A che serve la filosofia? Equivoci e fraintendimenti in Martin Heidegger

Nato a Messkirch nel Baden-Württemberg in Germania il 26 settembre 1889 da famiglia cattolica Martin Heidegger frequentò il collegio dei gesuiti e la facoltà di teologia. Per motivi di salute rinunciò alla vocazione religiosa e si dedicò alla filosofia dove si laureò nel 1913 con una tesi su “La dottrina del giudizio nello psicologismo”. A partire dal 1918 fu assistente di Edmund Husserl a Friburgo. Nel 1927 pubblicò il suo capolavoro “Essere e tempo” (Sein und zeit). Nel 1933 aderì al nazismo e fu eletto rettore dell’università di Friburgo da cui rassegnò le dimissioni l’anno dopo pur continuando ad esercitare l’insegnamento. Il libro “Introduzione alla metafisica” raccoglie una serie di lezioni tenute all’università di Friburgo nel 1935 sulla metafisica intesa come introduzione alla domanda fondamentale: “perché in generale vi è l’essente e non il nulla?”

Si tratta di una serie di concetti che erano già stati elaborati in “Essere e tempo” e che inaugurano la sua filosofia dell’esistenza. Il linguaggio è la sede in cui si attua la determinazione della nostra storicità da parte dell’essere: la storia di un’epoca è determinata dal rapporto tra uomo e suo essere che si configura come linguaggio. L’accenno alla situazione politica tedesca di quegli anni mette a confronto il rapporto tra Russia e America come società massificate dove nessuna delle due riesce a prevalere sull’altra con la conseguenza di una sorta di “tecnica planetaria” come estremo punto di arrivo dell’oblio dell’essere. Le motivazioni di formulare un corso sulla metafisica risiedono nello stesso concetto di apprendimento in quanto il possedere delle mere nozioni non è “sapere” anche quando queste nozioni sono organizzate in un corso con degli esami.

Il sapere si costruisce nella ricerca della verità che è un interrogarsi sull’essente. Chi possiede un sapere già prefabbricato non ha più bisogno di apprendere in quanto ha finito d’imparare mentre il sapiente è colui che comprende di dover sempre di nuovo imparare (Socrate dice “so di non sapere”). L’apprendimento quindi presuppone l’interrogazione che è poi la risoluzione di poter stare nella manifestazione dell’essente. Non basta inoltre porsi delle semplici domande ma bisogna farlo in modo sviluppato ed organizzato. La metafisica per Heiddeger quindi rappresenta qualcosa che va oltre il pensiero ontico (che parla dell’essere) scambiandolo fin da principio con l’essente e pensandolo sul suo modello. I singoli ed i popoli si pongono una quantità di domande nel corso del loro sviluppo storico attraverso i secoli. Cercare le cause significa indagare la ragione, investigare e tutto ciò che viene investigato riporta alle cause.

Ciò che noi intendiamo considerare è proprio l’essente nella sua totalità. Tuttavia c’è un essente che si fa avanti sempre di nuovo con insistenza in questo domandare e cioè l’uomo. Ma se intendiamo perseguire nel suo vero significato e fino in fondo la domanda sulle cause allora bisogna evitare di porre in primo piano gli uomini. Ciò dimostra che la filosofia non è una disciplina meramente antropologica. Questo interrogarsi sul perché delle cose (o delle cause), in quanto costituisce una domanda sull’essente come tale nella sua totalità, ci porta a considerare il “salto” (sprung) mediante il quale l’uomo abbandona ogni sicurezza nei riguardi del proprio essere (dasein). Il nostro domandare non è ancora il “salto” prima del quale occorre un passaggio di trasformazione. Il “salto” fa sorgere a sé stesso il proprio fondamento, lo realizza e tale salto costituisce una sorta di antesignano del salto vero e proprio perciò sarà didatticamente corretto distinguerlo in un termine che chiameremo “salto originario” (Ur-sprung) in quanto fa sorgere a sé stesso il proprio fondamento.

