che spetta alla persona umana esigere e rispettare i doveri propri e altrui.

Il Vangelo esclude ogni riduzione moralistica della correzione fraterna e ne esalta il valore teologico. Più che “correzione”, allora, sarebbe opportuno parlare di “promozione” fraterna come mezzo non di punizione ma di miglioramento della persona (Credere oggi, 4, 1995, pp. 51-61). Infatti la vera educazione è quella che guadagna il fratello e non lo emargina. La famiglia ecclesiale, diventa segno visibile della “riconvocazione” dei fratelli dispersi (Gv 12,52) prima ancora di quelli radunati. La Chiesa del resto non è una struttura piramidale divisa tra “santi corretti” e “dannati corrigendi” ma una struttura organica, di parti non intercambiabili, dove vige l’eguaglianza e la reciprocità dei propri membri (Rm 12,5; Gal 3,28; Col 3,15). Ne consegue che non avrebbe senso una Chiesa che corregge senza il bisogno di essere corretta a sua volta. Ma se la Chiesa corregge i suoi fedeli, chi o cosa corregge la Chiesa?

La Chiesa non risponde a nessun’altra legge se non l’amore tra i suoi membri (Gv 17). La missione cristiana non è una sorta di omologazione né di iniziazione esoterica ma una via carismatica basata sull’effusione dello Spirito santo che tuttavia non si esaurisce nella liturgia e nei sacramenti ma si espande nel mondo sotto forma di istituzioni sociali e politiche che dettano norme e regole per il comportamento dei fedeli. L’accompagnamento esprime il suo principio di unità come “sussidiarietà realizzata” per cui ciascuno aiuta l’altro come facilitazione alla fraternità ed alla carità e come prevenzione alla solitudine e all’indifferenza. Tale offerta di salvezza si realizza nell’obbedienza alla nostra coscienza. Una delle caratteristiche fondanti del Vangelo è infatti il senso di appartenenza che può solo derivare da una libera scelta. In altre parole la pressione della conformità ecclesiale deve fare i conti per forza con l’anelito di libertà dei fratelli che sentono di appartenere ad un carisma ma che sopratutto si percepiscono come parte integrante l’uno dell’altro. E ciò perché nessuno basta a sé stesso ma è parte integrante dell’altro. Ogni “tu” è parte di “me” con tutti i suoi pregi e i suoi difetti. San Tommaso la chiama “elemosina spirituale”.

La libertà tuttavia si coniuga con la responsabilità di noi cristiani che è quella di vivere degnamente il carisma che abbiamo ricevuto e di metterlo in pratica nella comunità. E non a caso uno dei canti dell’ArnS recita: “sei tu a far comunità”. La responsabilità è quella di essere amici, fratelli, padri, lavoratori, studenti ciascuno nella sua dimensione di vita. Il cammino di fede diventa il modo per rendere presente Gesù che si rende a sua volta tangibile e sperimentabile nelle relazioni. Il cammino però non è un’ascesi gnoseologica né una setta esoterica dove chi è più avanzato negli anni ha diritto anche ad una coscienza più chiara. Il cammino di fede è alla portata di tutti perché il discernimento e l’accompagnamento sono un’esigenza e non un’emergenza. Scopo del cammino di fede è l’edificazione cristiana che passa per le relazioni sociali. Non quindi un metodo scientifico o una norma astratta dettata dal regolamento ma un popolo nuovo, costituito dai cristiani battezzati, che partecipa alla missione di Cristo affinché il Regno di Dio si realizzi in pienezza. Appartenendo come natura nuova, cambia anche l’autocoscienza della propria personalità in modo tale che il principio fondante dell’agire non è più l’individuo ma la Chiesa che si adatta al contesto culturale in cui è inserita. Amare l’altro non significa perdere le proprie tradizioni e la propria identità “etnica” perché al centro c’è sempre Cristo che si accompagna a tutto ciò che può favorire l’aggregazione e l’evangelizzazione.