In altre parole la domanda “perché vi è in generale l’essere e non il nulla?” fa sorgere la causa che ci induce a riconoscerla come la domanda originaria. Più la domanda scava nelle cause e nelle origini, più è vasta e profonda di significato. Nessun domandare, neppur quello concernente il benché minimo problema scientifico, può comprendere sé stesso se non si pone la domanda fondamentale, es. la Bibbia come fonte rivelata e come verità divina in realtà è stata creata da Dio inteso come creatore increato. La fede che non si espone alla possibilità dell’incredulità non è neppure una fede ma una convenzione stipulata con sé medesimo di attenersi in futuro al dogma come a una qualunque tradizione. Non si tratta in questo caso né di un credere né di un interrogare ma di semplice indifferentismo.

Esiste senza dubbio una elaborazione problematica riflessa nell’esperienza cristiana nel mondo, vale a dire la fede ma questa è materia della teologia che però si ferma al dogma. La filosofia invece si interroga a fondo senza esaurire l’inesauribile mediante rivelazione di quanto aveva chiesto. Sembra un gioco di parole ma esprime in maniera efficace la filosofia di Heidegger che tenta di addentrarsi in un mondo senza dogmi e senza autorità ma sopratutto senza attualità. Ogni interrogarsi della filosofia permane necessariamente inattuale e ciò perché la filosofia si spinge sempre più avanti del suo presente attuale ed inoltre perché ricongiunge il proprio presente al suo passato. In ogni caso la filosofia permane un genere di disciplina che non si lascia attualizzare e, al contempo, sottopone alla propria misura il tempo.

L’inattualità della filosofia la rende autonoma e inafferrabile ai grandi meccanismi di consenso del presente, infatti, se dovesse accadere che una filosofia diventasse di moda, allora non sarebbe più tale ma diventerebbe uno strumento da sfruttare per gli interessi di un dato momento o di un tal dei tali. Ne consegue che la filosofia non è qualcosa che si può apprendere in maniera istantanea come una nozione tecnica o una formula matematica. Ma ciò che è inutilizzabile può costituire una straordinaria risorsa anche per il più recondito degli uomini o dei popoli, es. l’annuncio profetico. Se la filosofia è inattuale e incomprensibile come la si può capire? L’unico modo di capire la filosofia è di avvicinarsi gradualmente partendo dalle sue abitudini. La filosofia rappresenta una delle poche possibilità di cui l’uomo nella sua esistenza storica dispone che siano veramente autonome e creatrici.

I fraintendimenti correnti della filosofia sono innumerevoli ma sono necessari per indurre le persone a chiarirsi. Senza chiarimenti la comunicazione sarebbe un puro e continuo dogma. Sono due i principali fraintendimenti che chiariscono la situazione presente e futura della filosofia: il concepire pretese troppo grandi e lo stravolgere il senso delle cose. La filosofia mira ad enucleare i fondamenti primi ed ultimi dell’essente di modo che l’uomo possa espressamente ricavarne un’interpretazione su sé stesso. Di qui si genera l’illusione che la filosofia possa fornire in ogni epoca le basi su cui edificare una civiltà. Tale speranze e pretese tuttavia sono destinate a fallire perché fuorviano dal reale potere della filosofia. Per lo più questa pretesa eccessiva si traduce in una sua svalutazione.

La filosofia non può mai essere immediatamente apportatrice di un’attività tesa a suscitare una situazione storica per il semplice fatto che ha sempre a che fare con la minoranza di coloro che sono dotati di grande creatività intellettiva e quindi che possono compiere grandi trasformazioni creative. La filosofia nella sua vera essenza può – e deve – contribuire a dare un pensiero che schiuda le vie del sapere capace di fornire a ogni cosa la misura e il posto che le spetta, in cui un popolo possa comprendere e attuare il proprio destino nella storia. In questo senso il compito della filosofia è di sistematizzare il sapere come ha fatto la scolastica nel medioevo.

Il secondo dei fraintendimenti accennati, dopo il concepire imprese troppo grandi, è lo stravolgere il senso delle cose. Ci si attende, infatti, che la filosofia promuova o acceleri l’attività culturale contribuendo a renderla più agevole. Ma in realtà la filosofia le complica e rende le cose molto più difficili e il suo modo di comunicare attraverso delle aporie appare inconcepibile e addirittura folle per il senso comune. Il compito della filosofia consiste in realtà nell’appesantimento (erschwerung) dell’esserci storico e dell’essere stesso. L’appesantimento è inteso qui non come difficoltà a comprendere le cose ma come tentativo di conferirne un valore migliore. Gli equivoci di cui è intrisa la filosofia nascono non tanto dalla difficoltà dei ragionamenti o dei termini filosofici ma dal comportamento dei professori di filosofia che non riescono a trasmetterla. Si ricava così l’impressione che la filosofia sia una disciplina come le altre, effimera, finalizzata a meri scopi accademici ma in realtà è molto di più.

È quanto mai legittimo affermare che “la filosofia non serve a niente” ma sarebbe sbagliato credere che questo giudizio sia concluso. Posto infatti che noi non possiamo farcene nulla della filosofia, possiamo chiederci se non sia piuttosto la filosofia a fare qualcosa di noi. Il nostro interrogare ci spinge al di là dell’usuale e di ciò che rientra nell’ordine quotidiano delle cose. Lo stesso domandare è qualcosa di straordinario se pensiamo che l’uomo potrebbe benissimo soffermarsi a fare il minimo necessario per vivere. Filosofare è uno straordinario porre domande su ciò che è fuori dell’ordinario.

All’epoca del primo e decisivo fiorire della filosofia occidentale presso i Greci dal quale ha avuto origine la domanda sull’essente come tale nella sua totalità, l’essente era denominato “physis” che indica la natura. In realtà la traduzione latina di “physis” con “natura”, che significa letteralmente “nascita”, non rende ragione del termine distruggendone l’autentica vocazione filosofica. L’errata traduzione dei termini filosofici costituisce il primo passo del processo di “imprigionamento e alienazione” dell’originaria essenza della filosofia greca. Non a caso la traduzione latina fu asservita al cristianesimo e al medioevo cristiano che si prolunga nella filosofia moderna fornendo nozioni e termini che vengono ancora oggi usati per studiare le origini del pensiero occidentale (il che è ormai considerato superato). Il nostro compito invece è di saltare tutto questo processo di deformazione e degradazione per riconquistare la vera forza evocativa della lingua e delle parole in quanto è solo nelle parole e nella lingua che le cose sono e divengono.

L’uso incontrollato della lingua, la vuota chiacchiera e le frasi fatte, concorrono a far perdere l’autentico rapporto con le cose. Qual’è dunque la vera origine della parole “physis”? Ciò che si schiude da sé stesso, il crescere e far crescere. La “physis” la si può individuare nei fenomeni celesti, nell’ondosità marina, nella crescita della vegetazione, nel parto di un cucciolo di animale, etc. Ma la “physis” non designa semplicemente quei fenomeni che usiamo attribuire in natura ma è lo stesso “essere” in forza del quale l’essente diventa osservabile. È in base ad una fondamentale esperienza dell’essere che i Greci hanno capito come trattare la “physis”. In questo processo di schiudersi-imporsi si trovano inclusi sia il “divenire” che “l’essere”. In tal senso quella dei Greci può definirsi come una filosofia della natura, un modo di rappresentare le cose sotto la lente della natura materiale.

L’inizio della filosofia greca produce allora l’impressione che il pensiero occidentale abbia avuto origine dai Greci come se questi fossero un popolo di poco migliore dei Maori o dei primitivi polinesiani. In realtà anche i Maori e i polinesiani avevano dei sistemi di pensiero che sono stati studiati dagli antropologi e che per una serie di ragioni sono sfuggiti al circuito accademico. I Greci chiamavano l’essente nella sua totalità “physis” talvolta contrapponendolo a “tecnè” che non indica l’arte né la tecnica ma un sapere organizzativo. Ma abbiamo detto sopra che la filosofia non è qualcosa che si può ingabbiare in rigidi schemi ed ecco che allora interviene la metafisica laddove la domanda procede al di là (metà) della natura (fisica).