Il proclamato “rinnovamento nello Spirito” di per sé richiede motivazioni profonde che molto spesso sono insite nell’animo dei credenti e non sono facili da sondare. Il Signore, che legge nei cuori, aiuta a santificare il cammino interiore e correggere eventuali deviazioni. Sant’Alfonso Maria de Liguori ci insegna che a volte non bisogna attendere gli altri ma bisogna assumere l’iniziativa. Proprio lui, che è vissuto in un periodo drammatico per la Chiesa e di forte squilibrio tra sacro e profano, ha saputo trovare un senso religioso a partire dal mondo profano tale che oggi possiamo riconoscere la musica napoletana come un bene spirituale mondiale. Una spiritualità vissuta senza questo anelito di libertà diventa adeguamento alle pressioni standardizzanti della norma, una sorta di fariseismo, un regredire dalla verità evangelica.

Un accompagnamento sbagliato rischia di disperdere i fratelli ed una volta perso il fratello diventa veramente difficile riattivare il desiderio di fede a meno che non si abbiano degli ideali alti, una meditazione costante del Vangelo e una contemplazione continua del Regno. La Chiesa che disperde i fratelli diventa un qualcosa di elitario e circoscritto a pochi eletti ovvero una sorta di Sinedrio per coloro che appoggiandosi sull’anzianità di servizio ritengono di potersi sedere ai primi posti e di dettare legge ai più ingenui. Non a caso papa Francesco ha ribadito che l’abuso di potere e di coscienza è la forma più grave (Lettera al popolo di Dio, 20 agosto 2018). L’autentico servizio non è soltanto una disposizione dell’animo ma acquista valore in modi di agire concreti. Crescere nello spirito significa essere liberi ma se c’è qualcuno che dice sempre agli altri ciò che deve fare è segno che qualcosa non sta funzionando. Ostacolare in modo ingiustificato questa libertà anche in modo indiretto e ricattatorio, fare indebita pressione sui fedeli entro una dinamica relazionale che tende a soggiogare e a legare le persone al proprio ruolo, significa esercitare un “plagio mentale” (ex art. 603 c.p.) che è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 96 del 9 aprile 1981. Ogni persona ha il diritto ad essere accompagnata in una relazione rispettosa della propria coscienza.

La dinamica dell’abuso segue varie fasi. Si inizia da una relazione di fiducia come un’amicizia o un ruolo ricoperto o un servizio condiviso all’interno della Chiesa. L’uno si apre all’altro perché c’è una richiesta di attenzione e di condivisione. L’abuso si verifica quando l’uno sfrutta tale apertura per “sostituirsi” alla coscienza dell’altro, per imporre un proprio punto di vista, mascherando la fiducia con il potere che il proprio ruolo o servizio esercita. Non c’è la discussione del problema ma si impone una soluzione in maniera arbitraria. Non c’è educazione alla libertà ma solo soggezione alla prepotenza. Il passo successivo dipende dalle varie giustificazioni o false motivazioni dedotte per “coprire” l’abuso. Le conseguenze per la vittima vanno dalla perdita di autostima alla dipendenza indotta, dall’ansia a vere e proprie forme di plagio mentale. A volte gli stessi autori degli abusi sono stati abusati a loro volta e reiterano l’abuso perché non sono stati capaci di rielaborare il trauma. In questi soggetti si viene a perdere il senso di colpa di modo che qualunque azione anche la più cinica appare benevola.

Al giorno d’oggi si segnalano le numerose denunzie di plagio delle persone, pervenute alla CEI e al centro di ascolto Gris di Roma dove “le richieste riguardavano soprattutto il Movimento Netocatecumenale e l’Opus Dei” (Di Marzio R., Nuove religioni e sette. La psicologia di fronte alle nuove forme di culto, Magi, Roma, 2010, p. 85). Guarire dagli abusi non è semplice. Le terapie sono varie e durano diverso tempo e a volte non bastano neppure quelle. Fermo restando la necessità di dare spazio alla scienza ed alla medicina, il Vangelo ci insegna che non c’è miglior guarigione del perdono. Sentirsi perdonati e perdonare non è un dovere ma una necessità di vita cristiana. Perdonare significa superare i propri limiti e quelli altrui. È un “dono”: se non ci si sente amati da Dio Padre, non è possibile amare a propria volta. Il perdono oggi è in crisi perché la società si è svuotata del senso del peccato e si è rivestita di narcisismo di modo che il senso di colpa è visto come una forma di debolezza. L’integrazione del senso di colpa con un adeguato accompagnamento, invece, consente di sviluppare il discernimento e una corretta autostima.