Torniamo alla domanda fondamentale: “perché in generale c’è l’essente e non il nulla?” e analizziamola meglio. Possiamo scomporre la domanda in 3 parti: l’ “interrogato” (indicazione di ciò che è sottoposto a domanda), il “ricercato” (indicazione di ciò che si trova) e il “domandato” (indicazione di ciò su cui verte la domanda). L’interrogato è l’essente, il ricercato è l’essere, mentre il domandato è l’essenza (del discorso o logos-ragione) che sussiste in sé senza aver bisogno delle altre due. Il “nulla” in realtà è un ornamento del discorso che non aggiunge e non toglie nulla al predicato. Avremmo potuto dire semplicemente “perché in generale c’è l’essente?” ma la filosofia si è sempre posta il problema del fondamento dell’essetene da cui ne consegue che, per analogia, si è posta anche il problema del non-essente, il nulla appunto. Ma parlare solamente del nulla non ha senso ed ecco perché la si accompagna all’essente. Il nulla permane fondamentalmente inaccessibile a ogni scienza.

Ogni pensiero scientifico è solo una forma derivata del pensiero filosofico. La filosofia non nasce dalla scienza né dalla teologia. La filosofia non si lascia ammaestrare negli schemi scientifici o teologici. La filosofia si trova un un piano sovraordinato rispetto alle altre discipline. Solo la poesia appartiene al medesimo ordine ma il poetare e il filosofare non sono identici. Parlare del nulla da uno scienziato può essere un’assurdità mentre può essere plausibile per un poeta e ciò non per un minor rigore ma perché nella poesia sussiste una superiorità dello spirito. L’essente “è” un dato di fatto, qualcosa che sta di fronte all’uomo e come tale rintracciabile in qualsiasi momento, indagabile in ogni spazio. Il domandare procede immediatamente verso un fondamento. L’essente nella sua totalità è qualcosa di sussistente.

Ritorniamo alla domanda fondamentale. Ci si chiede: dov’è e in che consiste il suo fondamento? È sottinteso che si va in cerca di un altro essente di grado più elevato. In tal modo però si rischia di uscire dall’essente nella sua totalità. Ed ecco quindi che torna utile il nulla che in qualche modo riequilibra la ricerca impedendo di rimanere al puro essente come ad un dato indubitabile. L’essente viene mantenuto nella possibilità del non essere e non è più un semplice sussistente a qualcosa di più grande. Analogamente cambia anche l’accezione di “perché” che non è più solo un avverbio interrogativo o esplicativo ma è un fondamento in grado di fondare il dominio dell’essente come vittoria sul nulla. Il “perché” in altre parole si pone come uno strumento didattico senza però modificare la qualità dell’essente o del nulla. In cosa consiste questa differenza? L’essente significa “ciò che è”, es. nel caso del gessetto, usato per scrivere sulla lavagna, corrisponde alla massa di grigio tendente al bianco di una forma vagamente cilindrica, leggera e friabile. L’essente significa anche ciò che “fa” sì che la cosa sia un essente anziché non essente e quindi una sostanza, l’ousia:

“Questo pezzo di gesso è una cosa estesa, relativamente solida, di forma determinata, d’un grigio tendente al bianco e, inoltre, una cosa per scrivere. Ora, come a questa cosa appartiene l’essere qui, le appartiene anche la possibilità di non essere qui e di non essere di tale grandezza. La possibilità di venir usata per scrivere sulla lavagna non è solo un’aggiunta che noi facciamo alla cosa col nostro pensiero. La cosa stessa, in quanto è questo essente, si trova in questa possibilità, altrimenti non sarebbe del gesso per scrivere. Allo stesso modo ogni essente possiede, a proprio modo, un’analoga possibilità. Il gesso ha questa possibilità. Esso possiede in sé stesso una determinata qualificazione per un determinato uso. Certamente, nell’individuare, nel gesso, questa possibilità, siamo avvezzi e portati a dire che una tal cosa non si vede e non si tocca. Ma è, questo, un pregiudizio. Il dissiparlo compete, anche, allo svilupparsi della nostra domanda. Per il momento, essa ha però soltanto il compito di svelarci l’essente nella sua oscillazione fra essere e non essere. In quanto resiste alla possibilità estrema del non essere, l’essente si mantiene nell’essere, senza con ciò aver tuttavia oltre” (Introduzione alla metafisica, pp. 40-41).

In greco antico “to on” può assumere due significati: “ta onta” (entia) e “to einai” (esse). Ciò che concerne il pezzo di gesso l’abbiamo già detto. Possiamo anche scorgere facilmente che la cosa in sé può anche non essere e che non vi sia alcuna necessità che questo gesso sia qui. In precedenza nell’enumerare gli accidenti (caratteristiche) del gesso non vi abbiamo compreso l’essere ma solo la sostanza: “la massa di grigio tendente al bianco di una forma vagamente cilindrica, leggera e friabile”. L’essente ci viene incontro da ogni parte, ci circonda, ci trascina, ci esalta e ci delude. L’essere quindi è un semplice “è”, un dato di fatto e senza accidenti. Non è possibile dunque conoscere il fondamento dell’essente senza il suo essere. Mentre l’essente lo possiamo cogliere direttamente nei suoi accidenti, l’essere non lo possiamo cogliere direttamente. L’essere quindi ha un valore simile al nulla ma a differenza di questi ha un senso parlarne perché non scade nel nichilismo. Lo dimostrano le conseguenze sulla storia dei popoli: gli uomini nelle loro più grandi imprese intrattengono una relazione con l’essente ma allo stesso tempo senza saperlo se ne allontanano determinando la loro decadenza.

In un mondo dominato dalla tecnica disorganizzata del duopolio Usa-Urss lo spirito europeo ne risulta sconfitto. La decadenza spirituale della terra è così avanzata che i popoli rischiano di perdere l’estrema forza dello spirito: la fuga degli dei, la distruzione ecologica del mondo, il sospetto verso tutto ciò che è libero ha raggiunto una tale proporzione da mettere in discussione l’esistenza stessa di un popolo come quello tedesco che – secondo Heiddeger – è il popolo metafisico per eccellenza. L’essere quindi si presenta come un concetto generale che accoglie tutti gli altri concetti. Ciò ci porta inevitabilmente a parlare di “ontologia” il cui termine appare per la prima volta nel XVII secolo per indicare il costituirsi di una dottrina dell’ente come disciplina filosofica che consiste nella sistematizzazione del sapere. L’ontologia quindi è la disciplina che studia l’essere mentre qui ci interessiamo della metafisica che studia l’essente. Siamo dunque su piani separati sebbene le questioni filosofiche non possono essere trattate come se potessero essere messe da parte. Ne consegue che per dimostrare qualcosa occorre premettere delle osservazioni e formulare delle affermazioni.

Il proporsi della domanda metafisica fondamentale costituisce pertanto una domandare di carattere storico. Ma mentre la storia indaga il fatto temporale, la filosofia indaga il fatto sovratemporale. La filosofia non è storica se non in quanto si attua nel corso del tempo. In tal senso il carattere storico si attribuisce al domandare metafisico come qualcosa di ovvio e ciò perché metafisica e ontologia non sono scienze di per sé mentre la storia ha dei limiti ben precisi come disciplina e come finalità. Non esiste infatti la storia dell’infinito. La scienza storica può soltanto deformare il rapporto tra origine e termine fraintendendolo o riducendolo a semplice conoscenza antiquaria. In altre parole la scienza storica non può istituire un rapporto storico alla storia mentre invece solo nella filosofia, ed in particolare nella metafisica, è possibile costruire dei rapporti essenziali all’essente. La storia non significa semplicemente il tempo passato né la mera attualità la quale non “accade” ma “trascorre”.

La storia come accadimento è un determinarsi a partire dal futuro assumendo il passato e così agendo e subendo il presente che dilegua nell’accadere. Il fatto di porsi la domanda metafisica fondamentale costituisce qualcosa di storico in quanto l’accadere dell’essere umano risulta aperto a possibilità e attualità imperscrutati. In questo domandare il nostro essere si presenta davanti alla storia in quanto chiamato a decidersi. E ciò non tanto per un problema morale o ideologico ma in quanto la domanda fondamentale e l’attitudine stessa alla domanda sono in sé storiche in quanto si mantengono nell’accadere. Ritorniamo ai problemi della società di oggi: che si intende per oscuramento del mondo? Il mondo qui è inteso fenomenologicamente come qualcosa di spirituale che trascende l’essere umano.