Il legame tra il discorso di chi si pone delle domande e cerca delle risposte è un fatto che ben ricorda i “cattivi maestri” di Socrate secondo cui colui che insegna a pensare e a vivere in maniera morale dovrebbe utilizzare un linguaggio chiaro e senza fini reconditi. In altre parole il dialogo senza possibilità di decidere si riduce ad un ruolo di strumento e di abominevole dominio. Questo è il motivo per cui alla base di ogni discernimento e di ogni accompagnamento ci dovrebbe essere la possibilità per le parti di decidere insieme sul da farsi senza imporre il proprio punto di vista ma pervenire ad una soluzione condivisa. Considerare il linguaggio solo come mezzo e strumento normativo significa consegnarlo al dominio di chi ne impone le regole. Questo è il problema dei regolamenti delle associazioni di fedeli. Le parole sono “vive”, hanno una storia, una provenienza ed un’identità etnica che esula da ogni logica schiavizzante. Finché questa cultura vive, la rende indisponibile all’arbitrio esterno. Sono parole in quanto “dette” e quindi libere dal potere di coercizione della violenza.

Prima di concludere questo lungo articolo non posso che ringraziare coloro ai quali sono debitore di molte delle riflessioni che sono qui citate. Innanzitutto ringrazio don Carlo, sacerdote salesiano, perché grazie a don Bosco esiste un’educazione cristiana che rispetta la libertà umana. Ringrazio A.Y. che è stato uno dei primi stranieri ad essere accolti in città per avermi insegnato quel virtuoso ciclo di accoglienza (coloro che sono stati accolti e che accolgono a loro volta) che rimanda a tante storie di fraternità che non sono scontate in un paese di “frontiera” come il nostro. Infine ringrazio Angela e la sua nuova creatura che nascerà perché non ci può essere un lavoro di cura senza la speranza di un mondo migliore. 

Siglario

ArnS = Associazione Rinnovamento nello Spirito
Art. = articolo
Can = Codice di diritto canonico
CL = Comunione e liberazione
CN = Cammino neocatecumenale
Cp = Codice penale
co. = comma
Col = Lettera ai Colossesi
Cor = Lettera ai Corinzi
Dt = Libro del Deuteronomio
EV = Evangelii Gaudium
Ef = Lettera agli Efesini
Ez = Libro del profeta Ezechiele
Gal = Lettera ai Galati
Gv = Vangelo secondo Giovanni
Lc = Vangelo secondo Luca
LG = Lumen Gentium
Lv = Libro del Levitico
Mc = Vangelo secondo Marco
MF = Movimento dei Focolari
Mt = Vangelo secondo Matteo
Nm = Libro dei Numeri
NT = Nuovo Testamento
OD = Opus Dei
OGMR = Ordinamento generale del messale romano – Ufficio liturgico nazionale
Re = Libro dei Re
Rm = Lettera ai Romani
SC = Costituzione dogmatica “Sacrosanctum concilium”
Tes = Lettera ai Tessalonicesi
Tm = Lettera a Timoteo
VT = Vecchio Testamento
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Canti deprimenti, inadatti, eseguiti senza alcuna tecnica vocale, quindi, calanti e inascoltabili: lo scempio neocatekiko a Loreto, 21 aprile 2022 https://www.avvenire.it/attualita/pagine/la-maestra-sospesa-per-l-ave-maria-non-ho-fatto-nulla-di-male

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