Lo scoiattolo che mangia la nocciola non ha un mondo filosofico proprio in quanto segue la sua natura animale. L’oscuramento del suo mondo però lo porterebbe all’estinzione perché anche lo scoiattolo deve avere uno spirito di adattamento all’ambiente. Pertanto l’oscuramento del mondo implica un depotenziamento dello spirito, il suo fraintendimento. Nel XIX secolo si è verificata la dissoluzione dell’idealismo tedesco. Filosoficamente parlando l’esserci è scivolato in un mondo privo di quella profondità di cui l’essenziale godeva e tutto è stato ridotto al medesimo livello. La dimensione predominante è divenuta quella dell’estensione e del numero. Il saper fare non designa più la capacità ma solo una certa routine dove ognuno può apprendere automaticamente le cose senza dispendio di risorse. In America e in Russia la mediocrità fa da padrona insieme all’indifferentismo ed alla banalità. Ne seguono tre aspetti:

– la trasformazione dello spirito in intelligenza intesa come semplice raziocinio che è il pensiero ridotto a pura organizzazione del sapere (tecnè);

– la strumentalizzazione dello spirito per interessi di parte, es. nella regolamentazione dei mezzi di produzione (marxismo) o nella sistematizzazione del sapere (positivismo);

– la pianificazione delle coscienze attraverso i “valori” che si presentano come oggetti autoreferenziali perché necessitano di una convalidazione che vale solo per una data cultura;

Lo spirito è pienezza del potere dato alle potenze dell’essente come tale nella sua totalità. Dove regna lo spirito l’essente come tale diviene sempre più essente ed è per questo motivo che l’interrogarsi sull’essente costituisce una delle condizioni fondamentali per il risveglio dello spirito.

Fin qui abbiamo visto la differenza tra metafisica, ontologia e tra poco vedremo l’etimologia e un primo approccio terminologico all’essere, all’essente e all’esserci. Qui continueremo il ragionamento sull’essere dal punto di vista grammaticale e morfologico. Come si sa i Greci non avevano un grammatica e riconducevano il significato delle parole al loro senso estetico identificabile nella nota sentenza di “bello e buono” (kalos kalogatos). Ma i Greci hanno saputo costruire un sistema di pensiero che non ha pari al mondo anche se ciò non ci costringe ad usare questo principio come presupposto per il nostro corso. I Greci considerano la lingua a partire dalla sua forma scritta, visibile. È qui che la parola si attesta. Dire che la lingua “è” significa che essa sussiste nella parola. Per i Greci l’essere corrisponde alla stabilità di qualcosa che sussiste in sé (ousia). Di conseguenza il non essere corrisponde al caos, di qualcosa che fuoriesce dalla stabilità e che ha bisogno di qualcos’altro per essere. Pertanto l’essente è qualcosa di stabile e che appare ai sensi dell’uomo.

I Greci intendevano la “grammatica” come un sistema che rappresentava la lingua in quanto veramente essente pur in assenza di una vera e propria grammatica come la intendiamo oggi (manuali di testo, analisi logica, etc). Cionondimeno i Greci attribuivano anche un carattere orale alla lingua, la “fonè” su cui fondavano la retorica e la poetica. Cos’è l’etimologia? La più antica radice è “es”, in sanscrito “asus”, “vita”, ciò che è in sé e di per sé sussiste. L’altra radice indoeuropea è “bhu”, in greco “foe”, lo schiudersi, l’imporsi che è stato inteso come “natura” che “cresce”. La “physis” sarebbe di conseguenza ciò che viene alla luce schiudendosi e quindi “apparire” (parousia). La terza radice è “wes”, dal sanscrito “vasami”, che significa “risiedere, trattenersi, comparire”. Da queste tre radici desumiamo le tre significazioni determinate fin dall’origine: vivere, schiudersi e permanere. Tuttavia questi significati primitivi sono via via scomparsi per fare posto al significato astratto di “essere”. In conclusione si può affermare che la lingua procede nel corso della sua evoluzione alla formazione di “infiniti” seppur degradandone il significato facendo cioè in modo che diventasse meno chiaro e impreciso. Non a caso l’infinito, come occorrenza grammaticale, rappresenta un risultato tardivo e non è un caso che è proprio nella forma dell’infinito che i vari dialetti greci si discostano l’uno l’altro.

Quanto detto finora ci induce a ritornare al nostro primo tentativo di caratterizzare l’esperienza e l’interpretazione greca dell’essere. Se facciamo attenzione all’interpretazione corrente dell’infinito, ci accorgiamo che la parola “essere” desume il suo senso dal carattere unitario e determinato dell’orizzonte che presiede alla sua comprensione. In altre parole comprendiamo il sostantivo verbale “essere” a partire dall’infinito, il quale, dal suo canto, mantiene il riferimento alla copula (è) la sua accennata molteplicità (declinazioni). La copula declinata alla terza persona singolare dell’indicativo presente, ha qui la preminenza. L’essere lo si comprende in riferimento al «tu sei », al «voi siete», all’« io sono », o all’« essi sarebbero »… che pure costituiscono tutti, e allo stesso titolo delle copule declinate del verbo “essere” che rimane l’infinito di “è”.

Non a caso ciò che per i latini era “modus” per i greci era “eclissi”, inclinazione verso un lato nel senso di “deviazione dallo stare eretti”. In tal senso l’uso posteriore dell’ “entelechia”, cioè, il “mantenersi nel limite” denota tutto il distacco dei Greci mentre ciò che si pone nel suo limite costituisce la “forma”. Pertanto nella mentalità greca l’esplicarsi per via del contrasto costituisce per ogni cosa il suo principio generatore che produce lo schiudersi ma altresì ne configura la custodia. La lotta (polemos) fa sì che l’ente si ponga come distinto nel contrasto e che acquisti una sua posizione autonoma. Siamo quindi involontariamente portati, quasi non vi fosse altra possibilità, a interpretare l’infinito “essere” come quel significato, già indicato, che ricorda il modo di intendere l’essenza dell’essere da parte dei Greci, una determinatezza che non giunge a noi per caso, ma che domina per lungo tempo la nostra esistenza storica. È nell’esplicarsi del conflitto che si produce il mondo. Di colpo, la nostra ricerca sul modo di determinarsi della parola “essere” assume esplicitamente il suo vero senso di riflessione sull’origine della nostra Storia latente. La domanda: “che cosa ne è dell’essere?” deve mantenersi nella storia dell’essere per potere a sua volta esplicare e mantenere la sua specifica portata storica. A questo proposito, ci atterremo ancora una volta al dire dell’essere.

Allo stesso modo che con la copula (è) ci troviamo di fronte a un modo quanto mai usuale di dire l’essere, così nell’essere ci imbattiamo in 4 formule che invece lo negano:

– essere e divenire: l’essere si mostra come solidità propria dello stabile in sé raccolto tale che questa medesima cosa possiede l’inesauribile ricchezza di essere ogni giorno come al suo primo giorno, es. la filosofia non ha un oggetto dato in partenza ma in genere costituisce un evento che l’essere deve sempre realizzare, pertanto, la verità filosofica si schiude soltanto in divenire. Ciò che risulta decisivo è questa continua riformulazione di ogni singolo passo entro questo divenire.

– essere e apparenza: nell’apparenza non c’è giustapposizione, come nel divenire, ma una derivazione dell’essere, es. il sole può avere l’apparenza di muoversi intorno alla terra solo perché si mostra lucente o caldo. L’apparenza può essere di 3 tipi: splendore, apparire e sembrare. Ora, considerando che lo schiudersi si impone come apparire, ne consegue che l’apparenza conduce all’evidenza ovvero “non latenza” (aleteia) “verità”. La verità intesa come “non latenza” diventa un’accidente dell’essere: l’essente in quanto tale è vero. Nella teologia ellenistica la “doxa” è la gloria di Dio. Il glorificare, il fatto di attribuire delle qualità a Dio, per i Greci ha il valore di procacciare la stabilità. La gloria non è qualcosa di accessorio ma costituisce la modalità dell’essere migliore;

– essere e pensare: ciò che si contrappone al divenire è la costanza mentre ciò che si contrappone all’apparenza è l’idea. Divenire e apparenza non si determinano unicamente in base all’ousia ma in base al pensiero. Dal punto di vista del pensiero giudicante il divenire appare come un non-permanere, un “parà”, un trasporto. Con il costituirsi del razionalismo moderno non si riconosce più altra forma di divenire se non il movimento inteso come cambiamento di luogo. Il fondamento dell’apparenza è il pervertimento del pensiero. L’apparenza diventa così falsità. Il pensiero estende il suo dominio sull’essere e in pari tempo sul nulla;

– dover-essere: mentre essere e pensare procede verso il basso, essere e dovere procede verso l’alto, es. l’idea come ciò che fornisce l’evidenza esige a sua volta una determinante del proprio essere: l’idea di tute le idee è per Platone l’idea di bene (agaton). Il bene qui non designa un valore morale ma qualcosa che sta più in alto di tutti, qualcosa che si trova al di là dell’essere. Così l’essere stesso viene a collocarsi di fronte ad un altro, a qualcosa che lo rimanda e che per certi aspetti lo responsabilizza.

Queste quattro contrapposizioni servono a dimostrare che ciò che si contrappone all’essere è esso stesso essente, pertanto, il concetto di essere non basta a designare tutto ciò che è.

Conclusioni

Quando parliamo di verità intendiamo la conformità tra il pensiero e le cose: una cosa è vera quando al pensiero corrisponde qualcosa. Tale concordanza è tutt’altro che ovvia perché per sapere che le cose interne corrispondano alle cose esterne bisognerebbe sapere già cosa sono le cose che sono fuori. Questa cosa che diamo sempre per scontata è l’ “ho visto”. Tale concezione della verità richiede un fondamento che ci sfugge e tutto ciò che sembra ovvio in realtà non lo è, ad es. il gessetto della lavagna deve essere riconosciuto come tale altrimenti sarebbe una presenza enigmatica. Questa concezione risale ad Aristotele e a Tommaso d’Aquino secondo cui l’adeguazione dell’intelletto alla realtà si basa su uno o più parametri definiti. Heidegger invece torna ad una comprensione di verità diversa dalla metafisica tomistica e più vicina alla filosofia dei greci dove la verità (aletheia) viene tradotta come “sei ciò che bevi o ciò che mangi”.

Un altro punto di interesse della filosofia di Heidegger è che si propone di capire il significato autentico dell’essere laddove Shelling e Leibniz avevano fallito in quanto si erano soffermati sulla ricerca ontologica. Secondo Leibniz l’inesistenza dell’essente è sconfessata dall’esperienza e il nulla è impossibile a priori. Anche Shelling aveva tentato di cercare la risposta alla domanda metafisica tra gli enti giungendo alle stesse conclusioni di Leibniz. Quella di Heidegger invece è un’ontologia fenomenica laddove l’essere è soggetto alla temporalità, al suo carattere storico a cui va ricondotto qualsiasi essere (“dasein” è l’essere gettati nel mondo, in un contesto). Per capire l’essere non bisogna partire dalla sua presenza trascendentale ma dal suo esserci nel mondo. L’uomo posto di fronte alle scelte che deve compiere, ha dapprima una conoscenza ontica del mondo, cioè lo assume come dato, poi però riflettendo perviene ad una conoscenza ontologica cioè delle strutture dell’esserci che danno un senso al mondo.

La tecnica moderna minaccia di dominare sull’uomo che a sua volta crede di essere padrone della tecnica ma in realtà non lo è ma può diventare “pastore” dell’essere inteso come responsabilità verso gli altri. Il prendersi cura, infatti, ha una circospezione, cioè una precomprensione dei rimandi degli enti fra loro: un ente rimanda sempre ad un altro e lo significa in rapporto ad un fine ultimo; tutti questi rimandi fanno capo all’esserci, il quale ha una precomprensione della totalità dei rimandi, totalità che costituisce il mondo.

Bibliografia

Heiddeger M., Introduzione alla metafisica, Presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 1990.
Volli U., Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Bari, 2008.

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